La società contemporanea ha segnato l’affermazione dell’individualismo, fissando peraltro la sfera delle sue libertà. In un quadro globale – in cui l’organismo è un tutto superiore alla somma delle parti – è la società, strutturata e articolata secondo precise gerarchie, a conferire diritti e a prescrivere doveri, a segnare il margine di libertà all’interno del quale l’individuo può muoversi senza turbare l’ordine prestabilito.
Nella cosiddetta “postmodernità individualista” è invece la società stessa a essere costituita dai desideri e dalle azioni dei singoli individui. Nella società globale ciò che è determinante è il rispetto dell’ordine sociale, in quella individualista si assiste a una progressiva dissoluzione del legame socia- le: ognuno diventa titolare del diritto di vivere la vita che meglio desidera, senza vincoli derivanti da norme e costumi ereditati o da valori prestabiliti dalla tradizione, dalla storia o dalla religione.
L’individualismo appare dunque un prodotto dell’aspirazione egualitaria; emancipandosi da qualsiasi vincolo sociale, ogni individuo diviene l’unità di misura del mondo che lo circonda, la fonte ultima di ogni valore, il criterio irriducibile di ogni giudizio. Le aspirazioni e i desideri di ciascuno trovano la loro piena legittimazione nel fatto stesso di riflettere preferenze individuali.
Un egualitarismo paradossale: per consentire la realizzazione delle volontà individuali, bisogna garantire al soggetto tutti quei diritti che trovano il loro unico limite nel rispetto della libertà altrui, anche se pure tale confine sembra talora vacillare. Si apre dunque la strada a una società dominata dall’ideologia del libero mercato e da quella del permissivismo etico-giuridico. Tale egualitarismo si sposa con il capitalismo, che si rivela necessariamente amorale e perfettamente compatibile con l’ideologia dei diritti civili e umani; le esigenze del capitale di incrementare il consumo richiedono un’estensione massima delle libertà, intese quale mancanza di limitazione, per creare nuovi consumatori emancipati dai vincoli di carattere sociale, politico e culturale, privi di freni inibitori e capaci di esprimere tutta la loro potenziale volontà di acquisto, limitata unicamente dalla disponibilità di danaro.
Sul versante teorico, tali aspetti prendono la forma, nelle scienze sociali, dell’individualismo metodologico, che studia i fenomeni a partire dai comportamenti individuali e risolve tutto in precise analisi di costi e benefici e quindi in modalità di reazione agli incentivi. Si afferma in tal modo il profilo di un individuo astratto e ideale, mosso esclusivamente dall’impulso di massimizzare il proprio benessere e il cui comportamento appartiene al dominio del calcolo razionale e dell’utilità pratica.
In tale contesto, inevitabile risulta l’impero della legge del numero e del ricorso ai criteri quantitativi. I quali, a loro volta, secondo un ineludibile circolo vizioso, contribuiscono alla costruzione dell’individuo quale homo oeconomicus estremo, figura retorica totalizzante e totalitaria.
Si tratta, in questa visione, di un’entità che pre-esiste alla società e a qualunque tipo di vincolo sociale e spirituale e che è indifferente a ogni narrazione storica dell’individuo. In tal modo, l’economia e le altre scienze umane diventano discipline autonome, dotate di un senso proprio e indipendente dall’ordine sociale, culturale e storico in cui sono calate.
Gli esiti metodologici sono eclatanti quanto paradossali: come scrive Giorgio Gilibert, lo stesso apparato analitico può essere utilizzato per studiare l’imprenditore cinese del XXI secolo come l’uomo di Neanderthal.
Ma nuove gerarchie appaiono in un’inedita forma quantitativa. Una nuova percezione dei fenomeni e nuove esigenze valutative necessitano di essere tradotte in indici sintetici e in grandezze misurabili dell’intero sistema dei valori e dei giudizi. Si manifesta un bisogno di collocare ogni fenomeno all’interno di una precisa griglia classificatoria la quale, per sua stessa natura, riflette dei rapporti gerarchici espressi per mezzo di indici numerici. Se il sistema dei prezzi è un tipico meccanismo quantitativo finalizzato a stabilire la gerarchia dei beni, si tende a estendere un analogo criterio valutativo a tutti gli ambiti, in una vera e propria febbre classificatoria.
Si classificano i paesi, le regioni e le città rispetto al loro reddito; gli ospedali, le università, gli hotel e i ristoranti in relazione alla qualità dei loro servizi; le imprese, gli studenti, i professori, i lavoratori, i calciatori e i manager in base alla loro produttività. La misura dell’individuo è la sua capacità acquisitiva. La libertà, sotto l’impero della classificazione organizzata secondo il canone impietoso del più e del meno, apre la strada alla rude competizione. Quest’ultima ridisegna il mondo quale spazio di coabitazione tra vincitori e perdenti, con il risultato di alimentare un senso di frustrazione con conflittuale, che rischia in ogni istante di assumere derive aspre e violente.
L’idea che esista un prezzo per ogni mercanzia sembra estendersi a campi sino ad ora impensabili, come il matrimonio, le scelte etiche e quelle politiche, i rapporti di amicizia, quelli sentimentali e quelli fra genitori e figli.
Si studia ogni aspetto della vita con gli strumenti tipici dell’analisi quantitativa, secondo la quale ogni scelta è il frutto di un preciso calcolo, razionale e consapevole, e finalizzato alla massimizzazione del benessere individuale. La reciprocità, la passione, le azioni gratuite, la benevolenza, i codici morali, le consuetudini e tutte le altre motivazioni non riducibili a una precisa logica massimizzatrice sono semplicemente espulsi dal terreno di analisi.
In un mondo che attribuisce un’importanza prioritaria alle dimensioni quantitative dei fenomeni e affida al riduzionismo numerico il compito di stabilire i criteri valutativi con cui tracciare le gerarchie dei valori, la matematica dovrebbe ricoprire un ruolo privilegiato quale guida pratica per l’adozione di comportamenti razionali che si traducano in esiti ottimali.
Tuttavia, ancora una volta, il paradosso ha la meglio: l’ignoranza dei principi cardine della matematica, pure quelli di base, si diffonde.
Continua a essere difficile ammettere di non aver letto tutta la Recherche di Proust e continua l’abitudine di confessare come un vezzo simpatico di non sapere con precisione cosa siano una funzione o una derivata.
L’assenza di codici adeguati conduce all’elaborazione di valutazioni distorte dei vari fenomeni. Così, ad esempio, l’incompetenza porta a sovrastimare le dimensioni del flusso migratorio o a sottostimare i reali rischi che sorgono in certe circostanze sociali ed economiche.
Eppure, basterebbe tenere in conto gli apporti di scienze più recenti, e forse meno avviticchiate su se stesse, le quali mostrano che si è vittime inconsapevoli di errori logici in situazioni che si crede di poter gestire con la massima razionalità. Per razionalizzare si deve necessariamente semplificare, mentre le azioni umane hanno motivazioni complicate, imprevedibili e quindi difficili da descrivere, decifrare e comprendere, al contrario di ciò che pretende la scienza economica.
Se l’individualismo attribuisce al singolo soggetto la sovranità esclusiva nelle scelte che più vanno incontro ai suoi interessi e delle quali egli è giudice supremo, un legame sociale fra gli individui deve essere tuttavia preservato, altrimenti la società diventerebbe irrespirabile.
Emerge il bisogno sociale di trovare un modello estraneo a se stessi, che permetta di costruirsi un’identità. Ma, ancora una volta, gli esiti paradossali non sono lontani. Lo sfaldamento di un senso di appartenenza collettivo frantuma la rivendicazione identitaria. L’identità viene individuata a partire da una specificità “interna” del singolo, da rivendicare a gran voce, oppure come opposizione a un’alterità esterna, i cui connotati vengono bollati quali “barbarici” e inquietanti e alla quale ci si contrappone violentemente, identificandosi per opposizione.
Venuta meno la coscienza di appartenenza di classe, la ricerca di un’identità cui appartenere si traduce in una proliferazione di modalità d’identificazione: razziale, religiosa, culturale, linguistica, sessuale, magari scelte in virtù del loro facile significato e della semplicità con cui ci si può riconoscere in esse. Altrimenti la società, che non ha più altri mezzi per riconoscere se stessa e i propri valori, si deve rivolgere alle differenze che saltano violentemente agli occhi.
La società, per comprendere ciò che essa stessa è, ha bisogno di individuare ciò che essa non è e che, inevitabilmente, diventa il nemico.
Fenomeno che in parte può spiegare la nuova ondata di razzismo, xenofobia, intolleranza il cui oggetto sono, ad esempio, gli immigrati, le minoranze etniche, religiose e linguistiche, quelle di genere o di orientamento sessuale, magari gli individui con abbigliamento e abitudini culinarie diverse.
In un contesto in cui gli individui sono incapaci di riconoscersi quali soggetti di una costruzione comune, l’unica condivisione identitaria è quella di pulsioni e paure collettive che non hanno più mezzi per costruire un senso. Da qui nascono nuove forme di conformismo identitario, rifugio di fronte alla minaccia illusoria dell’altro. Da qui i particolarismi del mondo globalizzato. Il riconoscersi in una particolare modalità identitaria fa perdere di vista che, mai come oggi, in ognuno di noi confluisce una pluralità di affiliazioni diverse, un complesso intreccio di appartenenze, caratteristiche e preferenze che solo se considerate simultaneamente consentono di tracciare correttamente il nostro pro lo umano.
Come scrive Amartya Sen, un individuo non è solo europeo o africano, italiano o francese, cattolico o ateo, ma si identifica pure con una professione, un ruolo ricoperto all’interno della famiglia, preferenze politiche, artistiche, letterarie, sportive.
L’attaccamento fobico a una dimensione identitaria particolare fa correre il rischio di racchiudere gli individui all’interno di categorie rigide, di esacerbare il loro senso di appartenenza comunitaria, di favorire i processi di radicalizzazione e, quindi, di alimentare i conflitti o addirittura di creare un pretesto alla loro esplosione. Gli esiti di questo fenomeno sono più complessi e sfaccettati di quanto sembri.
Pure l’accento posto sui diritti dell’uomo, lo spirito di tolleranza e la valorizzazione della diversità – principi sacrosanti ma che qualcuno interpreta come tentativi di introdurre nel capitalismo un quantum di etica per rendere più accettabili le ingiustizie e le sperequazioni economiche che esso genera – diventano talora una modalità particolare di impropria affermazione identitaria. Essi sono il riflesso del bisogno di universalizzare un’appartenenza ideologica, di esprimere dei valori specifici, forti, capaci di proteggere il mondo dall’irrazionalità delle sue stesse spinte compulsive.
L’universalismo illuminista e umanista, che dovrebbe promuovere l’uguaglianza fra gli uomini, si converte allora in un’ideologia comunitarista che si ripiega su se stessa, inneggiando al valore assoluto della differenza e considerando tale approccio un grande progresso.
Paradossalmente, questa attitudine è condivisa, almeno in teoria, da una certa destra identitaria e tradizionalista, la quale esalta l’appartenenza comunitaria, rivendica il ruolo centrale giocato dal legame sociale e celebra ogni comunitarismo quale presupposto per il riconoscimento della propria stessa identità.
Dai ranghi sia di questa sinistra sia di questa destra emergono confusamente e indistintamente pure posizioni terzo- mondiste, che invocano non solo il diritto di ogni popolo all’autodeterminazione ma anche il primato della piccola o grande identità etnica sull’idea dell’universale e sulle esigenze del singolo.
L’emancipazione dell’individuo dalle gerarchie della società tradizionale è stata lunga e complessa. Essa inizia con la filosofia dei lumi e si completa con la grande contestazione del Sessantotto. Le ultime vestigia delle gerarchie tradizionali, che trovavano la loro espressione nella scuola, nella famiglia e nella religione, sono abbattute. Autonomia, individualismo e autenticità diventano le parole d’ordine. Ma si è incorsi in previsioni errate, credere che le masse siano capaci di autogestirsi una volta che l’intera configurazione della società cessi di rappresentare un modello di perpetuazione delle gerarchie tradizionali e che siano eliminate le ipoteche di classe.
Invece, di fronte all’incremento delle opportunità di partecipare alla vita politica, sociale ed economica, l’egemonia dell’individualismo ha portato a un ripiegamento su se stessi, a una ritirata progressiva dallo spazio sociale condiviso, a un’indolenza e un’apatia politica che si traducono, paradossale quanto inevitabile contrappasso, in forme inedite di consenso passivo o di populismo. Un populismo che rigetta l’offerta politica tradizionale e si rifugia in forme di dissenso ammantate di razzismo, intolleranza e xenofobia.
Il progetto illuminista che ha spazzato via le gerarchie della società tradizionale e ha promosso l’uguaglianza fra gli uomini assiste oggi impotente all’affermazione delle nuove gerarchie della quantità e dei numeri, forse ancora più rigide e verticali, sicuramente più diffuse e pervasive, contemporaneamente a una proliferazione selvaggia di identità scambiate per valori che si ignorano o si combattono a vicenda.
Allo stesso tempo, la libertà, mai come oggi tanto celebrata, svela il suo lato paradossale: nel suo nome si richiede la rimozione di numerosi diritti economici e la si converte in una forma totalitaria di condizionamento politico e ideologico. E si rischia di creare le premesse per una forma di disordine civile e d’instabilità dei rapporti non solo economici, ma pure politici, sociali e affettivi, per mezzo di una distorsione del suo significato originario ed emancipatore.
Pubblichiamo un estratto dal saggio di Francesco Magris, Libertà totalitaria (La Nave di Teseo)
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