Infrastrutture, inquinamento e fine del pensiero: la Nuova Era Oscura di James Bridle

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    Infrastrutture, inquinamento e fine del pensiero: in un brano tratto dal suo ultimo libro, James Bridle ci racconta come stiamo entrando in una Nuova Era Oscura (Nero – Not).

    La storia – il progresso – non sempre va di bene in meglio: non è tutto rose e fiori. E questa non è – non può essere – una questione di nostalgia per i bei tempi andati. Si tratta piuttosto di ammettere che il presente si è sganciato dalla temporalità lineare, e che diverge in modo confuso ma sostanziale dall’idea stessa che abbiamo della storia. Nulla è più chiaro, né può esserlo.

    A essere cambiata non è la natura dimensionale del futuro, ma la sua prevedibilità.

    In un editoriale per il New York Times, il meteorologo computazionale ed ex presidente dell’American Meteorological Society William B. Gail cita una serie di modelli oggetto di studio da secoli, e ora sconvolti dal cambiamento climatico: tendenze meteorologiche a lungo termine, migrazioni ittiche e deposizione delle uova dei pesci, impollinazione delle piante, cicli monsonici e delle maree, incidenza di eventi meteorologici «estremi». Per gran parte della storia dell’umanità, tali cicli sono stati prevedibili: abbiamo così potuto ammassare vaste riserve di conoscenza a cui attingere per meglio sostentare la nostra civiltà sempre più intricata.

    Grazie a questi studi abbiamo via via esteso le nostre abilità predittive, dalla conoscenza di quali colture piantare in quale periodo dell’anno alle previsioni su siccità e incendi boschivi, dalle dinamiche predatore/preda fino alle aspettative sulle produzioni agricole e ittiche.

    Dall’esattezza di simili previsioni dipende la civiltà stessa: eppure la nostra capacità di mantenerle valide sta scemando, nello stesso momento in cui gli ecosistemi iniziano a collassare e le tempeste del secolo si scatenano a ripetizione. Senza precise previsioni sul lungo periodo gli agricoltori non possono piantare le colture giuste, i pescatori non possono pescare, le difese contro inondazioni e incendi non si possono pianificare, le risorse energetiche e alimentari non si possono determinare, né si può far fronte al fabbisogno.

    Gail prevede un futuro in cui non è inconcepibile immaginare che i nostri nipoti sappiano meno del mondo di quanto ne sappiamo noi, con esiti catastrofici per delle società complesse. È possibile, secondo lui, che abbiamo già superato il «picco della conoscenza», così come potremmo aver già superato il picco del petrolio. Una nuova era oscura incombe su di noi.

    Il filosofo Timothy Morton definisce il riscaldamento globale un «iperoggetto»: ovvero un qualcosa che ci circonda, ci avviluppa e ci collega, ma che è troppo grande perché possiamo vederlo nella sua interezza. Percepiamo gli iperoggetti attraverso l’influenza che esercitano su altre cose – una calotta polare che si scioglie, un mare in agonia, lo scuotimento di scia in un volo transatlantico.

    Gli iperoggetti accadono ovunque in ogni momento, ma noi ce ne accorgiamo solo nell’ambiente limitato che ci circonda. Siamo inclini a percepirli come eventi personali perché ci toccano direttamente, o a immaginarli come prodotti della teoria scientifica; in realtà, sfuggono tanto alla nostra percezione quanto alla misurazione. Esistono a prescindere da noi. Essendo così vicini eppure così difficili da vedere, sfidano la nostra capacità di descriverli in termini razionali, nonché di controllarli o avere la meglio su di loro in senso tradizionale. Il cambiamento climatico è un iperoggetto, ma lo sono anche le radiazioni nucleari, l’evoluzione e internet.

    Una caratteristica fondamentale degli iperoggetti è che possiamo solo percepirne l’impronta lasciata su altri oggetti: per creare il modello di un iperoggetto è necessario un quantitativo ingente di computazione. L’iperoggetto può essere compreso solo al livello della rete, e può essere reso percepibile attraverso vasti e capillari sistemi di sensori, esabyte di dati e computazione processati nel tempo oltre che nello spazio.

    L’archiviazione dei dati scientifici diventa così una sorta di percezione extrasensoriale: una costruzione della conoscenza in quanto rete, comunitaria e al di là del tempo. È una caratteristica che suona come un anatema per un certo tipo di pensiero – quello che si ostina a voler toccare e percepire quanto è intangibile e impercettibile, e che pertanto rigetta ciò che non riesce a concepire. Il dibattito sul cambiamento climatico è in realtà un dibattito su ciò che siamo in grado di pensare.

    Non saremo in grado di pensare ancora a lungo. Nell’era preindustriale, dall’anno 1000 al 1750 dell’era corrente, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera variava tra 275 e 285 parti per milione – livelli che abbiamo dedotto studiando i nuclei di ghiaccio, le stesse batterie della conoscenza che oggi si stanno sciogliendo nell’Artico. A partire dall’alba dell’era industriale questi valori hanno cominciato a salire, raggiungendo 295 ppm all’inizio del XX secolo e 310 ppm nel 1950.

    Tale tendenza – chiamata Curva di Keeling, dal nome dello scienziato che nel 1958 ha inaugurato le misurazioni moderne all’osservatorio di Mauna Loa delle Hawaii – non fa che crescere e accelerare. 325 ppm nel 1970, 350 nel 1988, 375 nel 2004. Nel 2015, per la prima volta in almeno 800.000 anni, l’anidride carbonica nell’atmosfera ha superato le 400 ppm. A un simile ritmo – che non mostra cenni di rallentamento, e che noi non sembriamo intenzionati ad arrestare – la CO2 atmosferica supererà 1000 ppm entro la fine del secolo.

    A 1000 ppm, le capacità cognitive umane crollano del 21 percento. A concentrazioni più alte, la CO2 ci impedisce di pensare lucidamente. Fuori dalle abitazioni, la CO2 raggiunge già regolarmente le 500 ppm nelle città industriali: all’interno, in abitazioni poco ventilate, oppure in scuole e luoghi di lavoro, può superare normalmente 1000 ppm; in California e Texas, un ampio campione di scuole esaminate nel 2012 ha sfondato le 2000 ppm.

    L’anidride carbonica annebbia la mente: va a deteriorare direttamente la nostra capacità di pensare in maniera lucida, eppure da una parte la isoliamo nei luoghi dell’istruzione, dall’altra continuiamo a immetterla nell’atmosfera. La crisi del riscaldamento globale è una crisi della mente, una crisi del pensiero, una crisi della nostra capacità di pensare un altro modo di stare al mondo.

    Presto non riusciremo più a pensare nulla.

    Il degrado delle nostre abilità cognitive è rispecchiato dal collasso delle rotte transatlantiche, dalle insidie alla rete delle comunicazioni, dalla scomparsa della diversità, dallo scioglimento delle riserve di conoscenza storica: sono tutti segni e presagi di una più ampia incapacità di pensare a livello di reti, di sostenere pensieri e azioni a livello di civiltà mondiale. Le strutture che abbiamo costruito per espandere i nostri sistemi di vita, le nostre interfacce cognitive e aptiche con il mondo, sono gli unici strumenti di cui disponiamo per percepire un mondo dominato dall’avvento degli iperoggetti. Ora che cominciamo a percepirli, questa capacità comincia a sfuggirci.

    Il pensiero del cambiamento climatico è perturbato dal cambiamento climatico stesso, così come la nostra capacità di discutere e agire sugli intricati mutamenti ambientali e tecnologici è limitata dall’incapacità di concettualizzare i sistemi complessi. Eppure, al centro della nostra crisi attuale risiede l’iperoggetto della rete: internet e i modi di vivere e di pensare che questa intesse. Caso pressoché unico tra gli iperoggetti, la rete è una forma di cultura emergente generata dal nostro desiderio conscio e inconscio di dialogare con la matematica e gli elettroni e il silicio e la fibra di vetro. Il fatto che questa rete venga attualmente usata (male) per accelerare la crisi, come vedremo nei prossimi capitoli, non significa che non conservi il suo potenziale illuminante.

    La rete è la migliore rappresentazione della realtà che abbiamo creato, proprio perché è anch’essa tremendamente difficile da concepire. Ce la portiamo appresso in tasca, costruiamo tralicci per trasportarla e immensi edifici di dati per elaborarla, e però non è possibile ridurla in unità discrete; è non-locale e intrinsecamente contraddittoria, ed è questa la condizione del mondo nella sua interezza. La rete viene continuamente, deliberatamente e inconsciamente creata.

    Vivere in una nuova era oscura richiede di accettare simili contraddizioni e simili incertezze, veri e propri stati di non conoscenza funzionale. È così che la rete, se compresa in modo appropriato, può guidarci nel pensiero di incertezze ulteriori; rendere palesi e visibili le incertezze è necessario proprio per poter essere in grado di concepirle, di pensarle.

    Per affrontare gli iperoggetti bisogna avere fede nella rete come modo di vedere, pensare e agire. La rete mette in discussione i vincoli di tempo, luogo ed esperienza individuale che caratterizzano la nostra incapacità di concepire le sfide della nuova era oscura. Esige un certo grado di affinità con ciò che è noumenico e incerto. Nonostante l’atomizzazione e l’alienazione, la rete ribadisce l’impossibilità della separazione.

     

    Immagine di copertina: ph. Jacek Dylag da Unsplash

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