I dieci anni del bando cheFare, in un mondo che si è trasformato

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    Sono passati dieci anni, ma per quanto è cambiato il mondo potrebbe anche essere un secolo. Riavvolgiamo il nastro e torniamo agli inizi del 2012: a Zuccotti Park, New York City, è da pochissimi mesi nato il movimento Occupy Wall Street, che con lo slogan “We are the 99%” e con i metodi dell’occupazione e della disobbedienza civile prova a dare una sveglia alla società su un tema che era – ed è tuttora – il grandissimo assente del discorso politico mainstream: la crescita delle diseguaglianze.

    Poco prima, in Spagna, aveva preso vigore il Movimiento 15-M, che verrà poi ricordato con il nome “Indignados” e avrà il suo apice – almeno dal punto di vista mediatico – nella giornata del 15 ottobre 2011, quando sotto questo ombrello si tennero manifestazioni in oltre 900 città e in 82 nazioni.

    Sempre nel 2012 erano ancora in pieno svolgimento le Primavere Arabe, anche se – con l’elezione di Morsi in Egitto o il caos in Libia – si stava già comprendendo che le cose non sarebbero andate per il verso da molti auspicato. Sempre le Primavere Arabe avevano nel frattempo grandemente contribuito alla narrazione dei social network come “megafoni della democrazia”, in grado di dare nuovo potere ai netizen di tutto il mondo e attraverso i quali – per dirla con l’allora segretario di Stato USA Hillary Clinton – diventava ovunque possibile “scoprire i fatti e responsabilizzare i governi”.

    A proposito di Casa Bianca e dintorni: sempre il 2012 era l’anno in cui Barack Obama otteneva il suo secondo mandato, rinnovando alcune delle speranze in lui riposte. Nel nostro piccolo, l’Italia era invece ancora attraversata da quell’onda arancione che aveva avuto il suo apice – tra l’entusiasmo delle decine di migliaia di persone riversate in piazza Duomo – nell’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco di Milano.

    “È stato un momento particolare”, racconta il direttore di cheFare Bertram Niessen. “Un momento di trasformazione del mondo seguito a una fase che, soprattutto per quanto riguarda i movimenti sociali, era invece stata caratterizzata da una certa stanchezza. Da questo punto di vista, anche l’elezione di Obama – per quanto ovviamente da leggere in una chiave di sinistra liberale statunitense – ha contribuito a dare una cornice all’interno della quale l’idea del coinvolgimento pubblico ha iniziato a cambiare. E poi c’erano i movimenti Occupy e degli Indignados che avevano dato nuovo significato al rapporto tra gli spazi pubblici e l’organizzazione dei movimenti, con un importante discorso sulla presa di parola. Dal punto di vista più tecnologico, è invece chiaro come in quegli anni vedevamo ancora i social network, al netto delle criticità già emerse, come il canto del cigno dell’internet anni ’90”.

    Al di là dei termini tecnici, il nostro obiettivo è sempre stato lo stesso: costruire istituzioni culturali e sociali partendo da ambienti ben precisi

    Con gli occhi di oggi, l’ottimismo, l’entusiasmo e le speranze suscitate in quegli anni generano un misto di emozioni contrastanti. Ma più di ogni altra cosa è impossibile sfuggire alla sensazione che molto sia andato storto e che di tutti quei sommovimenti sia rimasto ben poco. “Non sono del tutto d’accordo e non penso che quell’onda si sia spenta completamente”, spiega Bertram. “Dagli Indignados, per esempio, si è comunque generata Podemos, un’evoluzione certo istituzionalizzante ma significativa. Anche il resto non è che sia sparito: da quella fase sono sorte tantissime cose interessanti e si è generata una forte istanza di apertura delle istituzioni che, soprattutto in città come Barcellona ma anche in Italia, ha avuto degli effetti molto concreti. Penso per esempio alla Fondazione Innovazione Urbana di Bologna o al Polo del Novecento di Torino o anche, in maniera diversa, all’occupazione di Macao a Milano o del Teatro Valle a Roma”.

    Ed è proprio in quegli anni – e trovando spinta anche da quelle energie – che nasce il bando cheFare, che nel suo periodo di attività ha finanziato 5 progetti culturali innovativi con 350.000 euro complessivi. Uno strumento nato per aiutare le realtà più legate al mondo della trasformazione culturale a prendere forma, radicarsi e avere un impatto sulla società: “All’epoca non c’erano ancora cose di questo tipo”, spiega il direttore di cheFare. “Abbiamo fatto uno screening di pratiche che stavano emergendo, ma ancora non avevano un nome o una dimensione precisa, penso per esempio all’audience engagement e all’audience development, alle reti territoriali, alle ibridazioni interdisciplinari. Al di là dei termini tecnici, il nostro obiettivo è sempre stato lo stesso: costruire istituzioni culturali e sociali partendo da ambienti ben precisi”.

    Per chi osserva questo mondo da fuori, può essere difficile inquadrare l’impatto che iniziative come il bando di cheFare, e le realtà a esso connesse, hanno concretamente avuto: “Partiamo da un aspetto: i finalisti del premio sono stati più di 20 e i semifinalisti 112. Tutte organizzazioni con tante reti e tanti partner che – anche grazie al nostro bando, come ci viene confermato proprio parlando con loro – hanno guadagnato autoconsapevolezza, sono state aiutate a mettere in piedi una strategia e a cambiare modo di pensare e di agire. Oggi, alcune delle organizzazioni che hanno avuto anche il nostro supporto sono radicate e operano in maniera importante: la Scuola Open Source di Bari ormai è una potenza, mentre la Rete delle Case di Quartiere di Torino, nel bilancio sociale del 2019, ha registrato 450mila presenze in una città di un milione di abitanti. Significa che si è creata un’infrastruttura sociale e culturale molto presente”.

    In una fase politica come quella che stiamo attraversando, pensare che si possa agire a livello sociale e culturale anche su altri fronti, e ottenendo comunque un impatto concreto, permette di conservare una certa dose di ottimismo. Allo stesso tempo, l’idea che attraverso un bando si supportino realtà di un certo tipo, che poi vanno a operare su determinati territori con l’obiettivo di avere un impatto culturale e non solo, potrebbe provocatoriamente ricordare una sorta di “trickle down economy”, applicata però al mondo sociale.

    “Personalmente, sono convinto che l’innovazione sociale per come si è sviluppata nell’ambito anglosassone sia diventata sostanzialmente quello. Il ragionamento che però stiamo provando a fare noi è inverso”, ribatte Bertram. “La domanda che ci poniamo è proprio quale sia il potere istituente che sale dal basso, dalla società civile, e quali siano le proprietà che emergono sempre dal basso e possono iniziare non solo a farsi progetto culturale e sociale, ma a strutturarsi per affrontare il resto del mondo. Comunque, come nostra ispirazione di base, abbiamo il movimento cooperativo e le società di mutuo soccorso, gente che si è unita per dotarsi di una leva di potere. Quindi non ‘trickle down’, ma al contrario ‘bottom up’. Come ci insegna la storia di quel periodo, non si può però fare tutto da soli e bisogna trovare delle alleanze. Molte delle società di mutuo soccorso erano finanziate da filantropi illuminati, con tutte le contraddizioni del caso. Ma le contraddizioni vanno affrontate e non messe da parte”.

    Proprio questo tema delle alleanze e delle contraddizioni ci porta verso due aspetti fondamentali: la decisione, dopo tre anni, di chiudere il bando (proseguendo ovviamente tutte le altre attività di cheFare) e le critiche che possono venire rivolte da sinistra a chi opera in partnership con associazioni profondamente istituzionali e legate al mondo bancario, com’è il caso di Fondazione Compagnia di San Paolo o Fondazione Cariplo. “Partiamo dal bando. La decisione di chiudere quell’attività è legata a una semplice ragione: dal lato nostro, noi abbiamo anticipato quanto, poco dopo, hanno iniziato a fare altri soggetti, con molte più risorse economiche e non solo. Il meccanismo che abbiamo contribuito a mettere in moto funziona, ma, nel momento in cui anche fondazioni bancarie, regioni o addirittura ministeri hanno iniziato ad andare in quella direzione, abbiamo capito che la nostra ragion d’essere poteva essere più quella di agevolatori che di erogatori”.

    Come nostra ispirazione di base, abbiamo il movimento cooperativo e le società di mutuo soccorso

    C’è però una parte di mondo che potrebbe criticare, da una posizione radicale, proprio queste collaborazioni, perché gli inevitabili compromessi a cui costringono annullano, nella loro interpretazione, il valore stesso dell’operazione. “Prima di tutto, io ho un profondo rispetto per le pratiche radicali. Secondo una parte di quel mondo, diluire le istanze politiche e conflittuali dentro un’arena pubblica significa finire fagocitati. Di fatto, da quel punto di vista, il solo fatto che esista l’innovazione sociale è una sconfitta, perché i meccanismi impliciti del sistema non possono che disinnescarla. Allo stesso tempo sono però convinto che – se si sta in un campo pubblico, dove quindi devi confrontarti con altri soggetti – è fondamentale posizionarsi in modo molto chiaro e fare pressione sugli stakeholder affinché i tuoi temi, che sono fondamentalmente l’accesso alla cultura e la redistribuzione delle risorse, siano al centro del confronto. Per noi è quello l’orizzonte: aiutare a creare delle organizzazioni che abbiano una leva economica e che siano in grado di avere un impatto reale e, allo stesso tempo, lavorare sulla costruzione di idee, immaginari e letture critiche che cambino lo stato delle cose.

    Una società sana è una società in grado di produrre nuove istituzioni. Ecco, se dovessi sintetizzare al massimo il ruolo di cheFare direi che è questo: facilitare la nascita di nuove istituzioni che sappiano affrontare le sfide politiche e culturali”.

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