La foto qui sopra ha 32 anni. È stata scattata a Berlino il 4 luglio 1987 da un fotografo chiamato Thomas Uhlemann, in occasione della parata per il 750esimo anniversario della città. Le donne in primo piano sono cittadine del distretto di Erfurt, Germania dell’Est. I PC che stanno trascinando sui loro carrellini sono dei Robotron, la Apple made in Dresda della Repubblica Democratica tedesca.
Il mondo sarebbe cambiato per sempre appena un paio d’anni dopo, e sarebbe noioso e inutile spendere tempo adesso a enumerare le cose che da quel giorno non sarebbero più state le stesse, o a stupirci di quanto il tempo passi in fretta. Meno inutile, invece, sarebbe forse chiederci cosa metteremmo oggi su quei carrellini.
Cosa potremmo far sfilare in strada con altrettanta orgogliosa leggerezza, consapevolezza del presente e fiducia nel futuro?
Droni? I-phone? Tesla? Difficile immaginarlo. Mettete dei fiori nei vostri cannoni, quello l’abbiamo imparato e cerchiamo malgrado tutto di non dimenticarlo, ma sui nostri carrellini? Cos’è che potremmo metterci oggi?
Secondo Jaron Lanier, filosofo informatico autore di Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, quello che bisognerebbe fare al più presto sarebbe smetterla di fidarci dei computer e ripartire dalle persone. Anzi, dai gatti, visto che i social e soprattutto i loro algoritmi ci stanno trasformando tutti in dei cani obbedienti e abitudinari, mentre i gatti sono riusciti nell’impresa che a nessun altro è riuscita: loro sì che, al contrario di noi – afferma provocatoriamente Lainer – sono riusciti a integrarsi nella società tecnologica contemporanea senza svendersi: « Nessuno ha preso il controllo del tuo gatto, né tu né nessun altro. Oh, quanto vorremmo avere questa certezza non solo sui nostri gatti, ma anche per noi stessi! I gatti del web incarnano le nostre speranze e i nostri sogni per il futuro dell’umanità su Internet. »
Merito della loro natura, anzi della loro anima, tanto autonoma quanto imprevedibile. Ed è proprio alla nostra anima che i social attentano ogni giorno, scrive Lanier nel capitolo conclusivo del testo, dopo aver enumerato le altre nove ragioni che rendono le persone non connesse persone migliori. Facebook, Twitter, Instagram e compagnia non minano soltanto la nostra privacy e la qualità dei momenti che passiamo con le persone che amiamo, ma annullano qualunque empatia, distruggono il nostro libero arbitrio, ci allontanano da qualsiasi verità e a poco a poco modificano non solo le nostre abitudini ma il nostro comportamento, rendendoci simili a dei fanatici religiosi: « Quando usi la « ‘Fregatura’ accetti implicitamente una nuova cornice spirituale. È come quando clicchi OK sull’Eula – i termini e condizioni del servizio – senza leggere. In pratica, accetti di cambiare un aspetto intimo del tuo rapporto con la tua anima.»
« Questo libro » – annuncia Lanier nell’introduzione – « spiega come diventare gatti. Come restare autonomi in un mondo in cui siamo costantemente sorvegliati e sollecitati da algoritmi gestiti dalle più ricche corporation della storia, la cui unica fonte di guadagno consiste nel farsi pagare per manipolare il nostro comportamento? Come possiamo essere gatti, nonostante questo? »
Da bravo gatto, nell’analizzare le sue dieci ragioni Lanier non scende a compromessi. Va dritto per la sua strada, non di rado si mostra forastico, ingovernabile, e a tratti poco comprensibile, graffia e spesso è troppo concentrato su se stesso e sull’oggetto del suo odio e della sua indignazione per difendere fino in fondo le sue peraltro in parte ragionevolissime tesi.
La conclusione a cui arriva è, ovviamente, quella che dà il titolo al libro: se vogliamo mantenerci integri, « sani », se non vogliamo insomma che la « Fregatura », per l’appunto, ci freghi e prenda il controllo della nostra vita e della nostra anima non abbiamo altra scelta: chiudere subito, chiudere tutto. Anche solo per sei mesi, dice Lanier, per « vedere l’effetto che fa » sentirsi liberi, in controllo della propria vita e della propria anima.
Lanier è tutt’altro che un catastrofista improvvisato: la sua biografia basta a certificare la sua preparazione in materia (ci scuserà per il link verso Wikipedia, che lui stesso definì qualche anno fa un « aberrante progetto di maoismo digitale »)
Noi comuni mortali però in più di un passaggio facciamo fatica a star dietro alle sue posizioni assolutiste, e a lasciarci coinvolgere dal suo radicalismo più o meno bene argomentato e senza concessioni. Il decalogo di Lanier solleva senza dubbio questioni cruciali e difficilmente rinviabili, e basta semplicemente vivere nel mondo contemporaneo per essere spinti regolarmente a interrogarci sui pro e i contro di social e dintorni, sui compromessi cui ci obbligano e le insidie a cui ci espongono. Ma quanti di noi dopo aver letto questo libro cancelleranno davvero i loro account?
Pochissimi, credo. Ne sappiamo meno di lui, abbiamo meno volontà, abbiamo un progetto da portare avanti lì sopra, siamo in una fase della nostra vita in cui per un motivo o per l’altro sentiamo che non possiamo farne a meno. Scuse o ragioni, semplice sesto senso o soppesate convinzioni; a ognuno il suo. Quel che è certo è che torna in mente Massimo Troisi in Scusate il ritardo, e i suoi « cinquanta giorni da orsacchiotto », in alternativa al giorno dal leone e ai cento da pecora: davvero siamo condannati a essere tristi (ragione 7), stronzi (ragione 3), lontani dalla verità (ragione 4), politicamente inutili (ragione 9), incapaci di empatia (ragione 6), insomma davvero non c’è verso di salvare la nostra anima se continuiamo a scorrere timeline, a fissare tweet o a postare stories?
E allora forse, mentre decidiamo se provare o meno a essere gatti come Lanier vuole insegnarci, potremmo provare a essere piante, e a restare sui social per vegetare, nel senso latino del termine, che non è quello di una vita passiva e priva di qualunque slancio. Nel linguaggio comune, il verbo « vegetare » è finito a indicare uno stato inerte e privo di coscienza; « vegetare », però, in latino significa rinforzare, vivificare, incoraggiare. E, a proposito di anima, l’anima vegetativa in Aristotele è quella che presiede a tutte le attività della nostra vita, e aiuta il corpo a crescere, a svilupparsi e riprodursi. In tempi immateriali e confusi forse proprio esseri primordiali come le piante possono offrirci non solo splendide metafore, ma aiutarci ad agire diversamente da come noi stessi, altri umani o altri esseri viventi (gatti compresi) ci indurrebbero a fare.
« Abbiamo molto da imparare, dalla vita vegetale », scrive Emanuele Coccia nel suo saggio La vita delle piante di recente pubblicato da Il Mulino, un libro che, pur trattando apparentemente di piante, appunto, fa riflettere su molte altre cose, come i libri scritti e pensati bene, per quanto ci si ostini a considerarli specialistici, riescono a fare. « I vegetali sono piantati nell’aria più o meno quanto sono piantati nella terra », scrive Coccia citando il naturalista Charles Bonnet, spiegandoci che il primo ambiente di una pianta è l’atmosfera, l’aria e l’ambiente che la circonda, non il suolo in cui è radicata.
E la nostra vita digitale, aerea e impalpabile eppure giorno dopo giorno sempre più essenziale non sta forse diventando un aspetto emblematico della nostra vita, tanto quella «reale», terrena, apparentemente radicata nel mondo e nelle cose concrete e tangibili del mondo cui apparteniamo e in cui siamo cresciuti?
« Le piante vivono simultaneamente due vite, l’una aerea, bagnata e immersa nella luce, fatta di visibilità e d’intensa interazione interspecifica con altre piante e altri animali – di tutte le taglie; l’altra ctonia, minerale, latente, ontologicamente notturna, scolpita nella carne pietrosa del pianeta, in comunione sinergica con tutte le forme di vita che lo popolano. Queste due vite non si alternano e non si escludono: sono l’essere di uno stesso individuo, l’unico che arriva a riunire nel proprio corpo e nella propria esperienza la terra e il cielo, la pietra e la luce, l’acqua e il sole, essere immagine del mondo nella sua totalità. »: non è forse quello che succede a noi adesso, che conduciamo due esistenze distinte ma inevitabilmente complementari e che però, invece che trarre unità e vita da questo duplice livello, fatichiamo sempre più spesso a far coincidere l’alto e il basso, il fuori e il dentro, il reale e virtuale, il privato e il pubblico, e nascondiamo dietro agli schermi quello che abbiamo paura di svelare di noi stessi, e diamo in pasto al mondo angoli di noi stessi che chi ci vive accanto fatica talvolta a riconoscere?
Far propria questa metafora non risolve certo le questioni maggiori legate allo strapotere dei social, al controllo delle nostre vite e della nostre mente. Ma non saremmo forse persone straordinariamente migliori, più serene, produttive e in armonia col mondo, se riuscissimo una volta per tutte a tenere a mente, come le piante fanno in ogni momento della loro esistenza, che materia e intelletto coincidono; che, come scrive Aristotele, nel suo De anima «L’alto e il basso non sono gli stessi per ciascuna cosa (…) e ciò che è la testa per gli animali sono le radici per le piante» e che dall’«atmosfera» in cui ci ritroviamo a vivere dipende molto più di quello che crediamo, visto che è ormai parte integrante di noi stessi e della nostra vita?
«Le piante coincidono con le forme che inventano, per loro tutte le forme sono declinazioni dell’essere, non del fare o dell’agire»: l’autodesign della pianta è un esempio straordinario di come si dovrebbe stare al mondo, e suona mistico, credo, solo a chi non ha voglia di interpretarlo nel modo giusto. Non esistono, in natura, fiori inutili, frutti polemici, stagioni sterili: ogni espressione di vita, ogni silenzio ha un’anima, e se i social ci obbligano a un determinato ambiente, tutto il resto siamo noi a produrlo e a renderlo possibile, giorno dopo giorno. «Ogni organismo è l’invenzione di una maniera di produrre il mondo », scrive Coccia che certo sta apparentemente parlando di tutt’altro, e sarà forse sorpreso di essere chiamato in causa per una questione apparentemente tanto lontana dall’oggetto del suo studio. Ma la sua «metafisica della mescolanza» non si applica forse perfettamente alle dinamiche digitali, e di cosa stiamo parlando, ancora una volta, se non di incontri, contaminazioni e processi tanto impalpabili quanto decisivi?
Mentre decidiamo quanto vogliamo essere coinvolti nel mondo da cui Lanier ci mette in guardia, e ci sforziamo di capire se il gioco vale la candela, proviamo allora a «vegetare» qui sopra, e far coincidere l’alto e il basso, il dentro e il fuori, in un unicum che, se non è sempre armonia, perlomeno è coerenza, e onestà verso se stessi e gli altri. Senza pretendere che la vita qui sopra si sostituisca all’altra, o viceversa illudersi che non la intacchi minimamente; senza pretendere di essere o pensare al posto di qualcun altro, o di agire in contesti che ci sono propri, di dire e fare cose che normalmente non faremmo nell’altra metà della nostra esistenza. Ricordandoci che, come ha scritto Anassagora nel 400 a.c, «La mescolanza è la forma propria del mondo», e soprattuto, come ci ricorda Coccia nel 2018, «vivere in società significa partecipare alla costruzione di un’atmosfera».
Infine, tenendo a mente che perfino le radici sono un’invenzione tutto sommato piuttosto recente: le crediamo alla base di tutto, tanto da averle elette a metafora universale, ma le radici non sono sempre esistite. La loro origine, che risale a circa 390 milioni di anni fa, è piuttosto oscura, e per milioni di anni le piante ne hanno fatto a meno, nel mare e sulla terra: «almeno fino alla fine del Devoniano le piante vascolari sembrano aver vissuto senza sviluppare assi radicali», e «come tutte le forme di vita destinate a durare millenni, la loro origine somiglia a un’invenzione fortuita e al bricolage, piuttosto che a un’elaborazione metodica e cosciente. Le prime forme di radici sono delle modificazioni funzionali del tronco e dei rizomi orizzontali sprovvisti di foglie». Se neppure questo ci insegna qualcosa, allora forse non ci sono gatti e carrellini che tengano.