La ragione nelle mani, preservare la complessità attraverso l’arte

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    La Valle Camonica, in provincia di Brescia, è il contesto d’elezione della ricerca di Stefano Boccalini che da quasi dieci anni collabora con gli artigiani e le artigiane del luogo e la Comunità Montana alla rilettura in chiave contemporanea dei patrimoni e dei saperi locali, per partecipare a ridare loro valore e autonomia, anche in chiave economica, e immaginare nuove direzioni di crescita sostenibile di un territorio nel cuore delle Alpi. 

    Il progetto La ragione nelle mani, con cui Stefano Boccalini è risultato tra i vincitori dell’ VIII edizione dell’Italian Council (2020), giunge a coronamento del sodalizio tra l’artista, la Comunità Montana di Valle Camonica, gli artigiani e numerose realtà locali, cooperative e persone, che hanno creduto nella possibilità che i processi artistici diventino motore di attivazione sociale, per prefigurare azioni di cambiamento a favore, innanzi tutto, delle comunità locali e montane spesso percepite o che si percepiscono come periferiche.

    L’intervista con Stefano Boccalini riprende il ciclo Comunità Contemporanee che indaga i progetti artistici localizzati nelle aree interne, rurali e montane, iniziato nel 2020.

    Stefano Boccalini, La ragione nelle mani, Gurfa, legno di noce intagliato

     

    Nel 2013 sei stato invitato come artista in residenza per aperto_ art in the border, il programma di arte pubblica sostenuto dalla Comunità Montana di Valle Camonica attraverso il Distretto Culturale, che si avvale della direzione artistica di Giorgio Azzoni. In quell’occasione hai realizzato un’opera permanente, PubblicaPrivata, sul tema dell’acqua come bene pubblico. È stato l’inizio del tuo rapporto con la valle. Cosa significa per te lavorare in un contesto non metropolitano? 

    Come sai ho dedicato quasi sette anni a un progetto che è nato nel luogo dove vivevo, il quartiere Isola di Milano. In quel contesto ho provato ad essere parte attiva nel processo di trasformazione che stava investendo quell’area, contribuendo alla nascita di Isola Art Center. 

    Quell’esperienza è stata fondamentale e ha fatto crescere in me la consapevolezza che per sperimentare forme di sviluppo diverse da quelle che caratterizzano i contesti metropolitani, dovevo confrontarmi con quei luoghi che consideriamo periferici, aree definite interne o montane che hanno saputo, più o meno consapevolmente, conservare quei “semi” che arrivano dal passato ma che possono essere ancora utili, perché capaci di innescare nuove possibili strategie di sviluppo dove al centro c’è l’essere umano con le sue relazioni. 

    L’incontro con la Valcamonica, come ricordavi, è avvenuto grazie ad una residenza artistica, che mi ha dato l’opportunità di scoprire un luogo a me non del tutto sconosciuto, ma che in passato avevo frequentato solamente da turista. Questo spostamento di sguardo è stato fondamentale e negli anni la Valle Camonica è diventata un punto di riferimento per il mio lavoro: qui ho lavorato con varie comunità, con le istituzioni locali e con alcuni artigiani con cui ho creato uno stretto rapporto di collaborazione e di scambio. Qui ho messo a frutto un percorso artistico che ha fatto del rapporto con l’altro il “luogo” della ricerca, e non è un caso che ci troviamo lontano dai grandi centri abitati.

    Ripartire da una condizione locale, come possibile modello di sviluppo, mi permette di guardare alla “diversità” che il territorio sa esprimere, e alla ricchezza che questa offre, come ad uno spazio progettuale dentro il quale costruire nuove forme di lavoro da contrapporre a quel sistema produttivo, uniformante, che la contemporaneità propone.    

    Nel settembre 2020 in occasione dell’incontro di Artlab a Bergamo abbiamo ragionato con te, Pasquale Campanella e la ricercatrice sociale Daniela Luisi sulla necessità di mettere in discussione la parola “esito” a favore invece di “cambiamento”. Considerando l’esperienza che hai accumulato nel corso degli anni in Val Camonica, vorrei che tornassi sul punto: pensi che si possa parlare di esiti della pratica artistica nel territorio? 

    In tanti anni di lavoro non mi sono mai posto la questione dell’esito come condizione per avviare un progetto, ho sempre cominciato a lavorare per fare un’esperienza che potesse arricchire me stesso e le comunità con cui di volta in volta ho avuto a che fare. 

    Normalmente parliamo di esiti perché abbiamo delle aspettative ma se non ci fosse un obiettivo da raggiungere ma solamente l’esperienza di un processo di lavoro, e l’esito fosse il processo stesso? E se il motore che muove i progetti che attiviamo sui vari territori in cui operiamo fosse il desiderio? Credo che oggi non basti abitare lo stesso territorio per poter parlare di comunità, c’è bisogno di qualcosa di più, di condividere un desiderio. 

    Un possibile esito, allora, diventa quello di riuscire a creare un senso di appartenenza che non sia solamente legato alla storia del territorio, alle sue tradizioni, ma che a partire da queste riesca a definire nuove appartenenze e inneschi nuove strategie di sviluppo del territorio.

    Ma parlare di esito nella pratica artistica vuole dire anche parlare di continuità di un processo al di là della presenza dell’artista che lo ha innescato, un dopo che si costruisce a partire dalla volontà di una comunità di far proprio un progetto e di mantenerlo vivo, di conservarlo perché è in grado di innescare dei processi di cambiamento.

    In Valle Camonica una congiuntura di forze locali dà sostanza a quella che si potrebbe definire, sulla scorta della Convenzione di Faro, una “comunità di eredità”. Essa trova riconoscimento nella nascita di CàMon, il centro di comunità per l’arte e l’artigianato di montagna di cui sei stato nominato direttore artistico, inaugurato a luglio 2021. Il tuo contributo è stato fondamentale nell’immaginare il destino di una architettura storica di proprietà comunale, costruita nel 1928, e inutilizzata da oltre dieci anni. È stata restaurata grazie al contributo di Fondazione Cariplo nell’ambito del bando Beni Aperti, per diventare CàMon. Siamo a Monno, paese dell’alta valle di circa cinquecento abitanti.

    Si siamo in un piccolo borgo ma qui ho trovato un terreno fertile; alcuni artisti si erano già misurati con il paese, con i suoi abitanti e i suoi saperi, grazie al lavoro fatto da Giorgio Azzoni all’interno di aperto_art on the border, io stesso da qualche anno collaboravo con gli artigiani e le artigiane di Monno. 

    Stefano Boccalini, La ragione nelle mani, workshop con i bambini e le bambine di Monno 2020

     

    La Comunità Montana di Valle Camonica attraverso il Distretto Culturale, che è diretto da Sergio Cotti Piccinelli, ha avuto la capacità e la volontà di guardare all’arte contemporanea e al suo rapporto con il territorio come a un possibile motore di sviluppo e ha investito su Monno, così come hanno fatto le due amministrazioni comunali che si sono susseguite e che hanno deciso di sostenere questo progetto, e la Cooperativa Sociale il Cardo che fin da subito si è posta come parte attiva nel progetto che stava nascendo.

    Non va dimenticato che c’è una notevole partecipazione da parte degli abitanti del paese e questo è fondamentale per dare continuità ad un progetto così complesso. 

    La capacità generativa di un progetto è un fattore rilevante. CàMon intende essere un centro di comunità. Vorrei che chiarissi in che senso e con quali programmi. 

    Ca’Mon, è un centro di scambio tra saperi intellettuali e saperi manuali, ma anche un luogo di formazione, dotato di spazi adibiti a laboratorio dove lavoreranno artigiani, artisti e giovani della valle. Ospiteremo in residenza artisti e più in generale autori e ricercatori, per attivare un confronto con il territorio. Ma non sarà solo questo, il centro diventerà anche un luogo dove la comunità potrà riconoscersi e dove sarà possibile riportare alla luce tutti i temi legati al passato, utili alla costruzione del futuro e momentaneamente messi in disparte, che potranno trovare le condizioni per rigenerarsi e assumere nuove forme: un laboratorio permanente di sperimentazione e di ricerca che, a partire da una condizione locale, vuole contrapporre la cultura della diversità e della biodiversità all’omologazione.

    La formazione delle nuove generazioni rimane un aspetto focale sia di CàMon sia del progetto La ragione nelle mani, che ha previsto quattro laboratori tenuti da artigiani e artigiane con alcuni giovani della valle. Gli artigiani non sono meri esecutori ma custodi di una eredità culturale, di cognizioni.

    Uno dei punti centrali di Ca’mon è quello della trasmissione dei saperi secondo una logica di condivisione, per cui le tradizioni non assumono un senso nostalgico, ma diventano la porta di accesso al futuro. Tutti i sette manufatti che compongono l’opera La ragione nelle mani sono stati realizzati in Valle Camonica da quattro artigiani affiancati ognuno da due giovani apprendisti. Gli otto “allievi” e allieve sono stati selezionati/e attraverso un bando pubblico, promosso dalla Comunità Montana e rivolto ai giovani della valle interessati a confrontarsi con pratiche artigianali appartenenti alla tradizione camuna: la tessitura dei pezzotti, l’intreccio del legno, il ricamo “punto e intaglio” e l’intaglio del legno. Il senso del recupero delle tradizioni artigianali non risiede nella riproposizione di modelli non più sostenibili, ma nel ripartire da quei modelli per acquisire nuove consapevolezze e spostare lo sguardo verso inedite visioni.

    L’opera La ragione nelle mani si basa su nove parole intraducibili, appartenenti a lingue differenti, spesso minoritarie. Quando hai usato la parola per la prima volta nella tua ricerca? 

    La prima volta è stato nel 2011 a Latronico in Basilicata dove ero stato invitato a partecipare ad una manifestazione di Arte Pubblica A Cielo Aperto: ho chiesto agli abitanti del paese di scegliere una parola che esprimere il legame tra loro e il paese natio, parole legate alla loro storia personale, a quella delle loro famiglie e alle vicende che hanno contribuito a costruire la storia del territorio. L’ho fatto attraverso una cartolina panoramica di Latronico, appositamente realizzata, e recapitata agli abitanti del paese che in seguito l’hanno restituita con scritta sopra la parola scelta; la costruzione di questo “vocabolario” ha messo in evidenza la condizione di un luogo e di chi lo abita facendo emergere l’identità del paese; l’esperienza personale è diventata parte dell’esperienza collettiva e le persone con il loro vissuto sono diventate protagoniste e si sono assunte la responsabilità di leggere e restituire il sentire di una comunità e del suo territorio. 

    Insieme ad una rappresentanza di abitanti del paese, abbiamo scelto otto parole che sono state intagliate nel ferro ed esposte in modo permanente per le vie dell’antico borgo diventando parte integrante del paesaggio che le ospita.

    I tuoi lavori con le parole richiamano una testualità performativa di matrice concettuale, ma a differenza della riflessività concettuale, qui ora immetti materiali, luoghi e pratiche “periferiche” e socializzate, trasferendo l’attenzione su una lateralità che è di tipo topografico, quella di un fare domestico e artigianale, quella delle comunità cui appartiene. La parola nel tuo lavoro si fa materia tangibile, un corpo che condensa e rilancia relazioni, conoscenze, riformulazioni identitarie. Cosa è la parola per te?

    Viviamo in un’epoca in cui le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione e di captazione di valore economico, e hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale. Proprio per questo la parola è diventata protagonista del mio lavoro, una parola che si trasforma in materia e prende forma dalla sfera pubblica. Attraverso la fisicità con cui la metto in scena risulta un vero e proprio dispositivo di comunicazione e diventa un momento di riflessione su tematiche che riguardano tutti, a partire da quelli che consideriamo “i beni del comune”.  Attraverso il loro uso cerco di ridare peso specifico e valore collettivo al linguaggio, che per me è il luogo dove la diversità assume un ruolo fondamentale, diventando il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore “del comune”.

    Hai iniziato ad archiviare e a dare forma a un lessico che concerne l’economia e la sfera degli affetti. Con La ragione nelle mani ti sei spostato verso la parola intraducibile. Cosa rappresenta l’intraducibilità? Perché darle corpo nella valle? 

    Le parole intraducibili che ho utilizzato in questo progetto parlano del rapporto tra gli esseri umani e della loro relazione con la natura. Arrivano da lingue diverse, molte delle quali minoritarie, che a stento resistono all’uniformazione. Sono parole che non hanno corrispettivi in altre lingue e quindi non possono essere tradotte ma solamente spiegate con dei concetti. 

    Stefano Boccalini, La ragione nelle mani, workshop sull’intreccio del legno, Monno, 2020

    Il luogo dove La ragione nelle mani ha preso forma è un territorio montano, decentrato, una valle alpina, dove la natura ha un forte impatto sui ritmi della quotidianità e dove le varie comunità hanno ancora la capacità di riconoscersi attraverso un’identità territoriale. Il legame che c’è tra questo luogo e alcune parole che arrivano da lingue lontane e minoritarie sta in una parola: biodiversità. In un territorio come quello della Valcamonica la biodiversità appartiene alla natura, come lo dimostra il fatto che è considerato uno dei territori europei con la più alta biodiversità vegetale, ma si esprime anche attraverso i saperi che sa esprimere e che sono a rischio, perché non più in grado di reggere il confronto con la contemporaneità. Nelle parole intraducibili che ho utilizzato si riflette una biodiversità che in questo caso è linguistica, e che è fragile: se spariscono le parole, si perdono conoscenze. Allora, la biodiversità diventa per me il “luogo” dove trovare nuove alleanze per preservare la complessità di cui abbiamo bisogno per salvaguardare il futuro delle generazioni che verranno.

    L’ultima domanda concerne l’accuratezza e la precisione formale che caratterizza tutte le tue opere e certamente anche quelle con le parole. Per te rimane importante “dare forma”.

    Lavorando in ambito visivo ho sempre ritenuto fondamentale trovare un equilibrio tra il pensiero che struttura il lavoro e la forma che lo deve restituire; una parte non deve prendere il sopravvento rispetto all’altra altrimenti l’opera perde di forza.  

    Da queste premesse si è sempre mosso il mio lavoro, che nasce e si struttura vicino ad una figura fondamentale del panorama artistico del dopoguerra italiano, Gianni Colombo, di cui sono stato prima allievo e poi assistente. Lo “spazio” come luogo dell’esperienza è stato uno dei punti centrali nell’opera di Colombo, e fin dai primi lavori lo è stato anche per me. Se all’inizio il rapporto con lo spazio era di tipo fisico e si sviluppava attraverso il confronto con l’architettura e con il paesaggio, successivamente ho cominciato a considerarlo attraverso un insieme più complesso di fattori, sociali e antropologici. Lo spazio è così diventato, per me, il luogo dove attivare processi di conoscenza e di scambio fondati sulla condivisione, un luogo dove costruire “appartenenze” a partire da un “desiderio” comune.  Ma la vicinanza con un artista come Colombo mi ha insegnato anche l’attenzione per la forma, una forma non fine a sé stessa ma consapevole del contesto in cui nasce e del contenuto che porta con sé. 

     


    Immagine di copertina: Stefano Boccalini, La ragione nelle mani, workshop sulla tecnica di lavorazione dei pezzotti, Monno 2020

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