Prima di Parasite: l’inarrestabile ascesa del cinema coreano nel mondo

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    Ormai è quasi un luogo comune, da tanto se ne è parlato, ma meglio ribadire: nella notte del 9 febbraio 2020, Parasite di Bong Joon-ho è entrato nella storia come primo film non anglofono a vincere il premio Oscar per il miglior film – oltre ad aggiudicarsi altre tre statuette per miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior film internazionale.

    È un evento significativo non solo per Bong Joon-ho e la potente casa di distribuzione CJ Entertainment, ma per tutto il cinema coreano. Lo ha dimostrato, sempre la notte degli Oscar, l’intervento di Miky Lee (alias Lee Mi-kyung), produttrice esecutiva del film, che ha preso la parola dopo la produttrice Kwak Sin-ae (sorella del regista Kwak Kyung-taek).

    Miky Lee, nipote del fondatore di Samsung Lee Byung-chul, non è solo una delle donne più potenti del cinema coreano, ma è anche una delle sue più fiere ambasciatrici, che da anni si spende per far accettare al consesso internazionale i film e la cultura coreani.

    Tecnicamente l’Oscar per il miglior film era assegnato a Bong e Kwak, tanto che l’intervento di Miky Lee ha rischiato di non avvenire: con microfoni e luci già spente, però, una rivolta delle prime file del teatro (tra cui Tom Hanks) ha fatto riaccendere i riflettori e Lee ha potuto fare il suo breve intervento, in cui ha in sostanza attribuito la lunga marcia vittoriosa di Parasite e del cinema coreano al pubblico coreano, che non esita a far capire quello che vuole agli studio.

    Basta avere un pubblico attento e competente perché un paese relativamente defilato sullo scacchiere dell’intrattenimento globale arrivi ad accaparrarsi il premio cinematografico più chiacchierato?

    Basta avere un pubblico attento e competente – cosa peraltro tutta da dimostrare – perché un paese relativamente defilato sullo scacchiere dell’intrattenimento globale arrivi ad accaparrarsi il premio cinematografico più chiacchierato? Sarebbe sicuramente una bella notizia, ma l’ascesa dell’agguerrita industria cinematografica coreana in patria e nel resto del mondo ha una storia più articolata e complessa, in cui entrano in gioco molteplici fattori.

    Facciamo un passo indietro: nel febbraio del 1999 nei cinema coreani esce Shiri, diretto da Kang Je-gyu. È un thriller d’azione di ambientazione contemporanea che gioca sulle paure di infiltrazioni spionistiche dalla Corea del Nord. Il cast è costellato di star – ci sono tutti gli attori più conosciuti, da Song Kang-ho (protagonista anche di Parasite) e Han Suk-kyu fino a Choi Min-sik – e l’azione è tesa e spettacolare. Il film scala le classifiche e batte ogni concorrenza, arrivando a incassare più di Titanic. È il segnale definitivo della riscossa dell’industria cinematografica coreana: si possono produrre blockbuster dal budget elevato con l’obiettivo di larghi incassi e la prospettiva di esportare i film all’estero.

    In realtà era già qualche anno che nel cinema si muoveva qualcosa. Dai fermenti per la democrazia degli anni Ottanta escono una serie di autori che iniziano a rinnovare le pratiche cinematografiche. Registi come Bae Chang-ho (il seminale People of the Slum, 1982), Jang Sun-woo (il provocatorio The Age of Success, 1988) e Park Kwang-su (il toccante Chilsu and Mansu, 1988), nutritisi di cine-club e film d’autore, si impegnano a svecchiare le storie e la messa in scena, descrivendo la società coreana con acume, talvolta inimicandosi il regime.

    Ma è dalla metà degli anni Novanta, quando fanno il loro esordio alcuni registi pronti a confrontarsi nell’arena dei festival internazionali, che il cinema coreano trova la spinta per farsi davvero conoscere all’estero: Hong Sang-soo (The Day a Pig Fell Into the Well, 1996), Kim Ki-duk (Crocodile, 1996), Lee Chan-dong (Green Fish, 1997), Park Chan-wook (The Moon Is the Sun’s Dream, 1992), Im Sang-soo (Girls’ Night Out, 1998) sono nomi noti ancora oggi, anche se Kim Ki-duk, dopo l’apice e la crisi esistenziale, è ormai ostracizzato per il #metoo coreano.

    I film di questi e altri registi si spartiscono la partecipazione a festival sempre più importanti. Al contempo, il cinema commerciale diventa sempre più spavaldo, con attenzione particolare ai generi thriller e noir, commedie, action e film di guerra. Questo boom è coadiuvato da un sistema produttivo che vede l’ingresso tra i finanziatori dei chaebol, i grandi conglomerati industriali coreani (da Samsung e LG in giù), che con i loro fondi aumentano la portata produttiva dell’intero comparto.

    Il nuovo cinema coreano ha attorno un sistema collaudato che lo amplifica e lo supporta.

    Perché il nuovo cinema coreano possa attecchire non basta però la forza dei soli film: serve anche un sistema collaudato che lo amplifichi e lo supporti. Ed è in questo senso che l’industria cinematografica coreana dimostra di avere una marcia in più, sia rispetto ad altri paesi asiatici, sia nel contesto globale.

    Intanto c’è un’attenzione speciale per il cinema nazionale. In Corea del Sud, infatti, fin dagli anni Sessanta, era in vigore un sistema di screen quota, che garantiva una percentuale fissa della programmazione nelle sale ai titoli locali. È uno dei fattori che ha facilitato la ripresa del cinema dal nadir degli anni Settanta, con il crollo del numero di film prodotti e la disaffezione del pubblico, fino alla rinascita degli anni Novanta: con un’industria ancora debole e non coordinata, senza screen quota sarebbe stato più difficile proteggere il proprio cinema dalle pressioni esterne. Il sistema protezionistico era naturalmente avversato dalle altre industrie, in particolare Hollywood.

    In seguito a pressioni e insistenza degli Stati Uniti, questo sistema è stato infine rivisto nel 2006, in conseguenza del Free Trade Agreement tra i due paesi: i giorni riservati a film coreani sono scesi da 146 a 73 all’anno, di fatto annullandone gli effetti di traino. Il cinema coreano, dopo alcuni anni di assestamento, pare essere riuscito a superare lo scoglio e oggi, con un’industria più forte e stabilizzata, il rapporto degli incassi tra film locali e stranieri dà ragione alle produzioni locali anche senza bisogno di protezioni.

    C’è poi soprattutto un grande sostegno da parte del governo, che nel corso degli anni, da fine anni Novanta in poi, ha moltiplicato gli sforzi per creare un sistema coeso, in cui gli interessi dei singoli studio vengano supportati da una prospettiva di promozione unitaria. L’agguerritissimo Korean Film Council e la sua emanazione Korean Film Biz accompagnano il cinema coreano nel mondo e svolgono una funzione fondamentale nella sua promozione, sia in patria che soprattutto all’estero.

    Un elemento fondamentale è ad esempio il fondo per garantire che tutti i film coreani che escono in home video abbiano i sottotitoli anche in inglese, uno strumento apparentemente secondario, ma che soprattutto all’inizio ha contribuito alla circolazione dei film coreani (se si pensa alla infinitesima percentuale di film italiani sottotitolati in inglese rispetto al totale…).

    Un elemento fondamentale è il fondo per garantire che tutti i film coreani che escono in home video abbiano i sottotitoli anche in inglese

    L’azione promozionale è legata anche al passato: il Korean Film Archive ha finanziato studi, pubblicazioni, retrospettive e dibattiti sul cinema coreano del passato in tutto il mondo, oltre a perseguire attivamente il recupero e la digitalizzazione di pellicole un tempo introvabili e invisibili. L’archivio ha una meravigliosa collana di edizioni speciali di film rimasterizzati in dvd, accompagnati da libretti bilingue coreano-inglese, ma soprattutto – caso sostanzialmente unico al mondo – ha realizzato una pagina di Youtube, Korean Classic Film, attraverso cui è possibile fruire legalmente e gratuitamente di decine di film coreani, in lingua originale con sottotitoli anche in inglese.

    A questi strumenti di diffusione si è aggiunto più di recente anche un portale come Viki, non governativo, questa volta, ma appartenente al settore privato, controllato da Rakuten, più incentrato sulle serie tv, ma con anche un’apertura al cinema, che permette di fruire online gratuitamente di un ventaglio anche recente di prodotti culturali. È organizzato in una community globale che collabora alla creazione e implementazione di sottotitoli nelle lingue più diverse, moltiplicando la penetrazione in ogni paese.

    Il supporto al cinema è integrato da un complesso sistema di festival, tra i più capillari dell’Asia, che va dal Busan International Film Festival, ormai egemone nella regione per quanto riguarda le anteprime mondiali di film asiatici, al Jeonju International Film Festival, specializzato in film indipendenti e cinema digitale, fino al Bucheon International Fantastic Film Festival, orientato verso il cinema di genere.

    Il supporto al cinema è integrato da un complesso sistema di festival, tra i più capillari dell’Asia

    Questi sforzi, concentrati a partire dal nuovo millennio, hanno consentito al cinema coreano di passare da una situazione di marginalità in Asia e di sostanziale invisibilità nel mondo a un ruolo di primo piano su scala globale. In concomitanza con l’ascesa del cinema, si assiste anche allo scoppio della mania per i prodotti pop di provenienza coreana – dal k-pop ai k-drama televisivi.

    È la cosiddetta hallyu, la korean wave, dispiegamento di soft power che porta a un’esplosione di interesse verso la Corea del Sud (in modo molto simile al Japan Cool giapponese, ma ancora più incredibile, perché centrifugato in un minore arco temporale). Il morbo si diffonde prima in Cina, dove le ingenue serie mélo coreane fanno furore, Hong Kong, Taiwan, Singapore, Vietnam.

    Poi arriva in Thailandia, Malesia, Indonesia e persino Giappone, dove alcuni attori delle serie televisive più seguite diventano veri e propri idoli. Infine si sedimenta a macchia d’olio nel resto del mondo, dai paesi arabi e dell’America Latina fino agli Stati Uniti e l’Europa. Hallyu non significa solo attenzioni per i prodotti dell’industria culturale: in tutto il mondo aumentano i corsi di lingua coreana, le palestre inseriscono corsi di taekwondo, si diffondono ristoranti di cucina coreana, con il loro connesso di kimchi e soju.

    E anche il turismo verso la penisola ha un incremento significativo. Di questa attenzione collettiva si giova anche il cinema, naturalmente. L’hallyu non è un fenomeno casuale, ma fortemente perseguito dall’industria culturale coreana, che ha pianificato con attenzione una strategia collettiva che – come dimostra Parasite – è assolutamente vincente.

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