La ricerca Giovanidentro condotta da Riabitare l’Italia (2021) smentisce l’idea che per i giovani le aree interne siano luoghi da cui scappare: il 67% degli intervistati dice di volerci rimanere o tornare. Andrea Mambretti, coordinatore della ricerca, sottolinea un dato significativo: la maggioranza degli intervistati ha espresso il desiderio “a rimanere nel proprio territorio e a sviluppare qualche tipo di progettualità”. Sono soprattutto giovani con un alto titolo di studio. Sembra il profilo di Vida Rucli, che per il settimo appuntamento di Comunità Contemporanee propone una riflessione su cosa vuole dire per lei abitare un luogo a “margine”, un paese di soli ventidue abitanti, Topolò/Topolove, sulle montagne al confine tra Italia e Slovenia, dove è nata e ritornata.
Assieme a Maria Moschioni, Dora Ciccone, Elena Rucli, Laura Savina, Aljaž Škrlep e Janja Šušnjar, Vida Rucli è parte del collettivo Robida (un gruppo di giovani neanche trentenni), nato nel 2014-2015 con la pubblicazione del primo numero della rivista Robida e diventato nel 2017 associazione, che prende il nome da una pianta spinosa che cresce nei luoghi in abbandono, per “porre attenzione sulla pratica dell’abitare un paese spopolato”.
Alessandra Pioselli: situato in un territorio dove la storia ha pesato, sulla linea di una frontiera storicamente strategica – con l’Impero Austro-Ungarico prima e la Jugoslavia poi – Topolò e la sua valle presentano alcune marginalità di tipo topografico, socioeconomico, linguistico. Quali elementi vi riscontri?
Vida Rucli: Il margine per noi associazione Robida è sempre stato al centro delle nostre riflessioni. Topolò è situato su un margine geografico, in fondo a una strada che finisce in paese, vicinissimo al confine, collegato alla Slovenia da un sentiero nel bosco. Il più vicino paese raggiungibile a piedi è in Slovenia, non in Italia. Questa relazione con l’altra parte del confine è sempre stata importante per il paese.
Topolò è margine topografico, si trova infatti in un luogo scomodo, di montagne non alte ma difficili per l’agricoltura, e su un margine culturale e identitario. Come ogni luogo di confine questo è margine di entrambi gli stati tra cui si trova, nel nostro caso Slovenia e Italia. In quest’area infatti vive la minoranza slovena: siamo quindi linea di margine, ad Ovest, di tutta la cultura slava. All’interno della minoranza slovena che caratterizza tutta l’area del Friuli al confine, la nostra specifica minoranza della provincia di Udine vive quasi interamente in paesi molto piccoli, si trova quindi in una posizione marginale anche rispetto a quella più grande comunità di minoranza che sta a Trieste e Gorizia, che ha una rappresentanza politica, istituzioni culturali importanti e scuole. Abbiamo definito Topolò il margine del margine.
Topolò è però per certi versi sempre stato anche il centro del mondo, da quando, nel 1994, ha iniziato a nascere il progetto di Stazione di Topolò.
Alessandra Pioselli: cosa rappresenta per te il margine? Cosa significa per te abitare questo luogo?
Vida Rucli: Tempo fa ho incontrato il bellissimo testo di bell hooks, Elogio del margine, che tratta del margine come una condizione che deve sempre mantenere un contatto con il “fuori”. In questa condizione ci siamo ritrovati noi come seconda generazione che è cresciuta con l’esperienza della Stazione di Topolò. Come bambina sono cresciuta in questo contesto e ho visto la possibilità di fare qualcosa in luoghi così fuori dalle cartine geografiche. Topolò nel dopoguerra non era nemmeno indicato sulle mappe: non si potevano fare disegni o fotografie di questo luogo che era tenuto sotto il controllo militare. Stazione di Topolò ci ha permesso di immaginare un’idea di presente e futuro qui.
bell hooks definisce il margine come spazio di “radicale apertura” e “radicale possibilità”. Ci piace pensarlo così, in questo essere paese praticamente disabitato. Stiamo cercando di abitarlo, non con una particolare progettualità ma con voglia, con intensità, con una radicale affezione al luogo. Ci sembra che in questo luogo vuoto di abitanti, ma con una storia e una identità che conteniamo nel corpo, possiamo sentire una certa libertà, le possibilità che il luogo ci restituisce. Proprio perché spopolato, qui ogni gesto di cura, o meglio ogni gesto in generale è un gesto di cura verso il paese.
Donna Haraway, con l’elaborazione del concetto dei saperi situati sottolinea che l’unico modo per arrivare a una visione più ampia sia essere in un punto particolare. Il contesto è molto diverso, ma sembra riprendere bell hooks e dirci ancora una volta quanto sia importante il nostro abitare il margine.
Alessandra Pioselli: sottolinei un aspetto importante a proposito del fatto che ogni gesto è un gesto di cura, a volere marcare il valore di un’attenzione che si esercita, innanzitutto, nel quotidiano e anche nell’assumersi la responsabilità di piccole azioni, non per forza eclatanti ma che costituiscono la tessitura del senso dell’abitare il luogo.
Vida Rucli: Le nostre azioni prevedono una cura anche pratica, il nostro agire concreto ha fatto sì che nel tempo la comunità ci volesse bene. Oltre ad agire sul piano culturale con la rivista, le residenze, i workshop, c’è un costante legame con il luogo fisico. Per esempio, nella pulizia dei campi terrazzati anche se questo “viola” alcune leggi sacre dei luoghi rurali, per esempio quelle della proprietà privata. In questo modo abbiamo costruito un legame profondo con le persone e con il paese proprio per il fatto di abitare e dedicarci a questo luogo con costanza, non con temporalità periodiche. Nella considerazione dei luoghi rurali, c’è anche questo aspetto.
Alessandra Pioselli: i fondatori di Stazione di Topolò, Moreno Miorelli e Donatella Ruttar, lo definiscono un non-festival, transculturale e transfrontaliero, che dal 1994 ogni estate fa nascere in paese performance, concerti, proiezioni, azioni, letture. Come avete raccolto questa eredità? Prima hai evidenziato la questione di una differente temporalità.
Vida Rucli: In un paese che temeva l’estraneo come portatore di tensioni, Stazione di Topolò era nata con il desiderio di portare artisti di tutto il mondo a confrontarsi con il luogo e con la sua storia, e con ciò che esso non racconta, con i suoi silenzi. Conoscendo un passato drammatico, portando nel corpo questa identità, noi che abbiamo fondato Robida – alcuni di noi appartenenti alla minoranza slovena – continuiamo a portare il mondo a Topolò e con profondo rispetto per la sua storia.
Robida ha iniziato con una rivista che voleva prendere in mano alcuni temi legati al luogo, buttandoli nel mondo con un’idea di radicale apertura, vedendo cosa il mondo rispondeva, per riportare le riflessioni sul posto. Dopo trent’anni di Stazione di Topolò, il paese ha raccolto i suoi frutti – numerose case private e spazi pubblici sono state ristrutturati e ora sempre più persone sono interessate a scegliere Topolò come luogo per vivere -, quello che è mancato forse è la cura semplice e concreta del paesaggio. Tutta la comunità sta lavorando molto su questo, assieme!
Alessandra Pioselli: quale è la comunità di Topolò?
Vida Rucli: Vorrei eliminare la retorica del binarismo tra chi viene da fuori e la comunità locale. Il nostro pensiero e la nostra pratica sta nell’abitare il luogo. Di cosa ha bisogno il luogo? Di cosa abbiamo bisogno noi? È una costante riflessione sulla pratica del dwelling – come modo di abitare, impegnarsi e prendersi cura del luogo. Nel caso di Topolò, la comunità locale è piccolissima, fatta di persone che spesso nemmeno escono di casa. Per noi invece la comunità è fatta da quelle persone che continuano a tornare e che si pongono in un rapporto di cura con il luogo.
Ci siamo chiesti se il nostro abitare qua possa considerarsi come una forma di attivismo. Questo prendersi cura cosa è? La filosofa Maria Puig de la Bellcasa dice che la cura è un impegnarsi politico.
Alessandra Pioselli: prima parlavi dell’impegno verso la lingua, verso i toponimi sloveni. Lo sloveno è anche la tua lingua madre.
Vida Rucli: C’è una cultura immateriale, meno visibile, che ha bisogno di essere presa in cura. Una volta riflettevamo sul fatto che gli amici dello Studio Wild (ndr: gli architetti olandesi che hanno iniziato a lavorare e a sviluppare progetti a Topolò nel 2015) tentano di imparare l’italiano senza però capire che non è quella la lingua di Topolò, ma lo sloveno e uno specifico dialetto. La cura di questi aspetti abbandonati, che non si fanno sentire se non li sottolinei, è ancora più difficile. Si potrebbero usare toponimi in sloveno quando si parla. Il luogo è fatto di cose immateriali. Con l’azione Sentieri persi perse parole abbiamo ritracciato e ricamminato i sentieri abbandonati, per riprendere le parole e i toponimi perduti, legati all’agricoltura e ai luoghi. È un impegno politico anche tornare a rendere alcuni luoghi nuovamente parte della quotidianità.
Alessandra Pioselli: a proposito di parole, Robida significa rovi in dialetto. È il nome che avete dato all’associazione e alla rivista, che si presenta “selvaggia e discreta”. Perché Robida?
Vida Rucli: la rivista è nata nel 2014-15, l’associazione nel 2017 ed è stato il punto di partenza per iniziare a pensare di più a progetti e all’abitare Topolò. Ha coinciso con il momento in cui siamo venute a viverci. Il nome ha una storia semplice. I rovi sono le prime piante che nascono su un terreno non curato, occupandolo. E noi iniziavamo questo nuovo progetto, Robida, con un altro progetto precedente, abbandonato alle nostre spalle. I rovi sono anche portatori della storia di questo paesaggio: è la pianta che parla dell’abbandono. È la pianta con cui ti devi confrontare quando vieni a vivere qui. Ci sembrava che dare il nome di una pianta problematica voleva dire insegnarci a guardarla, e a guardare il luogo, in maniera diversa. Per via dei rovi, tanti muretti a secco si sono mantenuti. Se ci fossero cresciuti gli alberi, questi li avrebbero divelti.
Alessandra Pioselli: cosa vi ha portato a pubblicare la rivista solo in formato cartaceo?
Vida Rucli: la prima romantica risposta che davo riguardava la bellezza della carta, ma ora mi rendo conto che la rivista è sempre stata per noi uno strumento relazionale. Ci fa incontrare l’altro, portandola a mano, prestandola. Abitando in un posto in cui non ci sono così tante relazioni, avere un oggetto che le stimola è ancora più importante.
Alessandra Pioselli: l’ultimo numero di Robida (2021) è dedicato alla foresta. È concepito come una selva dentro la quale il lettore si addentra fino agli strati più profondi e umbratili. Quale è la tua foresta? Cosa rappresenta per te?
Vida Rucli: la mia foresta è la più umile che ci sia, quasi un’anti-foresta. Se la foresta è immagine di alberi enormi e mitici, il mio bosco è umilissimo, di alberi piccoli e di sottobosco disordinato. È una relazione con qualcosa di molto povero. Camminando, mi stupisco di cose semplici, piccole, perché questo bosco non ha molti momenti sublimi. Un altro aspetto su cui riflettevo è che tendevo a ricercare nel bosco quegli elementi antropici di definizione dello spazio, poiché il bosco qui è cresciuto su campi terrazzati, segnati dall’essere umano. Leggendo varie autrici, tra cui Donna Haraway, mi rendo conto di questo sguardo che ricerca sempre ciò che ci è conosciuto e in effetti, il nostro paesaggio non ha quasi niente di totalmente selvatico, è più vicino forse a un luogo domestico, un po’ lasciato a se stesso. Ma c’è la possibilità di praticare un altro punto di vista. Il selvatico lo vedi ad esempio nel rovo.
Alessandra Pioselli: lo Studio Wild, che prima hai citato, sta lavorando al recupero di una casa che diventerà residenza per artisti. Quale è il vostro approccio e concetto di residenza?
Vida Rucli: il simposio realizzato a settembre 2021 dal titolo Care of Margins (Cura dei Margini) ha portato a riflessioni profonde su cosa è residenza, su cosa vogliamo che sia. Come dicevo prima, la residenza dovrebbe superare il binarismo tra ospitato e ospitante. Derrida ci legge un rapporto di potere, riguarda anche la relazione che c’è tra le due parole “generosità” e “convivialità”. La parola generosità sottolinea il fatto che tu stai dando e l’altro ricevendo, mentre convivialità significa semplicemente vivere assieme. Nel caso della residenza, significa condividere una responsabilità legata alla cura nei confronti di un paesaggio, di un luogo, di una comunità. Questa responsabilità è centrale nel definire il ruolo degli abitanti temporanei o coabitanti. L’artista può essere meramente un testimone che osserva (witness), oppure è colui che viene per stare con (with-ness) e condivide la responsabilità anche delle piccole azioni, come pulire i terrazzamenti o curare l’orto. Non è necessario che gli artisti in residenza si occupino di temi legati all’agricoltura, al paesaggio o alla comunità, ma ci sembra invece interessante sottolineare la convivialità, il mettere in comune il quotidiano. Gli artisti li ospitiamo a casa, entrano nei nostri ritmi, è un aspetto chiave e queste cose nascono naturalmente. Ci interessa una riflessione sull’abitare, la prospettiva di definire assieme agli artisti le necessità, cosa è una residenza.
Immagine di copertina: Robida_magazine 7 dedicato alla foresta, 2021: Photo by Tanja Marmai