Del nulla come contenuto culturale

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    E così dovrei scrivere a proposito dell’ultimo e corposo volume di Diego Fusaro? Il volume, oltre 650 pagine si intitola Storia e coscienza del precariato (Bompiani). Certo il titolo è interessante, l’autore diciamo rilevante, o quanto meno discusso. Forse anzi discutibile con le sue intemerate ego reazionarie in improbabili trasmissioni televisive o peggio presso organizzazioni fascio-paesane che da qualche anno titillano il Paese con il loro poco entusiasmante portato di carabattole fascistoidi e conformismi vari allegramente adornati di tirapugni.

    Detto questo il tema è centrale, non eludibile e tanto meno scavalcabile con facili battute, il volume è impegnativo e lo è anche la sua scrittura dannunziana (e non è una battuta) e per affrontarlo sarebbe necessario un recensore capace di andare oltre la coltre gelatinosa della fama dell’autore per entrare a piene mani nella tematica affrontandola nel suo cuore.

    Ma poi è davvero necessario parlare e scrivere di Storia e coscienza del precariato? È davvero necessario affrontare un volume principalmente per le sue provocazioni e la presenza scenica del suo autore? Non sarebbe meglio indagare all’interno di testi di autori magari meno noti, ma più innovativi dal punto di vista dell’analisi e della ricerca? Forse, ma poi chi se li leggerebbe degli articoli su autori sconosciuti (scritti da autori anch’essi sconosciuti)? A chi interessa davvero spaccarsi la testa attorno a speciosità para accademiche? Probabilmente a molti considerato il tema centrale oggi per la vita di tutti noi, probabilmente a pochi considerati coloro che hanno il tempo da perdere per leggere un articolo sulle loro stesse disgrazie e sulle complesse e spesso tristi soluzioni che vengono indicate.

    E allora tanto meglio osare con Fusaro, anzi osare insieme a Fusaro e non recensirlo, ma intervistarlo, suggerire in questo modo ad un’amplia platea la necessità di un confronto virulento e anche aspro, ma capace di generare delle reazioni, magari perfino vitali. Un confronto capace di attivare una serie di sentimenti oggi così tanto presi in considerazione che vanno dall’indignazione (anche se ultimamente in calo) fino alla rivalsa, magari condita con un bel po’ di rancore e di quel meraviglioso sentimento di comunità che è la vendetta, anzi la vendetta all’italiana, ma questo già ci porterebbe lontano. Ma è questo un dibattito culturale?

    È un dibattito culturale domandarsi se puntare sull’effetto capra per dirla con Vittorio Sgarbi (Capra! Capra!! Capraa!!!) oppure sull’esile confronto tra anime perse e nemmeno belle che non sono in grado di coinvolgere neppure i famigliari più stretti? Non dovrebbe esistere un livello mediano, ma capace di una proposta radicale e trasversale dentro cui convogliare l’interesse di un pubblico più ampio?

    Per partire, dovremmo escludere che il pubblico abbia colpe? Non ci metterei la mano sul fuoco, perché la velocità dei media digitali ci dice che chi pubblico è, spesso anche autore è e viceversa e ad una velocità impressionante. In questo momento ad esempio mentre scrivo sto leggendo un articolo di Christian Raimo (e finito questo mio colto, ironico e ieratico pezzo poi andrò ad insultarlo sulla sua pagina facebook).

    Poi dovremmo forse domandarci perché un simpatico e giovanile professore di filosofia (un tempo si sarebbe detto di provincia) come Diego Fusaro debba distorcere e torcere a tal punto le proprie competenze in nome di una fama controversa e di una celebrità diffusa però tutt’altro che intellettuale (Gianpiero Mughini per dire, a rivelarsi juventino ci ha messo un po’ di anni in più e senza mai che ciò inficiasse le sue qualità intellettuali). Forse la risposta sta tra un certo brio condito di vari elementi a cui pochi uomini sanno essere indifferenti.

    Ed è in questa essenza di indifferenza – principalmente maschile – fatta di quei capisaldi del contemporaneo che sono denaro, fama e sesso (cosa volere di meglio dalla vita oggi e pure ieri) che è interessante ritrovare gli elementi di squilibrio di un discorso culturale pubblico totalmente superficiale e al tempo stesso circolare. Il discorso è diventato il veicolo di una celebrità diffusa in cui non è più il punto di vista il centro, ma la performance occasionale che prima o poi tocca a chiunque fare o almeno a chiunque desiderare. Il dibattito culturale quindi come un improbabile spazio aperto per nani in cui a tutti è permesso partecipare ballerine comprese.

    Ma per l’appunto se si volesse fare altro e dire altro? In sostanza tenuto fermo il punto del che fare si apre la questione sul a chi dirlo? Non si tratta certo di influenzare le grandi masse popolari, anzi è bene starne lontani se si ha cura della propria testa sul proprio collo, ma almeno indicare gli strumenti per girare qualche vite, forzare un poco gli spazi della maggioranza in favore di una minoranza sarebbe necessario, bisogna sempre badare alla minoranza come elemento rivoluzionario indicava Ignazio Silone a Palmiro Togliatti (così dico per dare un segno ai compagni in lettura). E del resto non ci si può nemmeno chiudere gli occhi avvertendo che se nessuno ci segue è perché siamo più eleganti, più colti e raffinati quando già Oliviero Toscani e un altro prima di lui ci hanno spiegato che se qualcuno ci ama di sicuro ci segue.

    Probabilmente c’è da affrontare un guado, in fondo basta guardarsi un po’ meglio attorno per rendersi conto che non è poi così vero che non siamo più in guerra da più di metà secolo, forse dovremmo renderci conto che la guerra anche se non è in casa in qualche modo è nelle nostre menti che si ostinano a dare realtà ad un mondo fasullo (no, non diciamo distopia, almeno qui).

    Probabilmente questo guado non è una traversata verso qualcosa di diverso e di migliore, ma è il guado stesso l’obiettivo: entrare con le gambe nella melma e i fucili sulla testa e rischiare che ci si bagnino le sigarette, mentre con gli occhi teniamo a mente che alla peggio un coltello Black Fighter lo abbiamo con noi. E probabilmente non è propriamente questa l’immagine che aveva in mente colui che mi sta consigliando su come definire al meglio l’identità di cheFare e del suo brand. Sì perché oggi nel discorso culturale non è più pensabile essere battitori liberi se non trasformandosi in macchiette in alcuni casi comiche, in altri casi patetiche (smettete di pensare a Diego Fusaro), ma è necessario dotarsi di un corpo più grande e maggiormente comprensibile e maggiormente interpretabile. La sfida in questo caso è quella di accettare a bordo più persone possibile e al tempo stesso detestarle una a una provando a trasformare l’identità del proprio discorso in un elemento quanto più possibilmente critico e non plasticamente conformista.

    La cultura non risolve i problemi, ma di certo ne trova sempre di nuovi e per questo oggi è necessario imparare il contenuto dove si pensa che non ci sia contenuto e dare contenuto a tutto ciò che crede di poterne fare a meno, smarcarsi dunque dall’idea di prima donna (esiste un’immagine più maschilista di questa?) non quando questa è già in scena, ma non aderendo allo schema anche quando questo origina in qualche sindacato per pensionati.

    Quella che ci occorre è una chiave che ci permetta di fare cose solo per noi stessi, solo cose come ci pare, ma che come succede la mattina appena svegli, possano lasciare un po’ di caffè anche per chi si sveglierà più tardi.

    Affrontare dunque il nulla non come una superficie, ma come un contenuto, mostrare se serve, e serve sempre, anche il proprio nulla, dare spazio alla propria incompetenza rivelata se occorre. Mettere a disposizione il proprio nulla perché nulla più della comprensione del nulla può evidenziare un’alterità, una distinzione chiara e netta come quella che passa tra una merda d’artista e la merda di tutti i giorni.

    Non sapendo nel frattempo come si possa impedire che le sue bellissime mani si rovinino passando tra la fatica di un lavoro mal pagato e l’ansia delle dita morsicate o come la sua schiena rotta venga scambiata con un poco di pace dopo cinquant’anni di lavoro affaticato, è possibile rispolverare quel che da tempo si sa, ossia che è dalla parte sbagliata dove bisogna farsi trovare e meglio ancora se lì c’è il nulla. Tra Diego Fusaro e il nulla scegliamo senza dubbio il nulla.


    Immagine di copertina: ph. Dane Deaner da Unsplash

    Note