Inizio con il diario minimo, un resumé abbreviato e risolutamente personale. Passo poi a argomentazioni più estese. Dunque: via al tabellino.
Il Padiglione Miglior Architettura Techno-Pop: Corea del Sud. Un edificio gibboso come il dorso di un dromedario, eucariota come una cellula, infine candido come un’astronave atterra nella pianura rovente di Expo 2015. L’astronave-cellula, bulbacea e globulare, annuncia un mondo di giocattoli per adulti, di innovazioni azzeccate e calzanti.
All’interno attendono hostess gentilissime e steward impeccabili, tutti molto giovani, gentili e preparati. Avranno studiato ospitalità alla scuola di astrogeishe di Mariko Mori? Possibile. Il video di presentazione è il migliore di Expo sotto il profilo della comunicazione: per niente pedante o didascalico, è un video artistico sul tema “cibo” proiettato su megaschermi ruotanti in continuo movimento, trascinati da carrelli che avanzano (o retrocedono) su rotaia.
La migliore animazione è del Giappone, come pure la prova più brillante del felice connubio tra Tradizione e Industrie Creative. Se, dopo ore di attesa nell’aria infuocata di Cardo e Decumano, arriverete indenni al momento apicale, scortati da inflessibili hostess in cappellino di paglia e mise salmone (ghosh!), quando le porte si chiudono dietro di voi nell’agognata oscurità delle sale interne ammirerete un’installazione che popola la mente di fiori di loto, risaie, antenati benevoli e distensive cicogne.
Dedicato con folle impudenza all’”armoniosa diversità” e alla partnership evolutiva tra uomo e Natura, il Padiglione giapponese sembra proporsi di far dimenticare Fukushima e le stragi di balene di una nazione ecocida – circostanze che faremmo meglio a non ignorare. Ammetto tuttavia che quattro sale sono da Biennale veneziana o da Documenta di Kassel. La sala dell’installazione video appunto, la sala dell’erbario, la sala della mensa “anamorfica” e l’altra dei minutissimi modellini in carta di manicaretti e mercati rionali esposti in cassetti estraibili e restituiti con la capricciosa devozione del monaco zen. Pessimo invece il Ristorante Futuro: mancava solo Moira Orfei. Tuttavia.
La Germania presenta un padiglione con Ph.D. Accasciati per il caldo e le spietate ore di deambulazione tra macadam e pietraia (i cantieri non sono per niente terminati. L’ombra scarseggia. Diffidate delle ore centrali, della pausa birra-e-hotwurst e delle limpide giornate estive: il sole all’Expo 2015 è un killer), all’ingresso si soffre un po’ per le laboriose spiegazioni inflitte dalle hostess.
Padiglione USA: non ho potuto capire se questa loro inesplicabile deriva balinese fosse o meno prevista dal planning istituzionale.
Gettata nel cestino la complicatissima seedboard (simula un touchscreen portatile) e saliti al primo piano non si può però fare a meno di apprezzare l’accuratezza del progetto (o forse dovremmo dire seminario universitario? Molto bene comunque), dedicato alla riduzione degli sprechi alimentari, al reimpiego delle biomasse domestiche e alla tutela della biodiversità urbana, flora e microfauna.
Il concertino del duo Bee J che vi attende al termine della visita del padiglione vi strapperà infine un compassionevole sorriso per l’industre fragilità delle api; e vi farà senz’altro migliori e più combattivi abitanti del pianeta Gea.
Padiglione Migliore terrazza: USA. Per tutto il tempo che sono stato lì, tra le una e le due del pomeriggio, uno steward e una hostess non hanno smesso di ballare felpati come per effetto di un’incoraggiante assunzione di psichedelia. Non ho potuto capire se questa loro inesplicabile deriva balinese fosse o meno prevista dal planning istituzionale.
Padiglione Simpatia: Ecuador.
Padiglione Insostenibilità: Qatar (ma con lo spazio bimbi più accogliente, per di più all’ombra. Effetto Mayassa?). Non ricordo quanti video all’interno mostrino l’ex-emiro Hamad bib Khalifa al-Thani impegnato a protestare contro la povertà.
Nelle cellette che circondano il Padiglione dozzine di comparse in costume (giunte per l’occasione dal Qatar) interpretano “tipi” e “mestieri” di un Qatar perenne (a mo’ di Expo universale del 1889, a Parigi). Pescatori, falegnami, commensali, tatuaggiatrici. C’è anche una band neo-tradizionale che di tanto in tanto sferza il torrido meriggio con i ritmi intransigenti di antiche musiche qatarine.
Padiglione Miglior Orto: Francia. Carciofi, uva, porri, lattughe, finocchio, erbe aromatiche, fagiolini, pomodori e zucchine.
Padiglione Miglior Frescura, Giardino e Epicedio dell’Ape: Gran Bretagna.
Padiglione Miglior Zuppa di Funghetti alla crema: ancora Corea del Sud (suggerisco, come dessert, il croccante in forma di pescetto dechirichiano ripieno di marmellata di mirtilli. Con pallina gelata di vaniglia e frutti di bosco).
Il Padiglione Italia, spiace dirlo, è per lo più orribile, nel triplice senso che è spaccone, genuflesso e OT. L’edificio è un asintotico morphing dello Stadio olimpico di Pechino disegnato da Herzog & De Meuron (con Ai Weiwei) nel 2008 e della Città che sale di Boccioni, una furbata da fine corso con pretenziosità da magione normanna dissimulata da inestricabile rovo (questo in risposta alle due trivialitá in chiave eroico-Pop (sic) rivendicate dallo Studio Nemesi, nomen omen, qui).
Per trovare una vigna occorre migrare verso il Padiglione francese
I contenuti sono verosimilmente peggiori dell’edificio. La dida che rimane più a lungo nella mente, certo non un endecasillabo, è: “facciamolo come le piante”. Questo per quanto concerne la teca delle lenticchie, in sottile oscillazione retorica tra le pubblicità del Saratoga e Striscia la notizia. Ma è del tutto incredibile che l’intero progetto espositivo ruoti attorno all’autolesionismo e all’autocommiserazione. Le due sale dedicate all’esplorazione del tema Un mondo senza l’Italia? – con tanto di plastico monumentale dell’Europa con penisola mozzata – dovevano forse sembrare simpaticamente esorcistiche. Sono solo iettatorie. Sapremo mai chi è l’idiota?
Invece per trovare una vigna occorre migrare verso il Padiglione francese, per trovare un’Ultima cena verso il Padiglione della Santa Sede (Tintoretto), per trovare una Primavera, un giardino formale o una piazza rinascimentale verso il Padiglione inglese (non farò qui menzione della brutale citazione michelangiolesca intentata dall’Albero della vita, prosaica apoteosi dell’artigianato del legno e dell’acciaio eretta al centro della Lake Arena (sic) a dispetto di tutte le più ragionevoli tradizioni monumentali dell’arte e dell’architettura contemporanea). Infine. Non parliamo di industrie creative. Il nostro modello di immagine in movimento e installazione video sembra essere ancora la discoteca primi Ottanta, magari tra Ibiza e Formentera, con De Michelis e Martelli danzanti.
Perché tante dimenticanze, e tanto vistose? Perché una simile disconnessione dalle risorse più potenti della nostra immaginazione, se ci proponiamo di far rinascere la potenza della bellezza? Un solo disegno leonardesco di panneggio o di figura, lo stesso magari che possiamo vedere nell’attuale mostra milanese di Palazzo Reale, sarebbe sufficiente a spazzare via le stucchevoli retoriche del patrimonio e a riempire di autentica emozione un qualsiasi Padiglione italiano, mostrando quel limite ultimo di perfezione, delicatezza, magia, dignità e tenacia di cui siamo stati capaci.
Avremmo scelto Vanessa Beecroft come artista italiana contemporanea se non per la sua notorietà americana?
Se siamo in cerca di “eventi” perché poi non resuscitare le giostre mitologiche, i fuochi d’artificio, le fontane che gettano vino e i capricciosi allestimenti di tanto teatro secentesco, gli apparati di scena e di festa popolare, le apparecchiature d’occasione al cui perfezionamento si dedicano senza sosta i migliori ingegni, dal Buontalenti al Tacca a Firenze, Bernini a Roma, Torelli e Baccio del Bianco a Madrid?
È evidente a chiunque visiti il Padiglione Italia che non sappiamo di che parliamo quando sproloquiamo di bellezza: ne conosciamo solo il petulante fantasma scolastico, ne ignoriamo l’origine, ne rifiutiamo le responsabilità. Le designazioni – pressoché tutte le designazioni del Padiglione Italia – non hanno seguito riconoscibili criteri di metodo e hanno portato a conferimenti di incarico imbarazzanti se non inattendibili. Avremmo scelto Vanessa Beecroft come artista italiana contemporanea se non per la sua notorietà americana? L’accozzaglia marmorea di Beecroft usurpa il titolo di scultura e accoglie il visitatore ricordandogli quanto futili e subalterne siano state le nostre scelte.
Ebbene sì. Per superficialitá e sfrontatezza il Padiglione Italia compete con Farinetti. All’ingresso del padiglione di Eataly, appena sotto l’insegna che annuncia i “venti ristoranti regionali”, spicca la citazione di una canzone tra le più celebri di Bob Dylan, The Answer Is Blowing in The Wind, riportata a caratteri cubitali.
Che c’entra Dylan con le cucine locali, l’enogastronomia o la salamella, potrebbe chiedersi un qualsiasi angloamericano appena scolarizzato? Un omaggio al paese per la cui liberazione ha combattuto il padre partigiano, suppongo. Fierezza patriottica contro accattonaggio.