Quando a gennaio 2017 è iniziata l’avventura di Rosetta, abbiamo deciso di cominciare da Via Borgogna 3. La Casa della Cultura che è partner del progetto ha rappresentato negli ultimi settant’anni l’emblema della istituzione culturale milanese.
Non potevamo che partire da lì e tentare di portare con noi quel patrimonio di divulgazione e apertura, cercando di ibridarlo con i nuovi processi e le trasformazioni sociali e culturali in corso.
Quella sera con noi, a ragionare e discutere, c’era Salvatore Veca. Con la sua proverbiale pacatezza ma con altrettanta curiosità, aveva tracciato le prime suggestioni attorno all’idea della traduzione, alla necessità di intercettare le trasformazioni correnti e al bisogno di confronto tra generazioni, spazi e modi della produzione culturale.
Perciò, quasi come un portafortuna, quando abbiamo deciso di ripartire per la stagione del 2018, il suo nome è stato uno dei primi a spuntare. In parte perché quel discorso avviato meritava una continuazione, in parte perché quello scambio tra linguaggi, processi e figure culturali è uno dei maggiori obiettivi che ci siamo posti con Rosetta.
Il 2018 è un anno all’insegna dei concetti, delle parole e dei lessici in trasformazione. Questa è un’anticipazione della conversazione che faremo il 6 Marzo alla Santeria Paladini con Claudio Paolucci; ma è anche il tentativo di tematizzazione dell’idea di intellettuale e delle sue trasformazioni.
Salvatore Veca ha otto nipoti e quando era piccolo voleva fare matematica, o scrivere romanzi: entrambi i piani sono falliti ed è diventato filosofo morale. Fervido sostenitore dell’approccio multidisciplinare e della riflessione sulle scienze umane in senso lato, ha da sempre partecipato alla vita pubblica milanese attraverso le istituzioni culturali che la animano. Dalla Casa della Cultura alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, passando per le aule dell’Università (di Milano, Pavia, ma anche delle molte università internazionali che l’hanno invitato e ospitato) Salvatore Veca rappresenta un interlocutore privilegiato per ragionare sul presente ma anche sulle trasformazioni della cultura negli ultimi cinquant’anni.
diverse dalla mia.
Come possiamo definire le istituzioni culturali? Come le riconosciamo come tali?
Un’istituzione culturale può essere rappresentata da tipi molto diversi a seconda del campo in cui opera. Ma prendiamo ad esempio i casi che io conosco. Un’istituzione culturale come La Casa della Cultura di Milano è un luogo, è uno spazio, è un frammento dello spazio pubblico, come io lo chiamo, in cui si offre riflessione su idee in una varietà di campi, in cui non si producono ricerche, ma si genera una disseminazione che cerca di far transitare saperi.
Ci sono due regni – come diceva un grande filosofo del settecento che si chiamava David Hume – il regno del sapere, che è un po’ scuro, appartato, noioso, e il regno della conversazione civile. La cosa bella è che gli ambasciatori dei due regni erano le donne.
Allora La Casa della Cultura è un’istituzione culturale nel senso preciso in cui offre l’opportunità a chiunque di accedere e padroneggiare la conoscenza in una varietà di campi che possono andare dalle pratiche sociali, alle questioni politiche a quelle artistiche, ai linguaggi della scienza e via dicendo.
Un’altra delle istituzioni culturali che io conosco bene è la Fondazione Feltrinelli, che nel corso della sua lunga storia è stata insieme produttrice di ricerca nel campo delle scienze storiche, sociali e politiche, e ovviamente ha avuto momenti di confronto di idee, ma quello che era più importante lì era generare ricerca, e quindi anche confrontare idee alternative fra loro. Quella istituzione è un’istituzione di generazione della cultura in senso lato, in senso un po’ banale, mentre La Casa della Cultura è un’istituzione che mira alla disseminazione, e all’accesso ad un sapere; un’istituzione che non produce, ma di cui acchiappa esponenti, protagoniste e protagonisti della scena culturale. Svolgono funzioni diverse ma sono entrambi istituzioni culturali.
Se dovessimo riprendere questa suggestione di Hume sugli ambasciatori tra un mondo e l’altro chi potrebbero essere queste figure e che ruolo hanno ricoperto?
Entriamo nel campo della storia e delle trasformazioni di quella che io chiamo la funzione intellettuale. La nozione stessa di di intellettuale è relativamente recente, anche se nel ventunesimo secolo le cose che sono accadute due secoli e mezzo fa sembrano remote e archeologiche. Perché in realtà proprio dalle nostre parti, in Europa, nel secolo dei lumi, degli illuminismi si ritrova un primo momento significativo in cui si può configurare una funzione intellettuale.
Un modello straordinario è Voltaire nel caso Jean Calas. Un caso dovuto al fanatismo e all’intolleranza religiosa che diventa un motivo di una grande campagna su quella cerchia che si chiamava di opinione pubblica e nei confronti dei poteri. Voltaire scrive Il trattato sulla tolleranza e riesce a far riaprire il caso. E lì che l’uso della funzione intellettuale diviene verifica della legittimità dei poteri. In quel caso erano poteri giudiziari e naturalmente erano ecclesiali ed erano poteri sociali.
Un altro grande esempio di intellettuale è Hume, piuttosto che Kant, piuttosto che Cesare Beccaria: Dei delitti e delle pene è l’opera di uno dei più grandi intellettuali europei che nei vari illuminismi europei conosce un effetto straordinario. Beccaria va a Parigi, poi scappa da Parigi, poi Voltaire gli fa una prefazione e il granduca di Toscana abolisce per primo la pena di morte nella storia del mondo.
Allora l’intellettuale è qualcuno o qualcuna (“le ambasciatrici”, si dice che non si usa il termine femminile, che si usa sempre amba) l’intellettuale è qualcuno che usa delle risorse della propria competenza o padronanza di determinati campi come strumento di comunicazione ad altri, di costruzione dell’opinione pubblica e di influenza sulla stessa: gli influencer di oggi sono gli eredi di Diderot, di Voltaire, D’Alembert, Beccaria, Verri o Hume.
Un secondo capitolo, acceleriamo i tempi, fine diciannovesimo secolo: il manifesto degli intellettuali. Émile Zola, George Clemenceau sul caso Dreyfus, di nuovo un caso, tra l’altro, un caso di antisemitismo – molte cose cambiano e molte cose tornano nel nostro mondo – e lì Zola ha una grande visibilità, questo è un fattore molto importante, ma la sua visibilità non è naturalmente quella a cui si potrebbe pensare oggi, ma è la visibilità nei confronti di una cerchia dell’opinione pubblica. Zola si batte e impegna tutte le sue risorse intellettuali per arrivare ad un esito di giustizia.
Se inve facciamo un passo avanti vediamo che la funzione dell’intellettuale nel Novecento subisce una serie di metamorfosi. La prima parte del secolo vede il disagio tragico delle poche democrazie e l’affermarsi di sistemi totalitari o autocratici, dispotici. Lì il problema è che da un lato coloro che esercitano la funzione intellettuale possono essere conformi ai poteri perché vi o perché il costo del dissenso viene percepito come troppo alto. Mentre nella formazione – dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale – delle nuove fragili democrazie come l’Italia (o si pensi alla Germania divisa) gli intellettuali si possono mappare come intellettuali –avrebbe detto Antonio Gramsci- “organici”, in qualche modo interpreti e produttori di un discorso ideologico di un tipo o dell’altro. Possono funzionare come grilli parlanti (come diceva Umberto Eco), come rompiscatole, come i guardiani della libertà dello spazio pubblico, del confronto delle idee anche confliggenti.
È quello che Fortini definiva “i guardiani della realtà”?
Esatto. È il Fortini della Verifica dei poteri. Ma la verifica dei poteri è un grande tema illuministico, quindi c’è una grande continuità con contesti ovviamente mutati. Il diciottesimo non è il diciannovesimo e non è il ventesimo, però c’è un filo di continuità, questa idea di essere coloro che in qualche modo preservano alcuni valori o tutelano alcuni interessi rispetto alla violazione o negazione di tali valori oppure coloro che offrono prospettive sul mondo, sulla realtà, sul futuro ad ampie frazioni di popolazione.
Naturalmente anche l’opinione pubblica cambia natura, e passiamo allo spazio pubblico democratico che è differente perché è una specie di spazio in cui si confrontano in pubblico idee, prospettive, bisogni, valori e interessi che mirano ad ottenere adesioni. A volte possono ottenere adesioni durevole, a volte essere intermittenti e più fluidi come i movimenti che riescono o non riescono ad istituzionalizzarsi. In questo hanno un ruolo ovviamente coloro che sono definiti intellettuali.
Pensiamo ad alcune figure, per rendere concreta questa riflessione, come se facessimo una sorta di grande carrellata. Pensiamo al secondo dopoguerra, a Jean Paul Sartre, che è forse l’ultimo grande intellettuale pubblico, e alla sua idea di engagement, dell’impegno dell’intellettuale, e all’impegno che è critico, come dicevamo prima.
Pensiamo poi al suo contrasto con Maurice Merleau-Ponty che è un altro grande intellettuale; pensiamo a casa nostra, a Vittorini e Togliatti, al “Il Politecnico” che sono cose note; pensiamo a coloro che fondano la “Casa della Cultura”, che sono espressione, in fondo di quella scuola di Milano legata a Banfi che da intellettuale autonomo e indipendente aderisce al partito comunista italiano divenendo poi senatore e quindi in qualche modo assume la funzione alla fine di intellettuale organico.
Spero di aver chiarito in cosa consista la funzione di intellettuale, una funzione che presenta dei tratti di continuità, ma anche molti tratti di discontinuità, perché presuppone nei modi che ho cercato di raccontare, così con dei flash, una certa stabilità delle istituzioni e delle pratiche sociali.
Cerco di spiegarmi, facciamo un esempio molto semplice: come si arrivava a scrivere sulla cosiddetta “terza pagina”, che voleva dire avere una certa influenza su alcuni settori di opinione pubblica o nello spazio pubblico. Si arrivava perché si veniva selezionati da un gruppo dei pari cioè da un’istituzione che fosse un letterato, un urbanista, un sociologo. Poi sarebbero stati gli economisti, poi sarebbe stata la stagione dei politologi, poiché cambiano anche queste cose in quanto si disponeva di una reputazione da parte della cerchia dei pari – accademica, o istituzionale, allora si poteva con quella risorsa avere accesso alla funzione di intellettuale pubblico.
Quindi la visibilità e l’influenza maggiore o minore che si poteva avere sulle credenze delle persone dipendeva da un giudizio previo della comunità cui si apparteneva. Avesse torto o ragione poco importava. Tu hai un capitale di reputazione dentro il tuo campo e grazie a questo puoi accedere ad esercitare la funzione di intellettuale in pubblico, da Voltaire fino a Bertrand Russell.
A tal proposito, se è necessaria una legittimazione, che legame c’è tra l’intellettuale e questa istituzione legittimante? Se noi definiamo la funzione intellettuale anche come una funzione discorsiva, chi è l’interlocutore principe degli intellettuali, l’opinione pubblica o i poteri?
Dipende, dipende. L’istituzione legittimante in quel modello lì, che è un modello che tende oggi a trasformarsi, deve essere assunta come il primo stadio, diciamo ci deve essere prima quella, poi cercheremo in questo guazzabuglio di capire perché solo gli autorizzatori o le autorizzatrici.
Si rivolge all’opinione pubblica o i poteri? Dipende, come per gli intellettuali organici o per quelli che facevano i cani da guardia, è la stessa cosa: noi abbiamo una varietà di assunzioni di posizioni che dipendono dalle vocazioni di chi esercita la funzione intellettuale. Alcuni parlano a nuora perché suocera intenda, cioè in realtà comunicano modi di pensare o modi di valutare le cose, modi di guardare noi e il mondo, ma possono farlo in funzione di un interesse o di una conformità ai poteri piuttosto che farlo in modo autonomo. Quando Pier Paolo Pasolini scrive i suoi pezzi sul Corriere divenuti poi gli Scritti corsari, non pensa, non si rivolge ad un interesse. Il problema di quale sia l’uditorio in quel caso è semplice: Pasolini sceglie l’uditorio dell’opinione pubblica, non sceglie il palazzo, si inventa il palazzo per dare un esempio delle diverse cose.
Tuttavia, quello che è profondamente cambiato, a mio modo di vedere, è l’enorme, impressionante trasformazione dovuta alla rivoluzione – chiamiamola digitale per andare veloci – nei modi del comunicare, dell’informare, del formare; nei modi di avere autorità e/o potere che circola nell’arcipelago web.
Chiunque eserciti le funzioni intellettuali, negli ultimi anni, diciamo negli ultimi due decenni a occhio, si sarà accorto che tali funzioni sono in qualche modo migrate dalle istituzioni legittimanti a forme di autolegittimazione oppure all’esercizio della funzione in quanto qualcuno o qualcuna è dotato o dotata di un capitale di visibilità sociale. Per cui, nel modello classico -che è durato per un po’- tu acquisivi visibilità in quanto eri riconosciuto dall’istituzione che ti legittimava.
Ora la mia impressione è che siamo in una fase di grande cambiamento difficilmente sottovalutabile. Penso si tratti di una trasformazione radicale come quella di Gutenberg, una cosa che fa tremare le vene dei polsi, perché cerchiamo di capire le cose ma abbiamo sempre gli occhiali ereditati dalla mente, specialmente le persone come me, che sono le persone del ventesimo secolo che lì si sono formate e che hanno fatto anche le loro battaglie politiche in quel secolo (Io ho provato a farle anche nei primi pezzi del ventunesimo secolo, poi le cose si sono rese opache).
Ecco io credo che certamente oggi noi assistiamo ad un processo di indubbia diffusione e disseminazione della funzione intellettuale indipendente dal riconoscimento da parte di autorità epistemiche. Epistemiche deriva da conoscenza e questo è un punto molto rilevante perché persistono le diseguaglianze epistemiche e sono secondo me tra le più importanti nel fascio delle diseguaglianze in cui ci troviamo e c’è un’ingiustizia epistemica perché ti esclude proprio per il fatto che tu non hai potere cognitivo, non hai accesso ad un mondo a cui avresti diritto di avere accesso.
Al tempo stesso però, il capitale di visibilità che viene ottenuto attraverso le varie tecnologie e i differenti modi di essere connessi just in time -“no space no time” come si diceva negli anni novanta- queste cose disseminano la funzione intellettuale, riducono l’influenza che gli intellettuali hanno nel senso tradizionale del termine e diciamo hanno sempre costi e benefici.
Il beneficio è la maggiore e libera accessibilità ai fini di comunicare modi di vedere il mondo e influire sulle credenze. Il costo è non avere più alcun sistema di validazione, non so se è chiaro. Non avendo più un sistema di validazione chi accede non ha criteri per orientarsi tra la bellezza, la verità e l’orrore.
Il tema della post verità, il tema delle fake news che ci ossessiona, è un tema per certi versi antico come il mondo, per altri aspetti invece ha caratteristiche del tutto nuove. Ricordo che un mio vecchio amico e compagno di avventure con cui ho spesso anche litigato, Alberto Asor Rosa, ha scritto qualche anno fa un libro, Il silenzio degli intellettuali: gli intellettuali dice o spariscono come i dinosauri o si riducono ad essere coltivatori di memoria. La mia tesi è che l’intellettuale parla moltissimo perché in genere lavora comunicando. Il problema sono gli uditori che sono cambiati.
Se teniamo il modello gramsciano, come si definisce quindi la società civile?
La società civile io tendo a vederla come espressa dal punto di vista intellettuale in quello che chiamo lo spazio pubblico che è una specie di luogo in cui chiunque può far venire a galla le disparità, i bisogni opachi (e non gli interessi) insieme con altri. Secondo me è alla base della libertà democratica per eccellenza che è la libertà per le persone, come cittadini e cittadine, di condividere con altre persone una prospettiva sugli interessi di tutti o sull’interesse pubblico beninteso.
L’interesse del paese sono come cerchie di riconoscimento che sono state monopolio dei partiti che esercitavano al loro interno la funzione di intellettuale. Vedi che poi tutto si lega alla fine?
Gramsci quando aveva in mente la figura dell’intellettuale organico aveva in mente questo per esercitare che cosa? La funzione di egemonia, ma la funzione di egemonia presupponeva intellettuali autorizzati dall’istituzione e presupponeva forme di stabilità delle agenzie politiche nella durata, l’insediamento sociale. Avevano un popolo i partiti politici nel ventesimo secolo.
Se ci mettiamo in caccia dell’intellettuale adesso,in realtà troviamo – come dicevano i filosofi che mi sembrano molto eloquenti e molto confusi – una specie di rizoma, una sorta di strano arcipelago in cui circolano le funzioni intellettuali. Che cosa è dunque importante osservare?
Questo discorso non va confuso con il discorso sulla funzione dell’intellettuale esperto. L’intellettuale esperto è quello che si occupa dei mezzi dei fini dati dati da un’autorità istituzionale, politica. L’intellettuale non esperto è un intellettuale che maneggia e si occupa dei fini, degli scopi di ciò che vale. Quindi mette in questione gli scopi dati. Questo è un punto molto importante, perché dalle nostre parti, in senso europeo, il problema del carattere percepito come remoto delle istituzioni dell’unione, oggi in grave difficoltà, dipende dal fatto che lì opera una funzione intellettuale esperta. Lì ci sono gruppi di competenze che assumono i fini dati – dalla commissione, dal consiglio di stato di governo- e a fini dati cercano mezzi alternativi per perseguire quei fini. Ma la funzione di intellettuale, quella di cui abbiamo parlato prima, era quella che secondo un grande filosofo del novecento, il padre della fenomenologia, Edmund Husserl, (quello da cui andava a lezione Heidegger): “gli intellettuali sono i funzionari dell’umanità”. È un’espressione un po’ solenne, ma teniamo in conto che la dice in uno dei momenti più tragici, quando l’Europa si avvia alla Seconda Guerra Mondiale durante l’emergere dell’antisemitismo e della soluzione finale.
Non è un discorso che si allontana troppo da quello di Michel Foucault sulla parresia e sulla ricerca della verità
Certo, Michel Foucault è stato uno di quelli che ha esercitato – in una delle ultime generazioni – la funzione dell’intellettuale pubblico. Foucault è un esempio tipico perché è stato riconosciuto dall’istituzione accademica prima francese e poi in giro per il mondo e sulla base di questo e grazie alla sua voracità nella costante ricerca delle connessioni tra poteri e saperi e la loro genealogia, Foucault ha esercitato un’enorme influenza su ampi settori.
Il problema della parresia e il dire la verità è uno dei temi dell’ultimo Foucault, che in fondo è un grande tentativo di elaborare una prospettiva sulla cura del sé, sulla costruzione di se stessi, viene dopo le sue celebri analisi sulla Naissance de la clinique, Sourveiller et punir e sulle forme del disciplinamento e dell’irreggimentazione dei nostri modi di vivere. Ma Foucault era esattamente colui che proveniva dall’Ècole Normale Superieure.
Quindi oggi ho l’impressione che la funzione intellettuale venga da un lato disseminata in una varietà di ambiti senza criteri di validazione e questo a mio avviso è uno dei problemi importanti oggi, ed è legato alla parresia, perché è legato alla veridicità. Io come mi oriento? Il fai da te epistemico delle persone non sempre ha esiti felici, ha avuto esiti atroci. Dall’altra parte però la virtù che io associo a queste trasformazioni, che ripeto hanno costi e benefici, è quella – come si usa dire – di allargare l’accessibilità dello spazio dell’enorme ammontare di conoscenze in una varietà di campi. Quindi da un lato tu allarghi dall’altro però non disponi di criteri per l’orientamento nel vasto mondo nell’ipertesto mondiale della conoscenza.
Tuttavia le critiche agli aspetti negativi non possono trasformarsi in una condanna, perché io credo ad una certa irreversibilità dell’innovazione, solo i nostri giudizi sono reversibili, ma le innovazioni sono irreversibili. Perciò dobbiamo imparare a convivere con una distanza riflessiva, con una competenza epistemica… di nuovo il problema della competenza epistemica e della sua ingiustizia. Ma qui sto parlando di nuovo come un vecchio intellettuale del ventesimo secolo!
Vorrei provocarla: tutti possono essere intellettuali? Quali variabili come il genere, la provenienza, il posizionamento economico-sociale, incidono sul poter essere intellettuali?
Tutte queste cose incidono sul poter essere intellettuali: possono incidere esplicitamente e possono incidere implicitamente e anche tacitamente. Se pensiamo alla questione di genere, ci sono molti studi non tanto sul ruolo delle donne in ambito scientifico, ma sul fatto che la scienza sia stata modellata da una prospettiva in fondo di patriarcato e che la stessa definizione del genere sia stata come dire unilaterale. Vi sono condizioni di deprivazione delle persone rispetto alla possibilità di acquisire competenze o padronanza di certi alcuni ambiti, vi sono questioni addirittura in regimi autocratici di esclusione delle persone e di sanzione delle persone con metodi coercitivi per evitare loro di poter accedere. E questo è di nuovo anche un problema di genere, il problema della scuola per le bambine, e il problema fondamentale dell’ingiustizia globale, della terra. L’importante è che siamo consapevoli che esistano una varietà di ostacoli istituzionali, culturali, religiosi, economici, sociali, che impediscono la fioritura umana qualora una persona – quale che sia – aspiri ad autorealizzarsi in quell’ambito. Non è necessario che tutti vogliano farlo, ne basta uno che voglia farlo a cui sia impedito di farlo perché ci sia ingiustizia.
Una visione che riprende molto il pensiero di Martha Nussbaum…
Sì, bisogna sapere che la fioritura umana, the Human flourishing è un termine che in realtà deriva da John Stuart Mill, dal saggio sulla libertà, che lo mutua a sua volta – gli intellettuali sono una specie di cooperativa di plagio, lo diceva Roland Barthes – da Wilhelm von Humboldt, il fratello di Alexander von Humboldt, che diceva: “la libertà individuale delle persone è legata alla possibilità delle persone di fiorire”. È lo sviluppo come libertà di Amartya Sen. Poi Martha Nussbaum che è una grande studiosa della filosofia antica – credo che il suo libro migliore rimanga La fragilità del bene – ha connesso l’idea di fioritura umana all’idea di eudaimonia aristotelica, e su questo ci sarebbe molto da discutere. Però per esempio l’influenza di un’intellettuale come Martha Nussbaum in alcuni ambiti – gli Stati Uniti, ma soprattutto in India – è un’influenza che grazie alla visibilità ottenuta da Martha in ambito accademico e grazie al suo impegno (perché ci vuole anche un costo per dedicarsi a questi studi), ha oggi una rilevanza e un’influenza del tipo classico.
Il tempo non è lineare, siamo infatti in presenza di una trasformazione che ha diversi tempi. Noam Chomsky ad esempio è una figura di intellettuale pubblico come poteva esserlo Bertrand Russell nel secolo scorso, quindi anche qui bisogna avere discernimento, ma il trend principale è quello a cui accennavamo prima sulla grande rivoluzione informatica.
E in cosa sono mancati gli intellettuali in questi tempi? In cosa sono carenti?
Il lavoro intellettuale si sviluppa in talmente tanti campi che io posso limitare la mia conoscenza solo ai miei ambiti. Ho l’impressione che siamo di fronte ad una trasformazione propria del lavoro intellettuale che desta in me perplessità, che si dirige verso una divisione del lavoro intellettuale impressionante – una iper-specializzazione impressionante – e soprattutto nel campo delle humanities, per dire delle scienze umane in cui includo la filosofia come disciplina umanistica. C’è un bel libro di Martha Nussbaum, Not for profit sul ruolo delle humanities nello sviluppo della libertà delle persone.
Ora posso fare degli esempi banalissimi: ci sono dei filosofi e delle filosofe del linguaggio che non capiscono cosa dicono i filosofi o le filosofe morali. E ci sono dei filosofi della matematica che non capiscono quello che dicono i filosofi della fisica quantistica. Siamo ad un livello tale di iper-specializzazione che rende molto difficile – se non all’interno della tua nicchia di soluzione di problemi – quella tensione, quel corpo a corpo tra discipline, tra approcci, tra problemi. Si parte dal metodo e non dal problema. Io ho sempre detto ai miei studenti che si rivolgevano a me per la laurea o per il dottorato: che cosa ti sta a cuore come problema? Dimmi che cosa fa problema per te?
Poi, ovviamente, devi saper utilizzare un metodo, devi saper argomentare, devi saper comunicare, devi applicare le regole condivise, ma se tu parti invece dal fatto che disponi di un metodo e subisci il feticismo del metodo (solo perché così la cerchia dei pari ti riconosce come uno di loro), e come problemi prendi problemi che altri definiscono, ecco questa tendenza è una tendenza che io mi trovo a criticare.
Che è un po’ la descrizione di quella che oggi si chiama la comunità scientifica?
Non c’è dubbio. Pensi a quello che è successo con l’economia. Oggi chi vuole essere riconosciuto nell’ambito delle economics è qualcuno che deve prendere gli ultimi sette anni e gli ultimi sette teoremi e metterli in discussione. La vecchia regina Elisabetta che ha vissuto tutto il secolo scorso, andò alla London School of Economics e chiese “Scusate, ma voi economisti, la crisi non potevate prevederla? Ma che ci state a fare?”.
Il mainstream della teoria economica è stato solo lievemente scalfito da una delle più gravi crisi dopo quella del 1929 e sicuramente la più grave crisi del secondo dopoguerra. Perché di nuovo, invece di partire da ciò che ti sta a cuore, parti dal feticismo del metodo. Perché in questo modo si verifica un fenomeno che ho spesso richiamato, si azzera il senso del passato, il passato come repertorio di possibilità alternative, e si azzera il futuro come ombra sul presente. È una sorta di dittatura del presente.
Quello che viene chiamato presentismo?
È esattamente il presentismo. E questo è anche responsabilità di quelli che come noi che si assumono la responsabilità di esercitare la funzione intellettuale in tempi mutati.
C’è un ultimo pezzo, questo feticismo del metodo non è forse un feticismo di status? L’università che ruolo svolge in questi processi?
È difficile di nuovo generalizzare, certamente una parte dei sistemi universitari di educazione superiore nel mondo sono basati sull’idea di sapere utile, in breve torna il presentismo. Cioè l’idea è che tu debba formare persone che dispongano di competenze, di soluzioni di problemi non classificati da loro, ma socialmente classificati o classificati da determinati poteri come problemi. Allora tu sei impegnato nel problem solving perché io ti do la cassetta degli attrezzi, non perché tu percepisci quello come un problema, ma perché ti viene nominato da altri e percepito da altri come tale. Tu devi essere uno competente nella soluzione del problema nel modo più razionale e col minino sforzo, e nel minor tempo possibile. Questo è vero anche nella ricerca scientifica, dove la celebre separazione tra scienza pura o scienza di base e scienza applicata sta sparendo: tu hai una serie di indicazione di scopi di altri che fanno girare la ricerca in una direzione piuttosto che in un’altra. E questo potrebbe cambiare alcuni settori della ricerca umanistica e di quella scientifica tout court.
Questo non si intreccia forse con il tema della sostenibilità e dell’autonomia della ricerca scientifica?
Non c’è dubbio. Un grande filosofo e logico del secolo scorso, Mike Dummett diceva che se avessero inventato le università nel ventunesimo secolo non ci sarebbero state le facoltà di filosofia. E la battuta era: perché devo pagare i dipartimenti di filosofia, di scienze umanistiche e di filologia se devo accettare il sapere utile o il problem solving sullo short term? E di nuovo il presentismo. È chiaro che sono semplicemente eredità di un passato che non ha più legittimità. Allora il problema diventa: qual è la natura del sapere inutile? Perché praticare la storia? Perché praticare l’antropologia? Perché praticare la filosofia? Allora, perché questi saperi mirano a rispondere in vario modo alle domande su chi noi siamo per come siamo divenuti chi noi siamo.
Qui il repertorio del passato diventa un archivio di possibilità alternative. La possibilità di riconoscersi veridicamente – come coloro che sono divenuti o coloro che sono divenute chi sono divenute – è quella che dà la dimensione riflessiva, che consente forse, la fioritura umana. Non per pochi, quello c’è tranquillamente, ma per sempre di più, per non dire per tutti.
Perché un sapere utile che si basa sulla sostenibilità è sempre sapere organico…
Certamente, la parte di critica evapora. Resto affezionato alle prime immagini che abbiamo evocato nella nostra conversazione: quelle del ghigno di Voltaire, dell’inquietudine di Diderot, dell’ossessione di Rousseau. Perché in quelle immagini c’era una costellazione di idee plurale, la conoscenza e l’accesso a come stanno le cose veridicamente grazie alla verifica dei poteri, grazie all’inchiesta sulla legittimità delle autorità politiche, religiose, culturali ed epistemiche. Tutta questa costellazione è però in fondo inadempiuta. È una costellazione che chiede ancora una possibilità di un elogio coerente senza il quale potremo avere possibilità di regressione e di perdita che non auguro a nessuno.
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