L’innovazione culturale non esiste, ma c’è

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    Sono le sei del mattino, è ancora buio, l’anomalo sole di questo autunno duemilasedici non ha ancora invaso strade e quartieri. Fa freddo come deve fare mentre cammino spedito verso l’edicola, ritiro il mio quotidiano plico di giornali che ormai l’edicolante a memoria mi mette via. E mi approssimo verso uno dei pochi bar già aperti, qualche vagabondo sulle panchine della piazza e qualche lavoratore dentro al bar; per lo più operai, muratori e camionisti. Si sta bene a quest’ora ancora lontani dalle banali ed estenuanti isterie quotidiane, lontani dal tintinnare dell’inutile scrittura ormai perenne che inquina i nostri giorni da semipensanti.

    Mi siedo, prendo un caffè e inizio a leggere, sfoglio rapidamente, sfoglio con rabbia e qualche nervosismo, raramente una piacevole sorpresa. Va così. Un uomo mi fissa, occhiali neri, bicipite tatuato, maglietta strappata, ma a modo. Scarpe da ginnastica, abbronzato. Sembra Fabrizio Corona. È Fabrizio Corona. Leggi ancora i giornali mi chiede o meglio mi dice perentorio. Sì sussurro senza guardarlo. Fanatico dice. Lo guardo, sorrido. Sorride. E gli occhiali da sole? Gli chiedo. C’è troppa luce in questo bar. Ha ragione.

    Continuo a leggere dondolandomi un poco sulla sedia, apro e chiudo i giornali e improvvisamente mi rendo conto quanto “Fabrizio” abbia ragione anche rispetto al mio fanatismo. Un fanatismo religioso, la mia preghiera laica ormai è fatta di continui piegamenti della schiena e sussurri pagina dopo pagina. Sussurri più o meno nervosi, più o meno grevi. Lui sempre mi fissa o almeno immagino da dietro le lenti scure. “Io non esisto, ma ci sono” mi dice. Quindi sì mi fissa.

    Effettivamente chi sia Fabrizio Corona fatico a capirlo o meglio a verificarlo, sì certo si potrebbero fare tutte le analisi sociologiche del caso e i conseguenti mea culpa, maxima culpa, ma non hanno alcun senso se non per qualche moralista disoccupato. Quindi il fatto che “Fabrizio” non esista, come idea mi seduce. Primo perché Pirandello – uno, nessuno e centomila – ci vedeva lungo e non sbaglia mai e poi perché l’esistenza di Fabrizio Corona è intrinseca con l’ossessione, sua e dei suoi spettatori. Insomma se dovessi stringergli la mano – cosa che mi darebbe un qual certo perverso ludibrio – probabilmente mi troverei a stringere non il vuoto, ma la mia stessa mano. Un uomo contemporaneo, un uomo immateriale il nostro Fabrizio.

    In una Bustina di Minerva pubblicata nel 2000 e ora raccolta con il titolo di Ma ne abbiamo inventate davvero tante? nel voluminoso Pape Satàn Aleppe (La Nave di Teseo), Umberto Eco nota quanto in realtà il Novecento non sia il secolo delle innovazioni, almeno non al confronto dell’Ottocento. Tutto quanto è stato inventato nell’Ottocento infatti è oggi vivo e vegeto e perennemente aggiornato, quanto invece è stato pensato nel secolo successivo sembra mostrare la corda, tendenzialmente puzza di antiquato, un po’ come gli intellettuali. Quello che resta dunque, quello che può esserci utile è invece una certa qualità del pensiero o più precisamente una forma mentale performante, ma anche capace di duttilità. Quello che resta dunque non esiste, ma c’è, esattamente come Fabrizio Corona.

    Tuttavia quello che non va è la conseguente ossessione che genera come si sa, mostri. L’ossessione è quella che oggi vediamo prendere forma attorno alla guerra di civiltà, attorno alla ricerca malata di un’identità (tra le più patetiche ossessioni di sempre) e quella che arriva alla distinzione di razza (la più violenta e orribile tra tutte). L’ossessione immateriale è il razzismo raccontato con audacia sentimentale da Ta-Nehisi Coates in Tra me e il mondo (Codice Edizioni). Una lettera accorata al figlio, ma in realtà rivolta al proprio Paese, Gli Stati Uniti ad oggi ancora capaci di distinguere razza bianca e razza nera e rendere questa distinzione attiva in tutti i gradi sociali e lavorativi. Una distinzione che non esiste, ma c’è. Una ossessione, una malattia che difficilmente può essere sconfitta da una qualche infrastruttura, da una qualche commissione e tanto meno da qualche dichiarazione formale e impotente del presidente Obama.

    Ed è questo il motivo principale per cui oggi l’innovazione culturale si occupa di immateriale ossia di una attenta scrittura della realtà e possiamo dire conseguente tentativo di correzione ortografica.

    L’innovazione culturale dunque non è una moda, non è un gruppo di giovani e non è nemmeno la fotografia di un coworking con ragazzi con espressioni apatiche che fissano il vuoto dei loro schermi, l’innovazione culturale è una tecnica e dunque una pratica, ma una pratica immateriale.

    L’innovazione culturale non produce romanzi e non produce teorie (o almeno sarebbe meglio che non lo facesse), in realtà il suo scopo è mimetico come rivelatorio. Mostrare quello che non c’è più e dare dunque evidenza a quello che esiste ancora e spesso resiste. Nel mezzo del tragitto due sono gli ostacoli principali: le ossessioni vedasi paure, angosce e in generale quel coccoloso vittimismo che attraversa i cuori stanchi di una generazione, e il conformismo che è ormai il collante per mezzo del quale ogni reazione viene ridotta, schematizzata e infine sputata privandola di ogni possibile elemento di turbamento, di deflagrazione.

    La sfida dell’innovazione è dunque costruire una tecnica, una prassi capace di districare i nodi dentro ai quali l’ingenuità e l’ignoranza si mischiano al dolore, ai diritti negati come agli spazi ridotti ad etichette formali di una negazione perenne e continua. Ed è l’etichettatura, la formalizzazione uno degli inganni tipici di un mondo che prova a forzare le porte, ma si ritrova spesso a schiuderle o magari ad occuparne gli uffici con le medesime logiche che lo hanno preceduto.

    La pratica dell’immateriale è una questione di equilibrio e di misura dentro alla quale i sentimenti più urgenti devono farsi motore di una logica capace di muoversi tra strade impervie o ancora tutte da inventare. Un’azione che deve coinvolgere un pubblico critico ampio e disponibile alle incertezze perché nulla è più immateriale del corpo. Si cambia, si cresce e si cambia ancora.

    «Nell’ambito della realtà le cui condizioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono quindi a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere (all’interno delle frequenze determinate per mezzo delle connessioni) è piuttosto rimesso al gioco del caso.»

    Enunciava Werner Karl Heisenberg nel 1942, il famoso principio di indeterminazione che è alla base anche di un piccolo e prezioso romanzo di Jérôme Ferrari, Il principio (Edizioni E/O, traduzione di Alberto Bracci Testasecca) con il quale l’autore oltre che confermarsi uno dei più curiosi e interessanti autori francesi intreccia teoria, storia e autobiografia trasformando il principio nel filtro con cui leggere il futuro e interpretare il passato. Il principio di indeterminazione come filo teso sopra il quale condurre un’intricata quanto obbligata esistenza: “Molto prima di assumere la forma delle disuguaglianze matematiche a cui deve la propria incomparabile bellezza, infatti, il principio consiste innanzi tutto nella sua personale convinzione, professor Heisenberg, che non raggiungeremo mai il fondo delle cose, non per una maledizione o per la debolezza delle nostre facoltà, ma per la ragione definitiva e radicale, che subito prima di congedarmi, mi viene rivelata dalla giovane docente protesa verso di me sul tavolo che mi protegge dal suo furore e dalla sua indignazione: perché le cose non hanno fondo.”

    Il fondo non esiste, ma tuttavia lo si indaga e questa è forse la più grossa e anche imprevista eredità che ci lascia il Novecento. Uno spazio d’indagine infinito, obbligatorio e per certi versi nemmeno del tutto voluto perché l’utopia spaventa spesso almeno quanto la realtà e perché è vero, le cose, come le storie in realtà (checché ne dica Alessandro Baricco) hanno senso sempre e solo se non hanno fine, qualunque sia la forma voluta o meno dell’inifinito.

    Ed è da questa consapevolezza che deve prendere energia il motore di un’innovazione ancora oggi all’alba di un fragile principio, ma destinata nella sua azione a non esaurirsi.

    In caso contrario sarà il trionfo di tutto quello che più si può temere dalla diffusione capillare (come se già non bastasse) delle disuguaglianze con la conseguente la riduzione dell’umano a mero braccio di uno scientismo ottuso quanto fondamentalmente inutile.

    Fabrizio Corona è il nostro piccolo joker, il buffone di corte che dovrebbe divertirci, ma anche avvertirci perché se lui non esiste, noi invece sì e ultimamente gli stiamo assomigliando sempre più. Fabrizio Corona è la nostra illusione quotidiana, come una preghiera inutile. Chissà poi se era davvero lui in quel bar o se ero solo io che mi illudevo, una volta di più ancora.

    Note