Lo scrittore demiurgo ovvero come ho imparato ad amare il caos del mondo

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    Le genesi sono sempre fulminee. Ero a Madrid, al Prado, poco prima dell’orario di chiusura. Il Giardino delle Delizie di Bosch sprigionava di fronte a me tutta la sua bellezza. Avevo la possibilità di essere quasi da solo in contemplazione, e la magniloquenza della rappresentazione esercitava potenza ipnotica, al punto da ispirarmi un sentimento di invidia ammirata per i grandi pittori, i quali con la sola forza dell’immagine possono già generare l’estasi, in un unico allorché interminabile istante. Tutta l’energia irriducibile della loro opera può disperdersi e sospendere il tempo ogni volta che è vista da qualcuno, dunque in sincronia con l’azione della fruizione, che almeno a primo impatto è unitaria, concentrata e assoluta, e può eruttare e investire come un repentino raggio di luce che incenerisce. Ed ecco, in chi osserva, la spinta emulativa, la vitalità nuova, l’estasi generativa.

    Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220×389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.

    Tuttavia, più nel profondo, cosa m’inceneriva e rigenerava? La fattura del disegno? Sicuramente eccelsa. L’ideazione fantascientifica delle forme? Incantevole. Il lussureggiare delle trasmutazioni cromatiche? Sublime. L’origine della vampata fu però più profonda, e trovava il suo combustibile in una smania rappresentativa del mondo reale che in Bosch trovava celebrazione con la potenza smisurata dell’allegoria, architettonicamente smisurata, concepita come una rivelazione.

    Tutta l’umanità si trovava e si trova lì, nello spazio del quadro, rappresentata attraverso la chiave della vanità e del desiderio, allora i più grandi avversari morali della cristianità. Dalla creazione del mondo, fissata su pannelli richiudibili e contenitivi simili alla copertina di un libro, all’esplosione di luce nel capolavoro dischiuso, il giardino in mezzo e il paradiso e l’inferno ai lati, con l’affastellarsi di stimoli, rappresentazioni e simboli in un’allegoria dell’umanità perfettamente compiuta.

    Vedevo, in una dimensione così ridotta – il quadro non è immenso, ad esempio, come il Guernica di Picasso – una quantità infinita di dettagli, che per la forza dell’accumulazione mi consentivano di stare al tempo stesso fuori dal quadro, come osservatore esterno, e dentro al quadro, al cospetto delle escrescenze vegetali, dinanzi alla furia delle forme a carattere diabolico, ai deretani nudi, ai frutti che deliziano gli amanti, agli stupri animaleschi e demoniaci, alle malformazioni, alle infinite varietà del bestiario, all’accumularsi di oggetti simbolici che alludono all’intera gamma di sentimenti umani visti come mere sensazioni di chi ignora l’altro come senziente e lo accoglie solo come sentito. Uno tra tutti insomma, solo e disperso nell’universo, come nella condizione umana. In altre parole, vivevo il sogno realizzato della rappresentazione compiuta dell’umanità, quella definitiva. Una fortuna di pochissimi. Di certo inarrivabile nel mondo troppo immenso e terribile che è concepibile nel contemporaneo ma plausibile come obiettivo artistico astratto. La supernova a cui tendere.

    Ricordo ancora una considerazione occasionale di quegli attimi in contemplazione, poi sedimentata: per chi prova a esprimersi attraverso le parole, un sistema significante che acquista senso man mano che i fonemi vengono messi in fila per generare un lungo discorso in progressione, non è raggiungibile in concreto il risultato dell’immediatezza pittorica, intesa come la forza emotiva che il critico inglese Berenson chiamava “aumento di vitalità di fronte all’opera d’arte”.

    Lo scrittore, diceva Nabokov in Lezioni di letteratura, deve invece puntare a colpire la spina dorsale. Il punto tra le scapole dove si manifesta il brivido che poi sale fino alla testa – e soltanto dopo sulla vertigine, sull’emotività della vista. Lo scrittore dovrà essere – continua Nabokov – se vorrà fare un’opera degna, un affabulatore, un insegnante e un incantatore. Tre figure in una, tre abilità concise. Mai in ogni caso la sua opera avrà le caratteristiche per assorbire il mondo e imprimerlo in una visione che ipnotizza in un solo istante. Quale maledizione per chi desidera più di ogni altra cosa spingersi nel romanzo come mezzo per una rappresentazione dei meandri invisibili e delle zone cavernose del mondo inteso come fotografia in negativo del reale?

    Come assorbire il mondo e riformularlo in una nuova rappresentazione che sappia essere allegorica e, per quanto possibile, esaustiva?

    Ecco dunque il quesito estremo. Come riuscire ad assorbire il mondo e le sue leve di funzionamento e riformularlo in una nuova rappresentazione che sappia essere allegorica e, per quanto possibile, esaustiva? In che modo reinventare il mondo e intingere la penna nelle tenebre? Come provare a essere all’altezza? Dove concentrare tutte le forze? In che impresa gettarsi per tenere a bada la bestia famelica che dai meandri dell’anima fa sentire il suo ruggito e chiede di esistere attraverso l’opera universale, e scongiurare l’oblio?

    L’allegoria e l’ambizione

    Quale libro scrivere dunque? E perché scriverlo? Ogni giorno arrivano stimoli “acustici” dall’esterno, stimolazioni che transitano, curiosità che rapiscono l’attenzione e si disperdono. Poi, all’improvviso la scintilla che finisce per evolversi in opera. Un processo simile mi è successo, per esempio, con Le Ceneri di Mike, nato in seguito al rapimento della salma di Mike Buongiorno trafugata da un cimitero di provincia, un fatto unico e irripetibile che suggeriva la possibilità di indagare un cortocircuito del reale, l’immaginario mutato di un popolo attraverso uno dei suoi simboli moderni. Cogli l’attimo insomma, e genera cortocircuiti.

    Cosa sia un cortocircuito, e come legarlo al concetto di letteratura e morte, lo spiega perfettamente Andrea Gentile, in uno splendido saggio pubblicato su Nuovi Argomenti, dal titolo La scrittura e la morte. Letteratura come giudizio universale.

    Scrivere è concepire il mondo come miracolo, dice Wittgenstein. E Gentile, autore di un grande romanzo mondo dal titolo “I vivi e i morti”(Minimum Fax, 2018, vincitore del Premio Mondello), interpreta il miracolo. Cos’è il miracolo? L’esistenza del linguaggio dunque; l’esperienza; lo stare dentro un tempo che è fuori e dentro il tempo; il placido, feroce attraversamento nell’orizzonte che è vita, il mondo come miracolo, e possibilità di Dio, e dunque, inequivocabilmente, morte.

    È dunque il linguaggio a generare i cortocircuiti, e Gentile riporta la definizione di poesia del poeta Andrea Zanzotto:

    “Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto”.

    Stessa cosa, mi pare, si può dire accada a un livello più architettonico, attraverso il processo di assorbimento e di rigenerazione di esperienze e conoscenza che dà vita al romanzo mondo. Elaborare un ridondante addensarsi di significati, di motivi, fino a che il sovraccarico di informazioni produce i cortocircuiti desiderati, realmente significanti, che sommati, elaborati, sottoposti a metamorfosi talvolta segrete e inconsce, faticosamente ricercate, generano il mostro che è l’opera.

    Al momento di iniziare il lavoro per scrivere L.O.V.E., che come primo titolo aveva il ben meno efficace “Fuori è l’inferno”, l’unico modo che mi è sempre sembrato stimolante, per avallare l’idea fallimentare di un romanzo che rappresentasse gli ingranaggi del mondo, è stato quello di aggredire il contemporaneo puntando a corrodere una delle sue fondamenta: il dio denaro. Ovvero il fenomeno universale, il mezzo che dall’inizio dalla storia dell’umanità ha totalmente trasceso la sua funzione strumentale per divenire religione, spirito, comune denominatore del mondo, rapporto sociale primario, che corrode e azzera ogni altro valore escluso il valore di scambio.

    In L.O.V.E., alle pagine 23-24, ho sentito l’esigenza di esplicitare in modo diretto lo spettro da distruggere:

    Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprare tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, e dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua proprietà costituisce l’onnipotenza del suo essere. Esso e considerato quindi come ente onnipotente, un’onnipotenza che si espande.

    Nessuno ci pensa mai quanto dovrebbe. Ma quanto conta il denaro nella vita di un uomo? Quanto e determinante per il destino di ciascuno? Quanto incide nelle scelte di ogni singolo giorno?

    Il denaro e l’unico vero denominatore comune dell’umanità. All’improvviso ogni cosa appare finalmente collegata nel mondo, se proviamo a usare il codice del denaro. L’alfabeto del denaro. Le metriche del denaro. Il denaro come filo di Arianna per uscire dal labirinto. Più il denaro diviene astratto per mezzo della tecnologia, più si fortifica come equivalente assoluto, come pura informazione. Come segno, quindi come cultura, quindi come ideologia, e infine come ideologia sublimata, cioè inconscio. Evoluzione genetica. Più diviene misterioso e molteplice nelle sue modalità di autoriproduzione, gemmazione, scissione, frammentazione, più si fa energia occulta che governa le esistenze. ≪L’essenza estranea che tutti ci domina≫ scrisse Marx…

    Mi auguro che in queste righe del romanzo il cortocircuito generativo tra esperienza, linguaggio e tensione emotiva alla base di tutta l’impresa creativa si concretizzi in un fermo-immagine. Per me, tale trasformazione metafisica del denaro, è stato il big bang alla base di qualsiasi altra invenzione successiva.

    Io detesto con tutto me stesso questa letale metamorfosi del reale – sociale in un immenso parco giochi dell’economia politica e del valore di scambio; credo che sia uno zeitgeist ontologicamente votato all’odio, alla morte e alla distruzione. Un sistema cibernetico chiuso divenuto un tutto avvolgente e che non ha esterno. La scrittura incentrata su un grande tema morale, sebbene destinata al fallimento, in un’ottica di palingenesi restava l’unico strumento d’azione davvero efficace per una rivolta, va da sé, prevalentemente soggettiva. Come? Fornendo l’effetto che avevo provato osservando Bosch: uno sguardo al tempo stesso interno ed esterno, quello del protagonista, al sistema sempre più avvolgente e chiuso del capitalismo divenuto spirito del tempo.

    L’idea di scrivere, in questo tempo, in Italia è già di per sé fallimentare

    Ancora un flashback su Il Giardino delle delizie: nelle mie fantasie creative quella visione si è così instaurata e ramificata nella coscienza da trasformarsi in una sorta di dettato formale; il dettato grezzo, istintivo e visionario di uno schema possibile d’opera, un’opera che sin dal suo concepimento desideravo fosse grandiosa, quantomeno per ambizioni e respiro universale, ambizioni talmente grandi da contenere già le premesse e le promesse del solito spettro: il fallimento.

    L’idea di scrivere, in questo tempo, in Italia, un romanzo che non obbedisca alle esigenze premasticate di un mercato che tende a rifiutare la complessità e chiede prodotti di facile e agile consumo, è già di per sé fallimentare. Ecco perché, al fine di vincere la paura, ho sentito il bisogno di obiettivi stilistico-formali estremamente chiari.

    I riferimenti

    E come coglierli, tali obiettivi? Come perseguirli? Grazie ai maestri ovviamente. Maestri da ricercare non negli uomini, ma nei metodi e nei testi: i testi maestro. Ancora cortocircuiti, ancora estasi generative. Bellezza che va cercata, vissuta, assorbita, introiettata, rielaborata e restituita attraverso rielaborazioni personali, e dunque metamorfosi. Testi maestro da considerare soste intermedie nella grande e straordinaria avventura espressiva che è la creazione di un romanzo realista. In prima istanza serviva, per esempio, una voce. Una voce carismatica, che consentisse di trattare la materia immensa senza che colasse via da tutte le parti, come il mare da una bacinella. E cos’è tanto grande da contenere il mondo intero, se non un ego? La prima persona, l’io, in grado di essere attendibile e inattendibile, sincero e talvolta menzognero, capace di costruire e restituire una visione del mondo.

    L’io che avevo assaggiato, e amato, in Le Benevole di Jonathan Littell, libro enorme in cui l’io esperienziale della voce narrante, un sottoufficiale delle SS, consente di entrare e comprendere il nazismo non solo come fatto storico o sociale, ma come fatto psichico: e quindi sotto il segno della vitalità in luogo della cristallizzazione. Non vi è stata alcuna scelta nell’architettura di L.O.V.E. che non sia il frutto di una rigenerazione creativa, germogliazioni che non sono da intendere sempre come apparizioni fulminee, perché per la maggior parte sono il frutto di uno studio metodico e dettagliato.

    Per ricostruire con precisione e accuratezza e rendere verosimili gli scenari dove il capitale sotto le spoglie del libero mercato dissemina violenza mortifera, c’è stato bisogno di immersioni in fonti incrociate, testimonianze, viaggi veri. Il mattatoio, e la sua sanguinaria catena di montaggio tra vita e morte. La guerra, con il suo codice di funzionamento. La fabbrica intensiva con le batterie di operai, e il sostrato emotivo umano che sempre sottosta’ ai fragilissimi equilibri di sostenibilità di questi sistemi, fondati sullo sfruttamento, sull’uso della forza e della gerarchia. Se non avessi lavorato per anni alla forma del reportage narrativo, probabilmente L.O.V.E. sarebbe stato un lavoro incompiuto.

    Il molto lavoro documentale reso possibile da Invisibile è la tua vera patria (Il Saggiatore, 2013), reportage narrativo sul declino dei grandi poli e delle grandi famiglie della rivoluzione industriale italiana, è stato enormemente prezioso. Imparare a capire l’essenza dei luoghi dalla loro osservazione. Provare a trasformare in storie le architetture e le tecnologie, e leggerle non solo come materia ma come protesi dell’anima. Solo studiando declini e dismissioni mi è stato possibile capire quanto dietro ogni creazione umana artificiale, sebbene all’apparenza eterna come cemento, marmo o acciaio, predomini la finitudine biologica dell’uomo. Qualsiasi creazione, nasce, cresce, raggiunge un apice e poi, sfidata e superata la misura apicale, declina e muore. Succederà, mi auguro, anche per il capitalismo anarchico, che tuttavia concorre a distruggere l’umanità stessa pur di non estinguersi prima di lei.

    I Florio, i Crespi. Il fascino immenso di imperi creati dal nulla e poi sbriciolati. Il microcosmo famiglia, che è uno dei molti mezzi validi a indagare il macrocosmo umano, è stato dunque uno strumento d’indagine per L.O.V.E., estremamente debitore de I Buddenbrook di Thomas Mann, opera in cui la decadenza di una famiglia è proprio l’evento sonda per leggere un intero tempo storico. O di Pastorale americana, esempio di come un protagonista si può creare come totem – come il dottor Frankenstein fa con la sua creatura – prendendo vita nell’immaginazione dello scrittore fuori dalla narrazione, per poi distruggerlo o sgretolarlo dentro la narrazione, mentre lui resta fedelmente al servizio dello scrittore demiurgo o del lettore viaggiatore, e ci svela i meccanismi abissali del mondo in cui si muove.

    È strano, e a volte magico assistere agli smottamenti di una fase creativa, smottamenti che avvengono senza mai mostrarsi. Capita, per esempio, di abbracciare un testo maestro come Petrolio di Pier Paolo Pasolini, opera straordinariamente pedagogica nell’insegnare a vedere il mondo come un’immensa forma materica in cui ogni cosa è collegata, un cronotopo entro cui la stessa esistenza dello scrittore può divenire sonda esplorativa del reale e degli abissi.

    Ma è solo il processo di assorbimento e di rielaborazione a consentire il fatto nuovo creativo. Testi maestri come Sporco Denaro di Richard Powers, o Underworld di Don DeLillo, mi hanno consentito di assorbire, sedimentare e riformulare un passo narrativo per me efficiente, un ritmo linguistico familiare da poter gestire, e dunque di immagazzinarlo e immaginarlo come energia che progredisce e si fa vento, vento diseguale, in grado di spingere il solido e talvolta disorientato veliero della scrittura attraverso acque ora placide ora tormentate, e condurlo fino alla meta.

    È un’emozione prodigiosa accorgersi di aver trovato il passo, è come quando le radiazioni del sole si accumulano nel serbatoio fino a sprigionare energia termica: il sole della propria visione del mondo, che rigo dopo rigo concentra i suoi raggi e si chiarifica, concretizzandosi in forma addomesticata. Un sole luccicante al cui incendio concorrono tantissimi altri testi maestri, spesso armonie compiute in altre forme. Saggi, fotografia, poesie, cinema, serie televisive. Colonne, appigli, punti cardinali. Come Il Capitale di Piketty, economista così illuminato da inserire, unico nel contemporaneo, la letteratura come mezzo di comprensione delle ere umane, nonché indagatore di un fattore decisivo dell’equilibrio sociale come la ridistribuzione delle risorse. O come L’amore e l’occidente di Denise de Rougemont, a cui devo le convinzioni alla base della rappresentazione dei rapporti amorosi in L.O.V.E., amori su base negativa che per l’homo aeconomicus si delineano come rapporti di potere destinati a sfociare nelle necessità identitarie dell’ego atomizzato e spettacolarizzato.

    Energie prolifiche di questo tipo possono rivelarsi infinite, e addirittura creare il problema opposto, lo straripamento. Ma si tratta di fasi temporanee, che evolvono grazie al concetto di valenza. Le idee in collisione si scambiano i propri elettroni e formano nuovi legami, e la scrittura stessa finisce magicamente per generare i suoi percorsi di senso: strade talvolta spiroidali che in L.O.V.E. sono magicamente evocate, sfiorate, focalizzate dalle contaminazioni tra i sistemi di pensiero dei grandi pensatori francesi novecenteschi, come Baudrillard (fondamentali per me le opere Lo scambio simbolico e la morte, Della Seduzione, Le strategia fatali), Deleuze (Il freddo e il crudele sulle dinamiche dei rapporti sadomasochisti, i più simbolici del nostro tempo) e Debord (La società dello spettacolo), o da testi classici votati all’assoluto come L’unico e la sua proprietà di Max Stirner, La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter o Uomo lupo, di Robert Eisler.

    Per comprendere appieno cos’è una macchina mondiale e come l’economia diviene rapporto sociale, devo molto alle opere di Luciano Gallino (Finanzcapitalismo) e di Alain Deneault (Mediocrazia e Economia dell’odio), cucitori di sistemi di pensiero estremamente dialoganti con il mio e con opere visuali descrittive dell’era umana, come per esempio il lavoro fotografico di Andreas Gursky, quello fotografico e documentaristico di Edward Burtynsky, simboleggiato dal meraviglioso film Antropocene, o di altri straordinari interpreti dell’iconografia contemporanea come Erwin Olaf o Helmut Newton, in grado di esprimere con enorme potenza d’impatto i concetti di accumulo, separazione, distruzione, lussuria, vanità.

    Erwin Olaf, Separazione

    Il cortocircuito generato dalle fonti audiovisive, l’osservazione delle scenografie, delle atmosfere, delle prospettive di osservazione e del movimento dei personaggi come se fossero seguiti dalla macchina da presa, sono per me sorgenti assolutamente decisive per fornire di qualche efficacia gli scenari rappresentati nel romanzo. Tale religione della commistione non può quindi che erigersi a metodo: la ricerca perenne è come un destino per il facitore del romanzo mondo, è la chiave passe-partout nel processo creativo del pastiche.

    L’unica che per me credo possa considerarsi davvero prolifica. Non posso che mostrare gratitudine, a giochi fatti, per l’influenza che in L.O.V.E. attribuisco a materiali pop, come, una su tutte, la serie pluripremiata The Wire, straordinario affresco del funzionamento della città di Baltimora negli Stati Uniti attraverso il racconto poliziesco delle sue istituzioni e del suo macrocosmo politico e sociale intrecciato, che come il filo di Arianna consente al fruitore/spettatore di orientarsi nel labirinto del reale e decodificare il sistema dello spaccio di cocaina, i giochi di potere intorno al microcosmo portuale, l’influenza del denaro sul sistema scolastico, sulle elezioni politiche e sui media locali attraverso il potere emozionate, conoscitivo e vertiginoso della narrazione.

    E siamo di nuovo a Nabokov: essere un affabulatore, un insegnante e un incantatore allo stesso tempo. Per operare lo scacco al reale, e rappresentarlo come verosimile ponendo la domanda che secondo Roland Barthes è l’essenza del potere della letteratura ≪ecco il mondo, vi è senso in esso?≫ servono davvero tutte le armi.

    La lingua

    I testi maestro fungono come esempio anche per non scordare un obiettivo non meno importante, quello del cortocircuito linguistico. Ponendo davanti a tutto la riuscita stilistico-formale del testo, mai come in L.O.V.E. il problema della lingua si è posto per me in come un problema politico e filosofico. Già nel 1964, in Empirismo Eretico, Pier Paolo Pasolini, affrontando le nuove questioni linguistiche del panorama letterario e socio-politico italiano, registrava un fenomeno di devitalizzazione e omologazione della lingua, esposta al fuoco di batteria dei nuovi linguaggi dell’uomo massa, linguaggi influenzati, giustappunto, dalle esigenze culturali del capitale. Linguaggio tecnologico, burocratico, giornalistico, scientifico, unificati dalla necessità ontologica di dismettere l’espressività e la ricchezza formale dell’italiano nel nome di esigenze comunicative in quanto strumentali all’economia. Oggi quel processo, allora ai suoi prodromi, parrebbe perfettamente compiuto: non di rado capita di leggere, nei romanzi di grande diffusione commerciale e nella stragrande maggioranza dei romanzi italiani degli anni in corso, una schiacciante proliferazione di linguaggio televisivo, derivativo, semplificato, fino a raggiungere la massima strumentalizzazione comunicativa. Testi pronti, cioè, per far parte del sistema chiuso e avvolgente che è il mercato.

    Nulla di eretico, va specificato: se non per l’inganno sul valore, che smette di essere una grandezza misurata sul potenziale intellettuale dell’opera, per divenire una funzione assoggettata all’esigenza economica. Poiché era impensabile che un romanzo ontologicamente votato a esprimere proprio tale tensione di morte – quella di un’era in cui qualsiasi valore autentico è trasmutato ineffabilmente in valore di scambio – fosse scritto con la lingua tipica di tale ontologia, ecco la ferma necessità, per me, di insistere nella creazione di un linguaggio il più possibile espressivo, poetico, e puntare almeno nella ambizioni al cortocircuito evocato da Zanzotto.

    Enorme, di conseguenza, è stata allora la perdurante ricerca di riferimenti preziosi, concretizzatasi, più che in altri, in Paul Celan e nel suo corpo poetico integrale, in Antonio Riccardi e nella sua raccolta Il profitto domestico (quasi un testo paterno per L.O.V.E. e i suoi moti interiori), e in Gli strumenti umani di Vittorio Sereni. Leggi un verso di Celan: Il mondo non c’è più, io debbo reggerti. Ed ecco l’archetipo di un rapporto umano eterno, che si fa ribaltamento del rapporto edipico tra un figlio e suo padre-patriarca, quando il mondo creato da quest’ultimo in punto di morte sta per scomparire. Prima di leggere quel verso, io, scrittore demiurgo, quel rapporto padre-figlio non lo avevo capito così nitidamente.

    Puntare al continuum

    Può servire, tutto questo agitarsi tra scintille, significati da mutare, ordini da spezzare e riformare per mezzo di rappresentazioni, a scongiurare l’oblio? Probabilmente no, ma almeno, chissà, la vanità potrebbe dirsi dispersa in modo un po’ meno velleitario del solito, grazie all’illusione di aver generato, attraverso l’opera, nuova conoscenza. “Ho La sensazione che l’intera letteratura europea a partire da Omero (e in essa tutta la letteratura del proprio paese) abbia una esistenza simultanea e componga un ordine simultaneo. Questo senso storico – che è senso dell’a-temporale come del temporale, e dell’a-temporale e del temporale insieme – è ciò che rende uno scrittore ‘tradizionale’.

    Ed è allo stesso tempo ciò che rende uno scrittore più acutamente consapevole della sua posizione nel tempo, della sua propria contemporaneità”. T.S. Eliot spiegava così la tradizione letteraria e come affrontarla: un continuum, dunque, un criterio secondo cui un’opera, per avere un qualsiasi valore, debba fare i conti con tutte quella che la precedono, ed essere in grado di cercare una nuova direzione pur mantenendo una molteplicità sincronica con tutte le creazioni che l’hanno preceduta.

    La mia speranza è che L.O.V.E. possa partecipare al continuum, se non altro, con la mole. Se è vero che oltre una certa mole di lavoro lo scarto tra qualità e quantità inizia ad assottigliarsi, e se è vero che grazie all’allenamento ciascuna grandezza finisce per permeare l’altra, ecco forse il vero senso profondo del romanzo che sfida il reale a duello: rientrare nel continuum di Eliot sommando mondi, ingranaggi, tipi umani, sentimenti, fatti storici, fratture, erosioni, imposture, distruzioni, fallimenti, desideri, vittorie, sconfitte, ricordi, inganni, ambizioni, umiliazioni, fughe e duelli. Come in un quadro di Bosch.

    P.s. Di seguito, al mero fine di ricomporre il processo di scrittura di L.O.V.E. quantitativamente, ecco la lista completa e quindi parziale dei riferimenti utilizzati:

    Romanzi
    Underworld – Don De Lillo
    Rumore Bianco – Don De Lillo
    Le Benevole – Jonathan Littell
    Zona – Mathias Enard
    Petrolio – Pierpaolo Pasolini
    Pastorale Americana – Philip Roth

    Poesia
    Profitto domestico – Antonio Riccardi
    Millimetri – Milo De Angelis
    Poesie – Paul Celan
    Gli strumenti umani – Vittorio Sereni

    Film
    Il padrino
    Wall-street
    La grande scommessa
    Money Monster
    Song to Song

    Saggi
    Il capitale – Thomas Piketty
    Finanzcapitalismo – Luciano Gallino
    Mediocrazia – Alain Deneault
    L’economia dell’odio – Alain Deneault
    Le strategie fatali – Jean Baudrillard
    Della Seduzione – Jean Baudrillard
    Il sistema degli oggetti – Jean Baudrillard
    Lo scambio simbolico e la morte – Jean Baudrillard
    L’amore e l’occidente – Denis De Rougemont
    Frammenti di un discorso amoroso – Roland Barthes
    Il freddo e il crudele – Gilles Deleuze
    La persuasione e la rettorica – Carlo Michelstaedter
    La città dell’uomo – Adriano Olivetti
    Confessioni di un eco-peccatore – Fred Pearce
    Massa e Potere – Elias Canetti
    La provincia dell’uomo–Elias Canetti
    L’unico e la sua proprietà – Max Stirner
    Charles Baudelaire – Walter Benjamin
    L’uomo come fine – Alberto Moravia

    Serie Tv
    The Wire
    McMafia
    Jack Ryan
    The Sopranos
    Narcos
    Heimat

    Note