Secondo alcune prospettive dell’antropologia filosofica, la paura della morte e l’uso della tecnica appartengono ai fondamenti ontologici dell’essere umano. L’arte, in ogni sua espressione, fa uso della tecnica per esorcizzare la paura della morte e l’angoscia di esistere. Durante la scorsa estate, in risposta a Barbie di Greta Gerwig e Oppenheimer di Christopher Nolan, si è innescato un dibattito, su scala globale, che ha sorvolato i territori un tempo appartenenti all’esistenzialismo. Si è parlato di morte e di tecnica; molto meno di arte.
Com’è noto, l’uscita in contemporanea nelle sale statunitensi dei film di Gerwig e Nolan, ha scatenato il fenomeno memetico Barbenheimer. La dimensione del meme rende istantanea la relazione, solo apparentemente assurda, tra un film di brand e un biopic, le bambole e la guerra, la questione femminile e le armi di distruzione di massa. Al di là di strategie di marketing più o meno deliberate, nella messinscena dei due film si avverte un contrasto fra il peso della realtà e la leggerezza delle sue rappresentazioni: materiale perfetto per i meme apocalittici. Questa tensione memetica infatti potrebbe scaturire da ciò che il filosofo Günther Anders definiva “vergogna prometeica”, intesa come il senso di inferiorità avvertito dagli umani rispetto ai prodotti della tecnica moderna.
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