Se 5.000 copertine vi sembrano poche… ma è il record raggiunto da Riccardo Falcinelli, romano, poco più che quarantenne, uno dei grafici editoriali (e non solo) più prolifici e originali attivi nel nostro paese, che nell’arco di vent’anni ha cambiato l’immagine – e dunque la percezione che il lettore ha – di case editrici storiche (Einaudi) e più giovani (Minimum Fax), rifondando l’idea stessa di progetto grafico.
Ripubblichiamo un’intervista uscita su Alias de il manifesto, prima di una serie.
Dopo aver studiato al Central Saint Martins College of Art and Design di Londra, dove si sono formati anche artisti come Gilbert & George o stilisti come Alexander McQueen e Galliano, Falcinelli intraprende la sua attività di grafico a 24 anni, presso uno studio importante di Roma, il Gruppo Artigiano Ricerche Visive. Qui si occupa un po’ di tutto, svolgendo contemporaneamente attività in proprio. La svolta arriva nel 1999 quando inizia a lavorare per Minimum Fax, ridisegnando le diverse collane (una lunga avventura raccontata nel volume Fare i libri. Dieci anni di grafica in casa editrice, da lui curato).
Altra data importante è il 2011, anno in cui apre lo studio Falcinelli & Co. intorno al quale si sono avvicendati una decina di collaboratori. Tra gli altri editori per i quali ha realizzato progetti grafici vi sono Laterza («Gli ho mandato una mail dicendogli che avrei voluto lavorare con loro e dopo un mese disegnavo la mia prima copertina») e Carocci (per la quale cura la saggistica trade). Non solo libri tuttavia: Falcinelli, infatti, ha progettato la grafica del settimanale pagina99 di cui è art director.
Ma Falcinelli vanta anche una laurea in letteratura italiana, con una tesi sui rapporti tra grafica e letteratura dal ’500 ai giorni nostri. Ed è forse questa duplicità di approccio al mondo della grafica, pratico e teorico, unita all’insegnamento (insegna all’ISIA di Roma), che lo rende un attento osservatore dei fenomeni e delle trasformazioni che si sono succedute nel suo campo artistico. Se inizialmente sognava di disegnare cartoni animati e fumetti ed è autore, insieme a Marta Poggi, di tre graphic novel (Cardiaferrania, 2001; Grafogrifo, 2004; L’allegra fattoria, 2007), attualmente Falcinelli è anche saggista: il suo Critica portatile al visual design, un prezioso viatico dalla struttura tematica, pubblicato per Einaudi oltre un anno fa, è diventato un piccolo best seller, innanzitutto perché il libro va a colmare un vuoto nel panorama editoriale, poi per il linguaggio, accattivante ma non banalmente divulgativo, capace di rivolgersi a studenti, appassionati e profani.
Il volume precedente, Guardare pensare progettare (Graffiti-Stampa Alternativa) tentava un approccio neuroscientifico all’universo grafico, mentre il libro su cui sta attualmente lavorando (e che uscirà il prossimo anno) è incentrato sul colore: «È il racconto, afferma, di come una società industrializzata ha cambiato il nostro rapporto con quello che vediamo, anche attraverso la percezione cromatica». La passione di Falcinelli per il colore emerge nettamente dalle sue copertine, basate su una vivacità cromatica, spiegabile – come suggerisce lui stesso – «in ambito psicanalitico o forse dettata dai miei inizi nel campo del fumetto o dei cartoni animati».
In generale ciò che emerge dallo stile grafico di Falcinelli è un minimalismo di fondo, una pulizia per l’immagine non affogata in eccessive texture, con pochi elementi in gioco: un lettering di forte impatto, basato su una font efficace che dialoga con una illustrazione o con una fotografia, quasi sempre isolata su un campo vuoto, spesso recisa dai bordi della cover. Il concetto di un romanzo è visualizzato da una sintesi di due oggetti insieme, che, in alcuni casi seguono la logica surrealista della macchina da cucire e dell’ombrello sul tavolo operatorio. Il libro per Falcinelli è, insomma, un oggetto visivo che si dona allo spettatore in un colpo d’occhio. In alcuni casi l’impostazione della copertina è quasi cinematografica, oppure può essere giocata su tre tempi: come nel caso della trilogia di Sara Bilotti costituita da L’oltraggio, La colpa e Il perdono (Einaudi Stile Lbero Extra) le cui copertine affiancate formano l’unica e raffinata immagine in bianco e nero di una donna nuda distesa.
Il lavoro di Falcinelli, inutile dirlo, ci insegna a valutare l’oggetto libro anche per la sua componente visuale, archiviando definitivamente, l’arcaico adagio secondo il quale un libro non si giudica dalla copertina.
Come ti definiresti: un graphic designer o un visual designer?
Essenzialmente lavoro in editoria: giornali, cataloghi, riviste ma soprattutto libri. In realtà ho iniziato disegnando fumetti con l’intenzione di fare l’animatore alla Disney in California. Con quest’idea in testa, dopo il liceo, sono andato a Londra dove, casualmente, durante un workshop alla scuola d’arte mi capita come docente un art director della Penguin Book. È stata una folgorazione, ho capito che quell’attività mi sarebbe piaciuta e avrei coniugato la passione per il disegno con quella per le storie e per i libri. Negli anni li ho disegnati, progettati, impaginati e anche scritti. Ho imparato a fare tutto: dalla ricerca iconografica per le copertine e per gli interni, alla scelta la carta, della legatura e perfino del tipo di colla. Spesso più che un grafico mi sento un redattore che lavora con altri mezzi. Poi, ovviamente, mi capita di fare anche altro.
Ad ogni modo, esiste una differenza tra graphic e visual design?
Diciamo che il visual design è qualunque progettazione pensata per essere guardata da un pubblico di massa, quindi è una macrocategoria, ma non c’è nessuno che si occupa di tutti i settori, ogni designer tende a specializzarsi. Anche i fotografi da alcuni decenni possiamo considerarli visual designer, poiché sanno che le immagini verranno riprodotte in riviste e altri contesti, e ne tengono conto quando scattano una foto.
Come è cambiata la progettazione grafica di un libro con il passaggio dal cartaceo al formato digitale?
Di fatto non è cambiato nulla. Anche gli e-book hanno bisogno della grafica, ovvero della forma con cui qualunque tipo di prodotto o merce deve essere pubblicizzato e venduto. Diciamo che i nuovi media hanno trasformato l’editoria sotto altri aspetti, per esempio i canali di vendita on line, quindi il problema del grafico riguarda semmai creare copertine visualizzabili sul web in formato ridotto. Alle classiche due regole dei vecchi maestri – una buona copertina deve funzionare sia convertita da colore in bianco e nero, sia ribaltata come in uno specchio – aggiungerei una terza: anche se la guardi piccola come un francobollo.
Quindi il sorpasso dell’e-book sul libro tradizionale è lontano da venire.
In proporzione il grosso del venduto continua ad essere cartaceo. Pensiamo a Taschen: vero e proprio colosso della carta che non realizza neppure le edizioni elettroniche delle proprie pubblicazioni. La richiesta di libri tradizionali, insomma, non è venuta meno. L’e-book funziona per la narrativa di consumo, come i best seller o i romanzi rosa, ma i libri illustrati si fanno ancora con la carta. Oggi sul web si possono trovare tutti i dipinti di Piero della Francesca, ma se esce una monografia su questo artista la gente la compra. L’on line viene vissuto come consultazione più che come contemplazione. L’esperienza fisica di sfogliare un libro è insuperata. Altro esempio: per chi studia è facile aprire più libri contemporaneamente e se a uno studente gli fornisci un pdf, è naturale che tenda a stamparselo per leggerlo con calma, sottolinearlo, memorizzarlo.
Qual è il cuore del tuo lavoro, il fulcro da cui parte il progetto, il fattore imprescindibile?
La narrazione. Siamo circondati da immagini ma, molte volte, manca la «storia», oppure è divorata dall’aspetto formale. L’errore più grave per chi fa progettazione grafica è la gratuità, cioè non tener conto del pubblico cui ci si rivolge, adoperare un linguaggio che non c’entra nulla con l’oggetto che si vuole comunicare. La provocazione è uno dei comportamenti gratuiti più diffusi: anziché concepire un solido messaggio visivo, fai una cosa per attirare l’attenzione e basta. Cosa che avviene spesso in pubblicità.
Come nasce l’idea per un progetto grafico, come procedi nel tuo lavoro?
Innanzitutto chiedo al mio committente che tipo di storia vuole raccontare e a chi vuole rivolgersi. Se devo ideare la copertina di un libro da 150 euro ragiono in modo diverso dalla progettazione di un tascabile. L’importante è conciliare le ragioni dell’editore (e dell’autore) e quelle del pubblico. A questo primo step, subentra lo stile personale e quindi decido come farla mia quella idea, sempre rispettando la volontà del committente. Si tratta di usare toni di voce diversi a seconda dell’editore e del pubblico. La vera maestria è trovare il tono giusto – dalla voce stentorea della conferenza al sussurro dell’intimità – e saperlo modulare. Il visual design è l’arte retorica dei nostri giorni. Se devo impaginare un classico della letteratura, so che sarà letto da un pubblico variegato e quindi uso un immaginario decifrabile da persone diverse per cultura, formazione e interessi; se invece lavoro al catalogo di un festival di cinema, parlo a un pubblico compatto culturalmente e quindi mi permetto scelte più sofisticate.
Quali font ami usare?
No, non c’è una font che prediligo su un’altra. Dipende dalla «storia» che sto raccontando. Così come non ci sono caratteri che non mi piacciono. Non escludo nulla a priori.
Ci sono elementi costanti e ricorrenti dai quali si riconosce il tuo stile?
Gli elementi che mi appartengono e per i quali credo di venir riconosciuto sono un grande uso del vuoto: in una mia composizione c’è una sola cosa da guardare, mi piace dire una cosa per volta. E poi i forti contrasti tonali: utilizzo una tavolozza cromatica piuttosto vivace.
In effetti le tue copertine sono piuttosto lineari, poco caotiche e ridondanti, di grande impatto visuale, ma tutto sommato sobrie.
Ci sono grafici che mettono al centro l’autorialità, di conseguenza qualunque cosa facciano è sempre molto riconoscibile. A me, al contrario, piace un po’ scomparire nel progetto.
Nelle tue copertine preferisci lavorare con fotografie o con illustrazioni?
La fotografia in copertina mi piace e spesso mi capita di scattare personalmente le immagini per poi usarle graficamente. Mi appassiona tagliare una foto per farla parlare meglio. Una delle copertine recenti cui sono più legato è quella de La famiglia adolescente di Massimo Ammaniti: c’è tutta la mia filosofia in questa cover, frutto di molte prove e giocata in due tempi, come se fosse un movimento di macchina sul soggetto. Per Einaudi e Minimum Fax adopero spesso disegni in copertina e ho avuto la fortuna di lavorare con ottimi illustratori, da Gipi ad Emiliano Ponzi, da Agostino Iacurci a Shout a Valeria Petroni.
Immagino sia un grosso vantaggio per te muoverti sia sul campo pratico (l’attività di grafico) sia su quello teorico (il saggista).
Le due cose non sono scindibili. Innanzitutto perché scrivere saggi è comunque un modo di fare libri, poi perché mi sono reso conto che la progettazione grafica mi porta ad affrontare una serie di problemi, concettuali ed estetici, a formulare idee, costruire teorie, modi di pensare, comunicando ai non addetti ai lavori lo sguardo sulla società attuato attraverso le immagini. Noi siamo circondati dal visual design, ma la scuola non ce lo insegna, così mi è sembrato naturale rendere accessibili i diversi punti di vista, far comprendere al pubblico come funziona una pubblicità o si articola un progetto grafico. Ma del resto esiste un autore, artista o designer, con non abbia una sua teoria di ciò che fa?
Il tuo approccio alle immagini non è per niente snob, anzi, hai dichiarato di essere interessato – soprattutto come studioso – al design «popolare», alla grafica di massa, dal volantino del supermarket alle etichette dei prodotti, dunque anche al contesto sociale in cui questo tipo di espressioni nasce e si sviluppa.
Non che io non veda la differenza tra una grafica raffinata e una di massa, ma mi rendo conto che a lasciare una traccia non è il design «alto», bensì quello ingiustamente definito «brutto» o comune. L’esperienza del Bauhaus ha definito la classe colta e ha esercitato grande influenza su generazioni di studenti. Ma se parliamo di grandi numeri a formare le persone, a costituire un immaginario sono state le riviste popolari. Per la comunicazione attuale contano sicuramente i quadri di Mondrian, ma anche le copertine di Vogue o Sorrisi e Canzoni.
La tua attività di docente ti porta a confrontarti con i più giovani. Quanto ti serve?
Insegno perché mi diverte farlo, per trasmettere informazioni, ma poi ci sono anche perché credo si possa conoscere veramente una cosa solo quando si è in grado spiegarla agli altri e, quindi, a forza di spiegarla si diventa anche più bravi a progettare, perché ti poni sempre domande sul tuo lavoro.
Quali errori commettono più spesso i tuoi allievi?
Credere che i risultati arrivino in tempi brevi e accontentarsi della prima cosa che ti viene in mente. Per giungere al risultato finale faccio decine e decine di prove, la prima non può mai essere quella buona. I primi 20 bozzetti li faccio per scaldarmi, anche se – essendo molto allenato – ci impiego non più di un’ora.
Immagino che spesso il risultato finale non corrisponda a ciò che hai concepito all’inizio.
Direi che un terzo del mio lavoro non mi rappresenta completamente, ma fa parte del gioco. Fare design non è come fare l’artista, devi comunque tenere conto del committente. Poi c’è un terzo di cui vado veramente fiero e, infine, c’è un terzo situabile a metà tra orgoglio e mestiere.
Di quali lavori sei più orgoglioso?
Beh, delle copertine che ho disegnato personalmente, circa una trentina. Scelgo volutamente di farne massimo un paio l’anno. Poi sono fiero di aver creato l’immagine di un’intera casa editrice, Minimum Fax, che è un po’ come fare il direttore d’orchestra per 15 anni. E sono orgoglioso anche di 15 anni di art direction per Einaudi Stile Libero, una casa editrice dentro la casa editrice: tenere il timone, garantire un tono einaudiano su titoli così diversi tra loro non è stato facile. Mi sono assunto la responsabilità di fare qualcosa di nuovo, rompendo con una tradizione autorevole che ha inciso sulla cultura visiva italiana, ma cercando di mantenere un livello di eleganza. In un paese come il nostro tragicamente spaccato tra prodotti di élite e consumi dozzinali, in cui troppi accademici scrivono libri incomprensibili e la televisione si livella sempre più in basso, c’è un grande bisogno di inventare progetti che siano di livello alto pur parlando a un pubblico vasto. La cultura non deve essere divulgata (termine orrendo) ma resa accessibile. Anche questo l’ho imparato da Hitchcock.