101 è il codice che nelle università americane identifica i corsi che trasmettono le conoscenze di base di ogni materia. Oggi, mentre cambiano la società, le arti, la mediasfera, l’ecosistema, dobbiamo rifondare su nuove basi anche la nostra idea di cultura. O meglio di culture, visto che la cultura da sempre si nutre di pluralità e differenze.
A partire dalle riflessioni sviluppate in Cultura. Un patrimonio per la democrazia (Vita & Pensiero, 2023), cercherò di segnalare in questa rubrica esperienze, ricerche e processi innovativi, per esplorare e discutere con l’aiuto dei lettori di cheFare i nodi problematici di questa svolta culturale. Qui e qui le puntate precedenti
Cultura 101. Ogni quindici giorni un intervento di Oliviero Ponte di Pino per cheFare
Lo aveva spiegato più di vent’anni fa Richard Caves, economista della cultura e studioso dei rapporti tra arti e mercato: nonostante le condizioni di lavoro, l’instabilità, la precarietà, le retribuzioni inadeguate (o inesistenti), i lavoratori della cultura traggono grande soddisfazione e appagamento dalla propria occupazione. E’ la tendenza all’auto-sfruttamento di chi sceglie un mestiere “vocazionale” e si fa “imprenditore di sé stesso”, e questo rende difficile, se non impossibile, bilanciare i tempi di vita e di lavoro. Insomma, sfruttato ma felice.
Questo atteggiamento è una delle ragioni per cui è difficile che la battaglia per migliorare le proprie condizioni parta dai lavoratori della cultura. Ce ne sono ovviamente altre, a cominciare dalla atipicità del settore: molti contratti basati su progetto (ancora di più nell’epoca dei bandi, che sostengono le attività e non le strutture), prevalenza di lavoratori autonomi, freelance e part time (molto più che negli altri settori), imprevedibilità del successo, bassi redditi e assenza di stabilità di reddito e dunque ricorso al doppio o triplo lavoro. Sono numerosi i multiple job holders con doppia carriera, un lavoro nel settore artistico e l’altro in un settore differente, oppure con una doppia carriera nel settore artistico, sia con una diversificazione estensiva tra più settori (per esempio teatro e televisione), oppure attraverso una diversificazione intensiva, nello stesso settore ma svolgendo più professioni (per esempio ballerina e insegnante di danza).
È vero che la tendenza alla precarizzazione è generalizzata: tuttavia la situazione del settore resta peculiare e, come ha evidenziato la pandemia, particolarmente delicata.
Tuttavia, proprio per queste caratteristiche, non è facile intervenire con una politica organica. Alcune indicazioni arrivano dal report pubblicato nel giugno 2023 dall’Unione Europea, The Status and Working Conditions of Artists and Cultural and Creative Professionals (https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/01fafa79-1a13-11ee-806b-01aa75ed71a1/language-en), che fa seguito all’indagine pubblicata nel novembre 2020 (https://culture.ec.europa.eu/news/study-on-artists-working-conditions-published) e alla risoluzione del Parlamento Europeo del 7 giugno 2007 sullo Statuto sociale degli artisti (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-6-2007-0236_EN.html). Il 23 ottobre 2023 il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di creare un framework per migliorare le condizioni di vita e lavoro dei lavoratori del settore culturale e creativo (https://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20231023IPR08139/status-of-the-artist-improve-working-conditions-of-artists-and-cultural-workers).
Il fatto che gli organismi politici europei dedichino grande attenzione al lavoro culturale è un fatto positivo, che prelude a indicazioni più stringenti e puntuali, anche se le competenze in materia culturale e di welfare restano prerogativa soprattutto degli Stati membri. È una notizia particolarmente positiva per l’Italia, dove il mercato del lavoro culturale, “si muove in modo ambiguo, contraddittorio, frammentato, destrutturato e incostante, c’è confusione sullo status giuridico del lavoratore culturale, ma anche sul piano fiscale e previdenziale”, come si legge nell’ampia ricerca curata da Antonio Taormina, Lavoro culturale e occupazione, FrancoAngeli, 2021. Ma, come dimostra il rapporto UE, la complessità del problema è davvero elevata.
In primo luogo è difficile delimitare il settore, fermo restando che la rete delle statistiche di Istat e Eurostat ha maglie troppo larghe e che i codici ATECO sono inadeguati. È possibile decidere di censire (e sostenere) solo gli “artisti”, ovvero scrittori/autori, compositori, coreografi, performer (attori, danzatori, musicisti), artisti visivi e audiovisivi. Ma anche il personale tecnico e amministrativo si trova in analoghe condizioni di disagio. Secondo alcune leggi e regolamenti (per esempio in Germania), nel perimetro rientrano anche i docenti/formatori e i critici. Allargando l’orizzonte all’intero comparto delle industrie culturali e creative, entra in gioco chi lavora nel design, nella moda, negli studi di architettura, nel giornalismo, nelle professioni legate alla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, e alle varie forme di artigianato artistico (anche tradizionale)…
Diventa poi necessario segnare un confine tra professionisti e dilettanti, in una fase in cui la produzione di contenuti non pagata da parte degli utenti (senza copyright) nutre i profitti delle grandi piattaforme online.
Si tratta poi di delimitare gli ambiti dell’intervento. È possibile agire su più livelli: le condizioni di lavoro e le remunerazioni; il welfare e la previdenza; la correttezza nei rapporti di lavoro, a cominciare dalla parità di genere; la formazione permanente; la libertà degli artisti. Questo implica il coinvolgimento di diversi Ministeri: oltre alla Cultura, i dicasteri che si occupano di economia, lavoro e welfare; ma anche di istruzione, università e digitalizzazione. Sulla mobilità internazionale degli artisti, un tema assai caro alla UE, andrebbe coinvolto anche il Ministero degli Esteri.
Inoltre la situazione nei vari Stati dell’UE è davvero assai diversificata: si va dalla Francia, con l’invidiatissimo regime degli intermittents du spectacle, a paesi dove non è riconosciuta alcuna specificità del lavoro culturale, come la Svezia o i Paesi Bassi, dove però il sostegno agli artisti e il welfare in generale sono assai sviluppati.
Un altro nodo riguarda l’opportunità di costituire un albo professionale, che garantisca l’accesso al sostegno. Quali dovrebbero essere i criteri per l’iscrizione? Ce ne possono essere diversi: la documentazione dell’attività (mostre, spettacoli…), un certo numero di giornate lavorative o un reddito minimo annuali, la rilevanza dell’attività artistica sul reddito complessivo, i premi e i riconoscimenti, la formazione professionale presso università e accademie qualificate… È peraltro possibile decidere di consentire l’accesso all’albo a chi rispetta due o più di questi criteri (ai quali se ne possono aggiungere altri). Fermo restando che l’eventuale iscrizione all’albo non deve essere un titolo di merito o un elemento identitario, ma che è il presupposto per accedere a una serie di servizi e facilitazioni.
Anche se poi l’iscrizione all’albo – che implica un ulteriore passaggio burocratico, commissioni e comitati – sembra contraddire uno degli obiettivi su cui insiste il rapporto, ovvero la semplificazione nelle relazioni con i mille sportelli della pubblica amministrazione.
Per quanto riguarda gli obiettivi dell’eventuale riforma del lavoro culturale, il rapporto della UE indica alcune priorità:
# equo compenso dei lavoratori e accesso al welfare;
# formazione permanente (con particolare attenzione a digitale, imprenditorialità, management e sostenibilità ambientale), anche in un’ottica multidisciplinare e cross-settoriale
# capacity building anche delle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro;
# ambienti di lavoro sicuri e inclusivi, e parità di genere;
# applicazione delle direttive europee sul copyright, anche in rapporto alle piattaforme globali;
# mobilità internazionale.
Ovviamente un percorso di questo genere dovrebbe coinvolgere prima di tutto i diretti interessati, ovvero i lavoratori del settore. I mesi della pandemia hanno visto crescere la consapevolezza e la mobilitazione dei lavoratori, con un moltiplicarsi di sigle, associazioni, sindacati più o meno corporativi. Al settore dei freelance sta dando voce ACTA (https://www.actainrete.it/), che sostiene la proposta di legge delle associazioni sul salario minimo e la rappresentanza sindacale presentata da InOltre Alternativa Progressista. Di recente Venezia ha visto la ricerca militante sulle condizioni del lavoro culturale di Biennalocene (https://instituteofradicalimagination.org/2023/04/25/biennalocene-performance-ita/): a partire da un’analisi dell’ecosistema Biennale e da una serie di interviste a precari, stagionali, freelancers, artisti, mediatori, tecnici, addetti alle pulizie, è nata una drammaturgia che ha dato vita a un’assemblea performativa animata dagli stessi intervistati e messa in scena nello spazio pubblico.
Il progetto prende spunto da Art For UBI, un progetto dell’Institute of Radical Imagination iniziato nel 2021 con la scrittura collettiva di un manifesto in cui il mondo dell’arte prende posizione a favore del reddito di cittadinanza universale, Art For UBI (Manifesto) (https://shop.b-r-u-n-o.it/products/art-for-ubi-manifesto).
In queste proposte e mobilitazioni, resta però in secondo piano un aspetto cruciale. A lavorare nella cultura, ci dicono le statistiche, sono soprattutto maschi bianchi del Nord Italia con un elevato livello di istruzione e relativamente più giovani (salvo che nel settore pubblico, dove il mancato turn over ha portato a un invecchiamento dell’età media dei lavoratori). A fare cultura sono di solito i figli di papà plurititolati, che hanno potuto vivere a lungo con redditi nulli, bassi e intermittenti, sia nel corso del lungo curriculum formativo sia nella fase di avvio alla professione, con forme sottopagate di stage, volontariato, tirocini, apprendistati…
Il problema non riguarda solo l’Italia. Una recente ricerca relativa al Regno Unito ha evidenziato che la percentuale di musicisti, artisti e scrittori di origine operaia è la metà rispetto agli anni Cinquanta-Sessanta, dal 16,4% al 7,9% attuale (vedi J. Tapper, Huge decline of working class people in the arts reflects fall in wider society. Study shows the proportion of musicians, writers and artists with working-class origins has shrunk by half since the 1970s, “The Guardian”, 10 dicembre 2022, alla pagina https://www.theguardian.com/culture/2022/dec/10/huge-decline-working-class-people-arts-reflects-society)..
L’arte e la cultura, nelle nostre società, non sono dunque ambiti meritocratici perché basati (soprattutto) sul talento, ma rischiano essere appannaggio di carriere classiste ed esclusive. Non è solo un problema di reddito, o di origini famigliari. Soprattutto nei ruoli apicali, ci sono poche donne, e pochissimi italiane e italiani con background migratorio. Resta molto da fare anche sul versante dell’accessibilità, anche rispetto a quello che avviene in altri paesi europei: sono rarissimi i curatori e le curatrici con disagi fisici e psichici o neurodivergenti.
La mancanza tra i decisori di sguardi altri, di sensibilità alternative, di voci diverse ha un effetto diretto sulle scelte e sulla programmazione delle istituzioni culturali, che restano chiuse nella loro bolla autoreferenziale. Non si tratta solo di scegliere certi temi piuttosto che altri, di rappresentare certi personaggi o realtà piuttosto che altre, ma anche cambiare i linguaggi, i punti di vista, dotandosi di nuovi strumenti sia culturali sia tecnologici.
Non sorprende che per molti cittadini italiani la cultura risulti estranea ai loro interessi e curiosità.
Immagine di copertina da Unsplash, ph. Sean Benesh