Chi sia stato di recente in un museo pubblico italiano avrà notato che è possibile scattare foto a patto di non usare il flash. Sembra un gesto banale, eppure fino al 2014 era spesso vietato. Tuttavia le foto di dipinti e sculture sono ammesse solo per uso privato: se uno vuole inserirle in un libro o stamparle su una maglietta (e magari venderla), deve farne richiesta al museo o alla soprintendenza e pagare un canone, anche se quell’opera è di pubblico dominio (cioè se sono scaduti i diritti d’autore) e anche se si tratta di un monumento in mezzo alla strada, come il Colosseo. Insomma, le foto sono libere, ma a patto che restino nei nostri smartphone o su Facebook.
L’articolo 108 del Codice dei beni culturali riconosce infatti ai musei alcuni diritti speciali sulle opere in collezione, che si concretizzano in una sorta di diritto d’autore illimitato nel tempo. E dunque, mentre si può mettere una poesia di Leopardi su una maglietta (e venderla) senza nessuna autorizzazione, lo stesso non accade con quadri e monumenti. Normale, si dirà: in fondo dipinti e sculture sono oggetti fisici e richiedono una manutenzione di cui la poesia di Leopardi non ha bisogno. Sembra dunque sensato finanziare restauri e conservazione anche con gli introiti dell’uso delle immagini. Ma sarà vero? In realtà la questione è scivolosa e non è detto che ci sia un reale vantaggio per i musei, per la cultura e, forse, nemmeno per i cittadini. Ma andiamo per ordine.