Il diario di Dungeness, un giardino dei denti di drago alla fine del mondo

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    Ogni settimana in collaborazione con la casa editrice nottetempo, cheFare pubblica una serie di interventi di filosofi, antropologi e artisti sul mondo naturale. Dopo mesi di reclusione forse è il caso di provare a capire che mondo abitiamo e soprattutto imparare a conoscerlo meglio.

    Ho sempre avuto la passione per i giardini: i fiori ravvivavano col loro splendore la mia infanzia come fosse la pagina di un manoscritto medievale.

    Mi ricordo le margherite, bianche e rosse, disposte in ghirlande sul prato, i fortini fatti di erba recisa e, naturalmente, il mirabile e lussureggiante giardino di Villa Zuassa sul Lago Maggiore dove, nell’aprile del 1946, i miei genitori mi regalarono il mio primo libro da adulto: Beautiful Flowers and How to Grow Them [I fiori piú belli e come si coltivano].

    Quel giardino scendeva a picco come una cascata verso il lago, con i sentieri fiancheggiati da enormi camelie. Le aiuole straripavano di gerani di un ardente rosso scarlatto, un rosso che profumava. Vicino alla riva, le lucertole si rincorrevano sopra una statua di pietra.

    C’erano zucche giganti e gelsi di cui si nutrivano i bachi da seta di proprietà della piccola signora, vestita di nero, che abitava nella casetta del guardiano. Lungo il pergolato di rose, i fiori che crescevano nelle aiuole – lupini, peonie e papaveri Shirley – sbocciavano sotto una pioggia di petali rosa. Il profumo inebriante dei ligustri e dei tigli si insinuava all’interno del giardino circondato da mura.

    Una volta tornato in patria nella base militare a cui mio padre con la famiglia era stato assegnato, piantai un iris viola. Mio padre seppe volgere a suo vantaggio questo mio interesse e fu ben lieto di farmi tagliare il prato, ma a diciott’anni il mio trasferimento a Londra mise la parola fine alla passione della mia infanzia. Quando sono arrivato a Dungeness a metà degli anni ’80, non pensavo affatto di metter su un giardino. Sembrava irrealizzabile: una distesa di ciottoli priva di terra teneva in vita una rada vegetazione.

    Davanti al portoncino era stata costruita un’aiuola, una sorta di giardino di sassi fatto di cemento e mattoni sbrecciati: ci stava bene.

    Un giorno, passeggiando sulla spiaggia durante la bassa marea, scorsi una magnifica selce. La portai a casa e la misi al posto di uno di quei mattoni. Poco tempo dopo avevo sostituito il pietrisco con le selci.

    Non erano facili da trovare, ma dopo una burrasca ne appariva sempre qualcuna. L’aiuola aveva assunto un aspetto bellissimo, era come una chiostra di denti di drago, bianchi e grigi. La passeggiata mattutina fino al mare aveva trovato uno scopo.

    Decisi di fermarmi lì; in fondo, ciò che mi aveva fatto innamorare di Prospect Cottage era proprio il suo aspetto desolato. Sul retro piantai una rosa canina.

    Dopo un po’ rinvenni sulla spiaggia un pezzo di legno dalla strana forma e lo usai, insieme a una delle collane di sassi bucherellati che avevo appeso al muro, come tutore per la pianta. Fu così che ebbe inizio il giardino.

    Lo considerai fin da subito come una terapia e una farmacopea. Raccolsi altri sassi e pezzi di legno sulla battigia e li disposi qua e là. Scavavo piccole buche – era difficilissimo, perché i ciottoli ricadevano subito dentro così che due badilate piene si riducevano a una – che riempivo di letame preso alla fattoria vicina.

    Le piante erano semplicemente ficcate nel buco e abbandonate al loro destino in balia dei venti di Dungeness. I peggiori sono quelli che soffiano da est: sono impregnati di salsedine che brucia tutto.

    Quelli da ovest si limitano a dare una bella strapazzata. Qui godiamo del sole più caldo, delle precipitazioni più basse e di due settimane di gelo in meno rispetto al resto della Gran Bretagna.

    Dungeness è isolata, sta al “quinto quarto”, alla fine del mondo; è la spiaggia con la più grande conformazione di ciottoli del pianeta, insieme a Cape Canaveral.

    Note