Geolier e l’Italia Neo-Plebea

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    Almeno dai tempi della Milano da bere, Sanremo è stata la vetrina di un’Italia moderna, cosmopolita e aperta al mondo. Questa identità nazionale è stata l’aspirazione di un ceto medio post-industriale legato a quell’economia del sapere che, per qualche decennio, sembrava trovare anche in Italia le condizioni per poter emergere. Ha trovato il suo specchio nell’immagine di Milano come il vero centro produttivo e creativo del paese. Questo legame è persistito oltre i tempi più recenti dell’Expo e di Chiara Ferragni (un’epoca che ora pare che stia anch’essa per chiudersi), lasciando un lieve eco di modernità sotto forma di valori progressisti, hipster e milanesi, come il prudente appello di Ghali alla pace o le prese di posizione pro-LGBTQ (anche se più prevalenti nel festival dell’anno scorso).

    Da circa un decennio, l’egemonia milanese a Sanremo ha cominciato a mostrare le prime crepe, e quest’anno è stato aperto un varco significativo. Non tanto per gli interventi di censura da parte di una Rai dedicata a tentativi sempre più disperati di mantenere una sembianza di normalità – qui si parla di canzoni, appunto – anche se fuori dall’Ariston rombano i trattori… La vera rottura di quest’anno è stato invece il trionfo dell’Italia neo-plebea (per usare il titolo del recente libro di Paolo Perulli e Luciano Vettoretto) nella figura di Geolier, che guarda caso ha stravinto il voto popolare, per essere sconfitto solo dal mondo istituzionale. Esprime un’Italia non più proletaria, priva del sogno organizzato del Sol dell’avvenire, ma plebea, schiacciata come i storici Lazzari napoletani in un eterno presente fatto di soluzioni ingenui e l’arte d’arrangiarsi per sopravvivere in un mondo sempre più precario.

    Geolier, ovviamente, non è semplicemente un Masaniello con lo smartphone, ma rappresenta la napoletanità nella sua versione odierna, filtrata per TikTok, le periferie e il turismo. Un’identità che si mostra adeguata come espressione culturale dell’emergente condizione neo-plebea del paese intero, perché a Napoli la modernità industriale è arrivata solo in parte. Mentre alcune zone della città come Bagnoli e San Giovanni hanno visto lo svilupparsi di una forte presenza operaia che è arrivata ad articolare la sua visione della città sotto il sindaco Valenzi, questa cultura industriale ha avuto un impatto minore sul cuore della città. Il Centro Storico è rimasto essenzialmente plebeo, popolato da piccoli artigiani (la cui presenza si è però notevolmente ridotta negli ultimi decenni), assieme a una persistente massa popolare impegnata in piccoli commerci, a volte legati all’economia informale, e abituata a ‘arrangiarsi’ e lottare per la sopravvivenza. Questa plebe ora occupa gli splendidi palazzi seicenteschi lasciati dalle famiglie nobiliari in fuga dalle ripetute epidemie di peste e colera, ed è stata poi, negli anni ’70, in parte trasferita nelle periferie come Scampia o Secondigliano, dove ora Geolier saluta i fan dal balcone.

    In altre parole, la modernità a Napoli è arrivata ma non ha assorbito una componente pre-moderna. Quest’ultima si è saldata con la rappresentazione folklorica dell’identità napoletana che ha resistito ad ogni altra rappresentazione collettiva, come quella della classe operaia o quella, più recente, della borghesia progressista incarnata nel sindaco De Magistris. (A Napoli, la borghesia rimane ‘una cozza sulla roccia’, per usare l’espressione dello storico Giuseppe Galasso). Per oltre un secolo, pre-modernità e una mai compiuta modernità hanno convissuto e si sono amalgamati in una cultura popolare che ora pare trovare il suo momento storico.

    Per questo motivo, la plebe napoletana si adatta bene alla condizione del ‘realismo capitalista’ di Fisheriana memoria, dove non c’è futuro oltre il presente, perché a Napoli questo riflette uno stato naturale delle cose, un senso comune di origini pre-capitaliste, con elementi con radici sostanzialmente inalterate dai tempi remoti. Questo non implica rassegnazione, anzi, la Napoli (così come l’Italia) neo-plebea è industriosa. Geolier ha subito capitalizzato sul successo aprendo una pizzeria, come fanno adesso fette sempre più consistenti della plebe napoletana che vede nuove occasioni nel turismo. Ma è un’industriosità senza prospettive, schiacciata anche essa sul presente, non sull’innovazione, ma sulla commercializzazione di un’identità percepita come naturale e sostanzialmente inalterabile: sulla capacità di introdurre una piccola variazione su un tema immutabile del senso comune (con mollica o senza?). Soprattutto, rimane proiettata a breve termine, orientata al guadagno temporaneo, ora sempre di più al digital hustle, che sotto forma di dropshipping e affiliate marketing si sta facendo presente nelle economie delle famiglie popolari a Napoli (così come altrove). Infatti, la pizzeria di Geolier si sposa bene alla tendenza attuale a progettare attività pop-up: non sembra nutrire ambizioni imperiali e propriamente capitalistiche al livello di Chiara Ferragni.

    Il trionfo popolare di Geolier, e prima di lui di Napoli come città immaginaria, come riferimento gastronomico e soprattutto come atteggiamento da assumere anche da chi napoletano non è (a Napoli si sussurra che perfino Geolier un po’ ‘performa’ il suo dialetto, che proprio autentico al cento percento non è), testimonia la nuova egemonia dell’Italia plebea sull’auto-rappresentazione del paese. In parte si deve all’arrivo di TikTok che permette anche al popolo di platformizzare le sue proprie espressioni culturali con più facilità, e la plebe napoletana lo fa con passione rendendo Napoli il centro di TikTok in Italia e origine di molte tendenze, nel mondo della gastronomia popolare come, soprattutto, nelle culture giovanili. Ma riflette anche una reale trasformazione del paese: la scomparsa di quel ceto medio che per decenni ha retto il sogno di un’Italia milanese che vive a pari passo con altri paesi europei. Napoli e Geolier rappresentano un’altra Italia, dove queste aspirazioni sono state sostituite da una realtà quotidiana sempre più precaria e orientata alla sopravvivenza, e che abbraccia appassionatamente la propria identità arretrata e provinciale – cafone? – in modo più o meno riflessivo e ironico. Ciò è manifestata dalla moltitudine di video TikTok di ispirazione napoletana che rappresentano ‘il malessere’ – il fidanzato patologicamente geloso e possessivo e che deve la sua attrazione proprio a questa sua natura retrograda: non è un tollerante e moderno, non è femminista, non è neanche laureato, ma ci piace così. La centralità di Napoli non si deve al fatto che la neo-plebe si trova solo lì – espressioni culturali simili hanno proliferato per almeno un decennio nelle periferie di Milano e nella Suburra romana. Non è neanche una questione dello storico ruolo subalterno di Napoli e dei Napoletani. È soprattutto perché l’elemento plebeo che a Napoli è rimasto al livello strutturale ma soprattutto culturale, rappresenta bene un’Italia dove il ceto medio sta scomparendo e l’elemento neo-plebeo cresce ai margini ed assorbe fette sempre più consistenti di quelli che non trovano più una prospettiva in un’economia capitalista in contrazione – incluso buona parte dell’ex ceto medio.

     

    Immagine di copertina di Alberto Sharif Ali Soleiman su Unsplash

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