Cos’è l’innovazione culturale? Se ne parla a Palermo – di Michele Dantini

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    Qui di seguito la versione ridotta dell’intervento che Michele Dantini terrà al Festival Nuove pratiche di Palermo, dedicato ai temi dell’innovazione culturale, in programma ai Cantieri culturali alla Zisa nei giorni 17 e 18 ottobre. Info qui.

    Possiamo definire l’innovazione culturale in modi diversi. È ‘pura’ quando è indipendente da punti di vista applicativi. Ci muoviamo allora nei territori dell’arte, della filosofia, della scienza. Oppure è applicata: ci muoviamo negli ambiti della tecnologia, dell’economia d’impresa responsabile o del no-profit. In questo secondo caso è preferibile parlare di innovazione sociale. Quale punto di vista intendiamo adottare? Questa è la prima domanda. La seconda: quali rapporti esistono tra innovazione culturale da un lato, ‘crescita’ o ‘sviluppo’ dall’altro? O tra innovazione culturale e sfera pubblica?

    L’economista e premio Nobel Edmund Phelps ha affermato recentemente che l’umanesimo italiano è alle origini del paleocapitalismo Whig: l’apprezzamento rinascimentale dell’intraprendenza avrebbe alimentato gli animal spirits della prima rivoluzione industriale. Agli occhi di Phelps il ‘capitale umano’ incide molto concretamente sul Pil. Esistono modelli di innovazione che intrecciano la dimensione personale a quella politica. Per un sociologo come Richard Sennett sono innovative le consapevolezze profonde: aiutano a lasciarsi alle spalle rancori e soggezioni. Per la filosofa Martha Nussbaum è invece innovativa la capacità di elaborare emozioni ‘negative’ come rabbia, timore o vergogna.

    Stiamo imparando a decifrare i modi complessi attraverso cui la creatività modella gli ambiti più diversi (l’astrofisica, il design o il salto con l’asta) sospinta dalle circostanze più varie: ingegno e ambizione personale, logiche interne degli ambiti di riferimento, caso. Cosa accende la scintilla dell’innovazione? Certo non un’unica pietruzza focaia. Si è osservato che artisti e scienziati innovativi tendono a stabilire relazioni molteplici, a impegnarsi attivamente in comunità di ricerca formali e informali e a muoversi tra indagine istituzionale e attivismo (ambientale, civile, sociale etc.). Le singole ‘individualità’ hanno certo importanza, ma altresì le istituzioni culturali, il contesto storico o sociale, la qualità dell’apprendimento.

    Sta di fatto che l”innovazione culturale’ sembra oggi tanto importante da indurci a invocarla in modo quasi ossessivo. Perché? In parte per i timori connessi a una presunta crisi della creatività: da decenni, sostengono i più pessimisti, non si registrano innovazioni di rilievo in arte, filosofia, scienza o tecnologia. La grande evoluzione dell’umanità si è forse arrestata agli anni Settanta? In parte perché in tutto l’Occidente confidiamo che l’ascesa della ‘classe creativa’ possa contrastare il ciclo recessivo.

    E in Italia? Il terziario avanzato, l’industria creativa e culturale e le nuove professioni della Rete producono effetti anticiclici? Non si direbbe, a giudicare dai dati sull’occupazione giovanile, catastrofici; sul reddito degli under 40, in costante decrescita da oltre vent’anni; e sulla spesa in welfare, tra le più sperequate nel mondo avanzato. Per l’economista Mariana Mazzucato lo Stato dovrebbe assumere il ruolo di risk taker e incoraggiare ricerca non applicativa (o “curiosity driven”). Ma è appunto quello che l’Italia non fa, vuoi per ristrettezze di bilancio vuoi soprattutto per scelte ideologiche retrive appoggiate da influenti comunità industriali. Dunque?

    L’innovazione culturale difende occupazione qualificata e svolge importanti compiti redistributivi se avvicinata al mercato e trasformata in impresa; o se sostenuta dalle amministrazioni pubbliche e trasformata in iniziative di durevole efficacia pedagogica (esempi? una casa editrice di ricerca, una legge pro-Open access, un centro d’arte e di produzione distribuita no-profit etc.). Definiamo innovativo un ‘servizio’ che aiuta a costruire comunità e assicura una migliore infrastruttura sociale e culturale al territorio. Discutiamo inoltre di “innovazione sociale” con riferimento privilegiato a processi o tecnologie open source, istituzioni inclusive e piattaforme socializzanti.

    La tecnologia ha spesso giocato un ruolo importante nella nascita di nuovi indirizzi di ricerca. Tutti gli ambiti di ragionamento complesso sono oggi posti in questione, sollecitati e rimodellati dalle tecnologie digitali. Lo spostamento dal supporto cartaceo al digitale ha conseguenze decisive sul modo in cui leggiamo, annotiamo, memorizziamo un testo, e influisce in modo ancora scarsamente indagato sulle modalità di attenzione. Possiamo chiederci: come comunicare on line conoscenze fini? La domanda è tanto più urgente se, come ricercatori, giornalisti, intellettuali intendiamo davvero prendere parte al processo di formazione della nuova ‘cultura generale’. Dobbiamo sforzarci di chiarire e chiarire e chiarire, in primo luogo a noi stessi, per essere precisi e diretti.

    Se pubblichiamo in Rete ci rivolgiamo a un pubblico non specialistico e che va di fretta. Spesso parliamo di ‘divulgazione’, ma questa non è una buona descrizione della posta in gioco. Raggiungere platee più ampie equivale a modificare dall’interno le istituzioni scientifiche, mostrarle più aperte e accessibili e rendere l’opinione pubblica partecipe della loro sorte. Ne va dei rapporti tra conoscenza e potere, dunque del buono stato di salute delle nostre democrazie: non di semplici mutamenti linguistici. A mio avviso questa è ‘innovazione’.

     

    Questo articolo è stato precedentemente pubblicato da Huffington Post e ripubblicato qui per gentile concessione del suo autore che ringraziamo.

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