Qual è il ruolo della filosofia nel mezzo di una pandemia? Cosa hanno da dire i filosofi di fronte a migliaia di morti causati dal passaggio di un virus? In questi giorni la comunità filosofica si sta interrogando molto sul proprio ruolo in una società colpita da una pandemia, riflessione che forse implica il futuro stesso della disciplina. La frustrazione nel sentirsi inutili è molta, difficile nasconderlo. Si sta in casa a scrivere ognuno i propri articoli ma si vorrebbe fare di più mentre il mondo affonda. Cosa può dire la filosofia in questo presente e, soprattutto, nel prossimo futuro? Quale contributo i filosofi possono dare?
Le risposte sono diverse (qui una bibliografia su filosofia e Covid-19). Iniziamo dai cattivi esempi. Si va dalla posizione negazionista di Agamben, già tradotta purtroppo in diverse lingue, a quella clownesca di Zizek che tifa per il Coronavirus che lotta insieme a lui contro un virus peggiore che affetta il mondo: il capitalismo.
L’idea è che la pandemia sia una formidabile occasione per ripensare la nostra società da tempo malata, anzi questa pandemia potrebbe addirittura condurre ad una reinvenzione del comunismo.
Ovviamente questa strada che porta verso il sol dell’avvenire sarebbe lastricata di morti, di malati e di poveri ma poco importa se il collasso dell’economia ci rende spiriti migliori in marcia verso un mondo perfetto. Si sa il refrain escatologico: — quando la rivoluzione arriverà ci guarirà da tutti i mali.
La strada che porta verso il sol dell’avvenire è lastricata di morti e di poveri ma poco importa
Il punto è che qualsiasi cosa accada nel mondo la risposta di questi filosofi — povera di argomenti ma ricca di slogan — è sempre la stessa, come quella del mercante di pozioni che deve vendere nonostante tutto il suo prodotto, che sia la “nuda vita”, lo “stato d’eccezione” o il ritorno ad un marxismo originario lavato con Lacan.
Alcuni filosofi usano concetti passe-partout che possono andar bene in ogni circostanza, e dunque non spiegano nulla.
Nell’attesa dell’avvento del neo-comunismo o di incontrare la nuda vita — e con ambizioni meno radicali — spero che quello che stiamo vivendo, se ci insegnerà qualcosa, sarà di raffinare la nostra capacità di discrimine in filosofia — ma anche nella scienza — tra pifferai magici e seri studiosi. Forse una cosa che non sarà più la stessa, o che tollereremo meno, sarà proprio l’accettare un certo stile in filosofia, ossia quello da “chiacchiera da bar”, che va bene se fatta tra quattro amici di fronte a una birra ma meno se insegnata all’università. Nei momenti difficili diventiamo più esigenti con noi stessi e con gli altri, si impara a dividere il grano dal loglio.
Un’altra possibilità per la filosofia è guardare agli antichi. In questo caso le risposte possono essere due: la filosofia come consolatio o come amor fati. Nel primo caso il solo uso che si può fare della filosofia in questo momento è quello consolatorio, la lettura di classici come sollievo dal dolore o come incoraggiamento; nel secondo caso, la filosofia deve educare lo spirito ad accettare il proprio destino.
In entrambi i casi il ruolo della filosofia sarebbe in fondo quello di riconoscere i propri limiti biologici, d’insegnare a morire (sia letteralmente sia simbolicamente come passaggio ad un mondo diverso da quello che finora abbiamo conosciuto).
Questa è certamente una tradizione nobile della filosofia che va da Platone, Cicerone, Seneca, a Montaigne e Schopenhauer e oltre; si fonda però sull’idea che in un momento difficile la filosofia non possa fare granché perché il suo compito non è trovare soluzioni ai problemi ma semplicemente insegnare ad accettarli. “Chi insegnasse agli uomini a morire, insegnerebbe loro a vivere”, osservava Montaigne. La filosofia insomma non avrebbe molto da dire né da fare, sarebbe piuttosto una sorta di terapia esistenziale per la tranquillità dell’anima.
Davvero l’unica risposta della filosofia è il quietismo terapeutico?
Fermo restando che questa rimane una grande tradizione mi sembra però difficile accettare l’idea che il filosofo possa fare solo questo, in primo luogo perché fortemente limitante nei confronti della filosofia stessa relegata ad un ruolo passivo di fronte alla vita, debolmente sulla difensiva di fronte agli altri saperi. In secondo luogo perché in entrambi i casi mi sembra “rubare” il lavoro alla religione. Davvero l’unica risposta della filosofia è il quietismo terapeutico? Se fosse davvero così sarebbe difficile giustificare la sua presenza nelle università e difendere la filosofia dai suoi nemici quando si è seduti intorno a un tavolo per distribuire fondi di ricerca.
Credo che dai filosofi ci si aspetti di più. Io non credo che questa strada sia percorribile per chi lavora con il pensiero, — e non con la consolazione o il destino. Innanzitutto perché penso che il lavoro del filosofo abbia a che vedere con l’analisi dei concetti che impieghiamo nella nostra vita quotidiana e nei linguaggi scientifici o tecnici — in fondo il lavoro del filosofo si riduce a comprendere e articolare il senso delle parole e delle proposizioni, a fissare significati e evitare errori concettuali, lasciando a chi è più competente la prova di formulare teorie sul mondo, sulla società o sull’essere umano.
Ritorniamo alla nostra domanda iniziale: qual è dunque il ruolo della filosofia nell’epoca del Covid19? Come possono contribuire i filosofi? Farò tre esempi, ma se ne possono fare altri in merito a quello che un filosofo può fare in questo momento per e insieme alla sua comunità. Il primo riguarda la bioetica, il secondo l’epistemologia della testimonianza e il terzo discute alcune osservazioni etiche riguardo la scelta del lockdown e il paternalismo.
1/ Iniziamo col riconoscere che non ci sono esperti al momento sul Covid-19, si sta apprendendo tutto sul campo. E molto spesso l’urgenza pone i medici di fronte a scelte difficili cui non dovrebbero essere loro a rispondere direttamente ma protocolli stabiliti da un bureau di esperti in bioetica.
Nel caso infatti in cui in un ospedale il numero di ventilatori di terapia intensiva sia inferiore al numero dei pazienti che ne necessitano, cosa si fa? Con quale criterio si sceglie chi salvare e chi lasciare morire? Per rispondere a questa domanda drammatica il National Board of Health and Well-being svedese ha istituito il Centre for Health Care Priority Setting il cui compito è disegnare le nuove linee-guida per prendere decisioni eticamente sensibili e per pensare come spendere al meglio le risorse al fine di migliorare la salute della popolazione svedese e razionalizzare i fondi per le cure mediche.
A dirigere questo centro c’è un filosofo, Lars Sandman, professore di Etica dell’assistenza sanitaria all’Università di Linköping, cui si affiancano altri filosofi specializzati in etica applicata di altre università svedesi. Perché i medici non fossero lasciati soli e una scelta cosi tragica non fosse guidata solo dall’arbitrarietà, è stata fatta una distinzione concettuale basata sul modello di invecchiamento attuale tra età anagrafica e età biologica del paziente.
In sostanza in caso di scelta la priorità non va data al paziente anagraficamente più giovane ma al paziente biologicamente più giovane, perché i corpi non invecchiano tutti alla stesso modo e le aspettative di vita di una persona sana anche se anziana possono essere maggiori di quelle di una persona più giovane ma che non ha tenuto in forma il proprio corpo (causa fumo, alcol, droghe) o a causa di malattie congenite o pregresse.
Si valuta come il corpo può rispondere al trattamento e all’aspettativa di vita post-covid19 in termini di anni. Ovviamente le valutazioni le fanno i medici ma hanno delle linee-guida da seguire basate su una distinzione in seno al concetto di età che alcuni filosofi hanno ridefinito e che invece il senso comune dava per acquisito e univoco. In questo caso il contributo dei filosofi solleva non poco il lavoro dei medici dall’aggiunta del fardello etico.
Per i filosofi che lavorano nel campo della bioetica questa epidemia offre diverse riflessioni. Ma cosa dire di chi si occupa di epistemologia o metafisica?
2/ Per i filosofi che lavorano nel campo della bioetica questa epidemia offre diverse riflessioni e, probabilmente, nuovi campi di lavoro. Ma cosa dire di chi si occupa di epistemologia o metafisica? Queste parti della filosofia sono destinate a scomparire?
Non credo, anzi. Farò anche qui un esempio pratico partendo dalla situazione attuale. Saremo tutti d’accordo nel riconoscere alla scienza un primato e ai fatti scientifici una priorità e un’autorità sulle chiacchiere e l’opinione di chi non ha alcuna qualifica per parlare. Eppure anche volendo seguire solo la voce degli esperti sorgono perplessità.
Prendiamo l’esempio delle mascherine, se siano in ogni caso indispensabili o meno: l’OMS afferma una cosa, alcuni virologi un’altra, altri scienziati ancora un’altra cosa. Anche restando tra le opinioni di chi ha autorità per parlare, si ha difficoltà a capire chi ha ragione. Come è possibile tante opinioni diverse sull’uso di un semplice presidio medico? Di fronte alle diverse opinioni ognuno di noi prenderà una decisione basata sulla formazione della sua credenza in merito all’uso della mascherina.
Per la maggior parte di noi questa credenza non si è formata per conoscenza diretta dell’uso della mascherina – a meno che non si sia medici o infermieri – ma attraverso il giudizio di una fonte a cui si riconosce un’autorità. Porto la mascherina perché mio cugino che è medico mi ha detto che è meglio indossarla sempre. Indossare o non indossare la mascherina lo decido in base ad una credenza formatasi per conoscenza indiretta o per testimonianza. La indosso perché S che è un’autorità ha detto che si deve indossare. Buona parte di tutto quello che sappiamo e facciamo a causa di questo virus è per testimonianza.
E il fatto di cercare in continuazione informazioni su internet dimostra che questa forma di conoscenza durante le epidemie è centrale e determina la quasi totalità dei comportamenti delle persone coinvolte. L’epistemologia della testimonianza studia la formazione di una conoscenza non per contatto diretto con l’oggetto ma per mezzo di una seconda persona, o fonte, che è testimone del fatto che noi crediamo vero; è una forma di conoscenza indiretta che si stabilisce tra due agenti cognitivi (prefissato per luglio 2020, il 10 Incontro Internazionale in Filosofia della Mente dedicato al tema delle seconda persona è stato riportato all’anno prossimo, una parte degli interventi sarà dedicata alla conoscenza indiretta in tempo di Covid19).
Buona parte della conoscenza che noi abbiamo, da quella storica, scientifica, religiosa a quella quotidiana è di questo tipo e cerca di rispondere alla domanda “come lo sai?”. Lo studio di questo ramo dell’epistemologia può essere di aiuto non solo per spiegare ma anche per prevedere il comportamento sociale durante una pandemia e organizzare la comunicazione delle informazioni istituzionali (se le informazioni non sono chiare o peggio contraddittorie la popolazione perde fiducia nel testimone, il che può portare al caos).
Un filosofo specializzato in epistemologia della testimonianza dovrebbe sedere in ogni comitato di crisi così come in ogni gruppo che si occupa di scienza, società e comunicazione scientifica; sono certo contribuirebbe efficacemente alla lotta al contagio.
Un filosofo specializzato in epistemologia della testimonianza dovrebbe sedere in ogni comitato di crisi
3/ Il terzo e ultimo spunto di riflessione che riempirà d’inchiostro pagine e pagine di libri e articoli di filosofia morale nei prossimi anni concerne le scelte dure e controverse che le autorità stanno prendendo in questi giorni e che riguardano la nostra vita. Sono domande scomode e difficili ma bisogna seriamente iniziare a porsele, e in fondo filosofi sono pagati anche per questo.
Su quale principio morale poggia ad esempio la scelta del lockdown di un’intero paese? Si risponderà che il principio guida è quello di salvare più vite possibili poiché se non si facesse nulla si andrebbe incontro a una situazione peggiore e quindi si perderebbero più vite.
A prima vista sembra un argomento consequenzialista. L’etica consequenzialista riconosce la fondatezza morale di una certa azione in funzione delle sue conseguenze. Ma le conseguenze positive per chi? Ovviamente per quella parte della popolazione che si salva ma che non è la maggioranza ma una percentuale abbastanza bassa. E davvero si possono calcolare tutte le conseguenze nei prossimi anni di questa azione così drastica: disoccupazione alle stelle, fame, maggiore criminalità, povertà?
La teoria etica utilitarista stabilita da Bentham e Stuart Mill nel XIX secolo — cui il consequenzialismo ne è il cuore secondo alcuni— afferma che un’azione è moralmente giustificata — ossia utile — se produce conseguenze positive di piacere per il maggior numero di individui. La scelta del lockdown non sembra presa su basi consequenzialiste.
Si potrebbe sostenere al contrario che le conseguenze di questa azione toccheranno invece direttamente o indirettamente la maggioranza della popolazione per un ammontare del dolore che si protrarrà nei prossimi anni e che peserà anche sulle generazioni future. Poco probabile pensare che quando questa epidemia sarà passata la qualità della vita del maggior numero di persone sarà migliore. Cosa si risponde a questa obiezione?
Faccio un altro esempio. Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo ha affermato che vuole poter dire ai newyorchesi di aver fatto tutto il possibile, e che se tutto quello che ha fatto salvasse anche una sola vita, egli sarà felice.
Lo stesso pensiero può essere espresso in questi termini: salvare anche una sola vita umana è un bene in sé che non ammette condizioni, indipendentemente da quali possano essere le conseguenze. Anche se questa decisione appare molto nobile c’è qualcosa di pericoloso e assolutista in questa idea.
Su quale principio morale poggia ad esempio la scelta del lockdown di un intero paese?
In primo luogo, sembra che lo Stato giustifichi la sua scelta in base ad un principio paternalista — è la scelta migliore per noi tutti anche se ci è difficile riconoscerlo, dobbiamo essere protetti da noi stessi perché se lasciati a noi stessi non sappiamo prendere decisioni per il nostro bene — e questo ci dovrebbe far pensare nei prossimi anni a riflettere maggiormente sull’autonomia personale e i suoi limiti nonché sulla legittimità o meno di un paternalismo di Stato (sul paternalismo morale si vedano due bei saggi del filosofo Gerald Dworkin, Paternalism” The Monist, 56: 1972, 64-84, e ”Moral Paternalism” Law and Philosophy, Maggio 2005).
Accettiamo che chi governa si rivolga a noi in questo modo? Anche se non si è filosofi ci si è accorti di questo inaccettabile tono paternalista da parte delle autorità tanto che in rete e sui social network da giorni circola lo slogan “siamo consapevoli e responsabili ma non obbedienti”.
Detto in termini filosofici, la differenza sta nel pensare alla limitazione dell’autonomia come scelta individuale perché la società sopravviva e i limiti dell’autorità che stabilisce cosa la società può fare contro la volontà degli individui. Nel primo caso siamo noi individui che riconosciamo come giusto il principio del danno (harm principle) stabilito da Mill: la libertà degli individui può essere limitata solo quando le loro azioni possono danneggiare i diritti degli altri (come ad esempio il diritto alla vita, alla salute e al soccorso in caso di malattia). Nel secondo caso si giustifica la repressione.
In secondo luogo, possiamo domandarci se la scelta del lockdown non sia stata presa in base ad un principio utilitarista pensando alla felicità generale, ma sulla base di un principio deontologico che riconosce la vita come un bene sacro e incondizionato, lo statement di Cuomo riassume perfettamente questa idea. Le etiche deontologiche non valutano la bontà di un’azione dai suoi effetti ma dal dovere che scaturisce da una norma, razionale o religiosa che sia. Non salvare una vita non è mai giustificabile, indipendentemente da quali possono essere le conseguenze di questa azione.
Molti medici seguono principi deontologici anziché consequenzialisti, molti politici non conoscono la differenza tra i due — e in fondo il lavoro dei filosofi consiste anche nello spiegare questa differenza.
Accettiamo che chi governa si rivolga a noi in questo modo? Anche se non si è filosofi ci si è accorti di questo inaccettabile tono paternalista
Siamo tutti d’accordo sul fatto che il lockdown è necessario a fini pratici — evitare la diffusione del virus. E lo stiamo tutti rispettando. Anche gli economisti sono d’accordo nel dire che è il male minore . Ma resta inaccettabile essere trattati come bambini indisciplinati che non vogliono seguire le regole.
Il punto è che la politica dovrebbe spiegarci in base a quale principio etico prende decisioni drammaticamente così importanti per la nostra vita e per quella delle generazioni future, altrimenti si potrebbe avere l’impressione che si stia camminando sull’orlo di un burrone guidati da ciechi. Si possono applicare principi deontologici o consequenzialisti, ma lo si dovrebbe fare in modo consapevole e coerente perché sembra che alcune scelte prese siano giustificate a volte dalla bontà dell’azione stessa, altre volte in base alle conseguenze. Ancora una volta questo atteggiamento può nutrire nella popolazione un sentimento di abbandono e di leaderless che può causare effetti controproducenti e dannosi (producendo così un danno alla società che era ciò che invece si voleva evitare per principio).
Mi sembra che questi tre esempi chiariscano perché il sentimento di frustrazione e scoraggiamento nei confronti della filosofia non dovrebbe vincere. Il lavoro del filosofo non è quello di trovare il senso della vita o di dire agli altri come devono vivere ma quello di fornire strumenti concettuali utili a chi prende decisioni difficili, nel comunicarle e spiegarle agli altri. Se vediamo la filosofia in questo modo — e io penso sia il modo migliore e più vantaggioso — allora resta ancora molto lavoro da fare per i filosofi — non solo nella situazione attuale ma anche, e forse soprattutto, nel futuro.