Dentro la Adelphi di Roberto Calasso, il lavoro culturale come elaborazione di uno spazio esistenziale

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    Viviamo in un tempo che dopo i trionfi, ma soprattutto le crisi del Novecento, si è trovato obbligato a fare i conti anche e soprattutto in ambito culturale con i concetti di efficacia e di impatto. Due elementi sempre molto difficili da sintetizzare e soprattutto quanto mai lontani da una possibile modellizzazione. Questo avviene perché in generale – per molto semplificare – tutto ciò che è culturale per esserlo vive fuori da ogni forma di controllo anche da forme di controllo potenzialmente virtuose e che si propongono non di delimitarlo, ma di amplificarlo. 

    Controllo non è una parola a caso ed in un certo senso è anche un termine severo (forse troppo) perché resta quanto mai vero e sostanziale che la cultura ha bisogno di disciplina, approfondimento, studio e applicazione, tutte categorie che per l’appunto necessitano di essere governate. Dice bene Anne Dillard a proposito della scrittura nel suo denso e bellissimo saggio Una vita a scrivere quando annota: “Decisamente materiale è anche il tentativo dello scrittore di controllare le sue energie per poter lavorare. Deve essere abbastanza eccitato da affrontare il compito che gli si para davanti, ma non così eccitato da non riuscire a stare seduto a lavorare”. E quello che accade ad uno scrittore è in parte lo stesso meccanismo che in maniera collettiva si sviluppa in un’impresa culturale. 

    Dunque come riconoscere il valore culturale di un’impresa? 

    Diciamo che è molto facile riconoscerlo ex post per quanto riguarda la sua diffusione sociale, e la sua forza identitaria. Sarebbe facile anche riconoscerlo in atto, ragionando magari in termini economici, ma anche in questo caso si rischia di distorcere il reale valore culturale perché non sempre i dati economici per un’impresa culturale ne definiscono il valore. Il problema è infatti principalmente dato dal valore specifico del prodotto culturale che può nel tempo rivelarsi più o meno efficace senza che questo sia del tutto (anzi quasi per nulla) controllabile dal suo produttore. 

    Questa sostanziale aleatorietà fa sì che il lavoro dell’editore possa essere paragonabile a quello del regista cinematografico: nessuno dei due compie infatti le azioni pratiche e conseguenti che portano alla messa in opera del loro prodotto culturale. Chiunque faccia l’editore (o il regista) darà sempre risposte diversissime rispetto a quello che è il centro del proprio lavoro: non esistono infatti due editori nel mondo che facciano o almeno dicano di fare lo stesso mestiere. Roberto Cerati che di Einaudi è stato il presidente e prima ancora l’anima commerciale – quindi uno che i libri li sapeva vendere, e anche molto bene – sosteneva che i libri prima di tutto si pensano, non si fanno. E questo forse è anche l’unico contatto che esiste tra un’idea di editoria moderna e avanzata, ma novecentesca come quella di Einaudi e un’idea che invece, scardinando buona parte dei miti della contemporaneità, ha superato il Novecento e ha anche negato alcuni concetti considerati basilari dell’editoria moderna come ha saputo fare Adelphi. 

    Gli imminenti ottanta anni di Roberto Calasso impongono così una riflessione su una delle più efficaci imprese culturali italiane. È possibile immedesimare Adelphi in Calasso perfettamente: l’impresa e l’uomo coincidono accuratamente, così come lo scrittore e l’editore. Sembra quasi che non esistano conflitti e contraddizioni, ma in realtà questa apparente aderenza nasconde una capacità di superamento continua, di slittamento quasi ossessivo dei limiti dati, senza che questo possa essere misurato nell’ottica di una performance. Si tratta di un percorso più inerente al dominio della fisica e della biologia. Adelphi, a differenza di Einaudi, non è semplicemente un’opera collettiva così come Calasso non è un principe come lo fu Giulio Einaudi con le sue astute e formidabili intuizioni e i suoi imprevedibili vezzi. Adelphi ha la forma di un organismo e come tale Roberto Calasso ne può così rispecchiare pienamente la sostanza senza però limitarla e limitarsi. È un lavoro, anzi, un pulsare quasi magnetico che dal 1962 ha elaborato un’idea di editore capace di attrarre centri tra loro lontani non superando, ma evitando accuratamente, ogni forma di confine e i  suoi relativi limiti. Il centro in Adelphi, concetto ormai ampiamente elaborato anche nel discorso comune, ha valore non rispetto ad un’eventuale periferia, ma in quanto elemento cellulare potenzialmente moltiplicabile.

    Un paradosso facilmente evidente è che come il più classico degli editori, Adelphi è i suoi libri, altro non c’è. Ma al tempo stesso nessuno come Adelphi ha saputo far esplodere i suoi libri, negandone sempre i limiti, partendo da uno degli aspetti ormai mitici della casa editrice milanese: l’assenza di un ufficio grafico. 

    I libri sono pensati più che disegnati. Non è stato necessario allargare i confini della casa editrice ad altre produzioni, è bastato trasformare ogni suo libro in un libro Adelphi ovvero in un elemento cellulare della casa editrice. Lo stesso Calasso non ha scritto mai un libro, ma un’opera contenuta temporaneamente all’interno di alcuni volumi che possono aumentare o anche diminuire a seconda della lettura che gli si vuole imprimere, ma di sicuro sono prodotti culturali Adelphi che di Adelphi hanno il marchio e gli organi interni. 

    Detto così tutto può apparire molto mistico, si sono scritti anche papelli dal gusto complottistico attorno alla casa editrice, così come può essere criticabile la scelta di un gusto tipografico che prevale sulle possibilità grafiche. In generale ogni scelta di Adelphi ha il gusto di una durezza capace anche di superare la sensatezza e non è certo per ottusità che questo avviene, ma per una necessità di identità. L’identità non contempla confini o limiti (quindi ipoteticamente superabili), ma una capacità di interpretazione dello spazio infinita.

    In questo Roberto Calasso non rappresenta il condottiero o la guida, il capo o l’ispiratore, e non è nemmeno l’autore. È una figura che ricorda molto il dottor John H. Watson, un co-protagonista direbbe qualcuno, ma non è esatto. Perché Watson è sì quella che comunemente può essere definita una spalla, ma ha soprattutto un rapporto privilegiato con Arthur Conan Doyle, ovvero l’autore colui che di tutta la storia controlla l’inizio e la fine. Calasso assume così un rapporto diretto con l’identità Adelphi che discende da una relazione con le figure chiave della sua fondazione tra cui Luciano Foà e l’infinito Roberto Bazlen. Calasso fu certamente cofondatore (co-protagonista), ma è anche l’interprete (la voce in campo dell’autore) capace di assumere in sé i contorni dell’identità adelphiana senza però mai appropriarsene ma anzi, gettando le basi per una solida e continua elaborazione di quello che è uno dei marchi editoriali più definiti e forti sul mercato. 

    Spesso per dare forma ad un’idea collettiva non è necessario metterci come si dice in gergo anima e corpo, così come all’opposto non è proprio il caso di darsi una cosiddetta giusta misura che contrasta evidentemente con la passione, la spinta ideale di un’elaborazione culturale. Adelphi dimostra che pensare i libri non basta, prima ancora è necessari vederli e per farlo è fondamentale generare uno spazio libero all’interno di un’impresa culturale e non uno spazio esclusivamente come si pensa spesso ancora oggi agonico, ma di osservazione. Permettere in sostanza alla propria visione di sciogliersi con quella altrui lasciando in seconda battuta i conflitti, le contraddizioni e soprattutto spostando il potere in gioco dalle persone alle edizioni. Dal libro alle idee per poi tornare al libro come ricadute finale e non come prodotto di consumo o feticcio.

    Al tempo stesso non si può negare che nulla come i libri Adelphi vivano anche del feticismo dei suoi acquirenti, ma va anche detto che a differenza di quello che avviene generalmente con quello che viene definito ceto medio riflessivo, i libri feticisticamente acquistati non saranno mai letti. Il che da un lato fa di Adelphi l’editore preferito dagli arredatori, ma dall’altro difficilmente un libro Adelphi è letto da chi di Adelphi apprezza solo i colori cosa che avviene invece molto spesso per altri editori che preferiscono svendere il proprio marchio con contenuti che garantiscano l’accesso ad un mondo che il marchio dice di rappresentare, ma che ormai non rappresenta più. È una scelta che economicamente sicuramente paga di più questi editori, ma tendenzialmente logora il marchio già sul medio periodo. Ad oggi Adelphi ha una capacità di riconoscibilità che attraversa le generazioni e sempre variando tono, col medesimo timbro, non è così probabilmente per nessun altro editore.

    Identità e quindi posizionamento questi i termini, questa l’azione che potremmo così definire. Ma non è così facile perché proprio il movimento che porta alla definizione che è poi la base di qualsiasi impresa culturale, così come inizialmente chiarisce e illumina poi nella pratica annebbia e confonde. Sarebbe in sostanza come definire Roberto Calasso uno dei più rilevanti imprenditori culturali del nostro tempo. Lo è, ma non solo, e questo “non solo” è quasi tutto. Torna allora utile fare un paragone con una delle imprese più lontane che si possano immaginare da Adelphi.

    Quando le cose si attorcigliano nei ragionamenti sul mondo culturale infatti, non è una brutta idea uscire a prendere un po’ d’aria e andare là dove le officine non sono quelle culturali, ma quelle che puzzano d’olio e di motore. Parliamo di Ferrari, si proprio quella delle macchine. Enzo Ferrari era un corridore d’auto, un meccanico, un ingegnere, un giornalista e un cantante lirico potenziale e infine il fondatore della Ferrari arcinota a chiunque. Enzo Ferrari è stato chiamato di volta in volta negli anni: “Il Cavaliere”, “Il Commendatore”, “L’Ingegnere”, “Il Mago”, “Il Patriarca”, “Il Grande Vecchio” e “Il Drake”. Tutti appellativi relativi al suo carattere, alla sua azione, alla sua posizione nel mondo. Lui in verità si è sempre più semplicemente definito un agitatore di idee. Enzo Ferrari faceva macchine per correre (anche quelle per guidare per strada, ma per lui avevano molta meno importanza), macchine che emozionavano e che potevano anche portare alla morte in maniera abbastanza facile, eppure si dava una definizione che assomiglia molto a quella che potremmo dare ad un editore e questo perché gli elementi coinvolti che vanno dall’emozione alla passione, dalla ricerca alla conoscenza, sono i medesimi di chi fa fa un lavoro culturale o più specificatamente editoriale. Quello che allora Adelphi – grazie fortemente a Roberto Calasso – ha saputo e sa fare ancora oggi è proprio non dare un’etichetta a questa preziosa valenza – come invece hanno fatto altri nel suo campo e come ha fatto con una scellerata idea il marketing Ferrari che da anni fa scrivere sulle fiancate delle sue auto da corsa la frase “#essereferrari”. E quando certe cose le si scrivono è perché iniziano a non esistere più.

    E proprio qui si torna all’opera letteraria e saggistica di Calasso, ovvero: scrivere perché le cose esistano. Ed è questa la forza più grande di questo editore: saper creare uno spazio – un’impresa culturale si direbbe – per uno sguardo capace di esistere scrivendo anziché assecondare la moda recente che sembra imporre una scelta tra esistenza e scrittura. 

    A questo punto abbiamo probabilmente poco in mano per definire l’impatto e l’efficacia di un’impresa cultuale come quella di Adelphi, ma abbiamo comunque elementi a sufficienza per festeggiare i prossimi ottanta anni di Roberto Calasso e lo possiamo fare prendendo spunto proprio dal suo ultimo libro, Allucinazioni americane che molto ci aiuta per chiarire il nostro discorso. Avverte Calasso: “… per capire se stesso, l’Occidente ha bisogno anche di categorie nate altrove. Altrimenti, rischia di vedersi più arido e informe di quanto già non sia. Oltre tutto, non è sempre stata una vocazione peculiarmente occidentale quella di viaggiare molto, di cercare altri mondi, di conquistarli ma anche di studiarli? E perché si studia se non per capire qualcosa che poi si può anche usare?” Segue il racconto illuminante di una storia chassidica del Rabbi Eisik, raccontata da Buber. 

    Un’impresa culturale non può esulare da una forma di ricerca continua che si palesa nella capacità di farsi illuminare dallo straniero. Urge dunque per ogni imprenditore o attore culturale in erba, non semplicemente uscire dai propri confini, ma proprio eliderli, cancellarli. Darsi un’identità, detto più praticamente, pescando nello spazio infinito dell’ignoto anziché limitare l’azione ad alcuni parametri che hanno l’effetto solo di ridurre l’efficacia e di impoverire il valore. La conseguenza non sarebbe infatti lo spreco di energie e la perdita di concentrazione (anche se questi rappresentano certamente un rischio altissimo e anche probabile in alcuni passaggi), ma la possibilità di dare forma vibrante alla passione che muove l’azione culturale. 

    Non ci si deve dunque né arrendere ad un efficientismo che è poi solo di facciata, né all’idea che in ogni caso qualcuno alla fine pagherà i nostri debiti. Bisogna essere invece consci (e anche felici) che solo affrontando il rischio di un margine tanto esile quanto ingannevole quale è l’avvicinamento a ciò che ci è sconosciuto, è possibile produrre un posizionamento e un’identità efficace e durevole. 

    Come già detto, Roberto Calasso e il suo lavoro in Adelphi non sono riducibili a queste poche righe, ma – ed è forse l’elemento più vivido della sua esperienza – anche un aspetto limitato e ridotto della sua azione assume la forma perfetta di un discorso che molto racconta di un’idea culturale che se risponde a parametri modelizzabili lo fa solo in virtù della propria originalità e anche per la sua insita irrazionalità. Lo stile come la curiosità del resto determinano sempre la sostanza di qualunque impresa culturale quanto esistenziale. 

    Note