Come la storia dei jeans racconta le stratificazioni culturali del Mediterraneo, in conversazione con Ettore Favini

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    Ho incontrato Ettore Favini nel 2018 a Parma per Nouvelles Flâneries, una nuova mappatura della città sulla base di stratificazioni storiche e documentali perlopiù sconosciute. Ci ritroviamo oggi per parlare di un progetto più articolato che indaga le relazioni culturali del Mediterraneo con lo sguardo rivolto alla nascita e diffusione del fustagno, più noto come jeans.. Un lavoro che è in mostra al Carré d’Art di Nîmes – città da cui il denim (de-Nimes) prende il nome – fino al 30 ottobre e che presto verrà ospitato dal Museo del Novecento di Milano. In progress per sua stessa natura, Arrivederci approderà a nuovi lidi per raccontare altre storie e tessere altri fil

    In questo progetto articolato e lungo, il Mediterraneo è protagonista indiscusso. Ti sei sempre mosso sulle geografie: i tuoi interventi hanno spesso avuto a che fare con lo stare consapevole nello spazio. Perché, a un certo punto, hai incrociato questo mare?

    Sì, come dicevi, le geografie mi interessano e i miei lavori partono sempre dall’esperienza diretta, in particolare dal viaggio. Il Mediterraneo mi importava e sta continuando ad importarmi perché è da sempre il luogo privilegiato dei viaggi e degli scambi: incroci di persone, luogo di contaminazione e ibridazione.

    Il primo lavoro sul Mediterraneo risale al 2015 con la mostra Arrivederci che si teneva in due sedi distinte: il MAN di Nuoro e al Villa Croce di Genova. I due musei ospitavano un’opera che avevo installato su un traghetto di linea che tutti i giorni faceva Genova – Porto Torres. Ho sostituito una tenda esistente con una tenda bianca realizzata a mano da due artigiane: una metafora del viaggio attraverso un’opera che il pubblico inconsapevole si trovava ad avere in cabina.

    Ettore Favini foto di U. Armiraglia

     

    Il progetto parte da lì, dall’idea di scoprire un territorio e capirne i vari aspetti: con il tessuto trovavo un tramite rappresentativo del sapere tessile sardo.

    Trama e ordito diventavano metafora della vita, cioè allegoria per lavorare su questa idea di viaggio, di scambio e di persone che entravano a far parte di questo progetto attraverso le loro memorie perché il tessuto, di fatto, è una memoria personale.

    Quindi è dalla Sardegna che partiva il progetto, o meglio dalla tratta che lega la Sardegna e Genova. Se ci si avvicina alla mostra e al lavoro che c’è dietro, viene in mente davvero l’immagine di un artista che ha diretto una “trama”, appunto, di figure, individui e storie.

    Sì, perché l’idea era di realizzare un ritratto corale della Sardegna attraverso dei pezzi di tessuto. Non sapevo come sarebbero stati, poi, assemblati. Ho chiamato amici e conoscenti in Sardegna che mi avrebbero fatto da “mediatori culturali” aprendomi le porte ad altri conoscenti: ho creato una rete di conoscenze all’interno dell’isola.

    Mi spostavo di paese o di città e la notizia del mio arrivo arrivava prima di me: una serie di tessitori mi aprivano la casa. Mi è anche capitato di suonare il campanello a dei tessitori che di me e della ricerca in corso erano totalmente all’oscuro, di raccontargli il progetto per capire se erano interessati ad aderire. Sorprendentemente, è capitato più volte che aderissero al progetto in modo spontaneo.

    Che scambio c’è stato con loro? Come avete lavorato?

    È stato interessante, ho imparato molto sulla tessitura proprio perché molti mi accoglievano nel loro laboratorio e mi facevano vedere com’è la loro tecnica di tessitura, che tipo di colori utilizzano, che tipo di disegni e simbologie vengono utilizzate. Ecco, il tema delle simbologie mi ha aperto la strada al progetto successivo: l’idea, cioè, di prendere un simbolo che veniva, per esempio, dalla Sardegna per farlo ibridare in un altro Paese.

    Col progetto Au revoir è stata creata anche una linea tra Egitto, Nîmes, Genova e Venezia

    Nel Mediterraneo lo stesso simbolo assume significati diversi: un rombo, in Marocco ha un significato, in Sardegna ne ha un altro, in Albania un altro ancora ma quello che si vede è lo stesso rombo. Diventa interessante vedere come queste figure, questi simboli, si trovino poi sparpagliati per tutto il Mediterraneo, conoscere la storia del simbolo e capire come sia mutato attraverso le varie culture.

    Quali sono i Paesi che hai toccato oltre alla Sardegna e a Genova?

    Marocco, Albania, Francia del Sud, Grecia e ora col progetto Au revoir è stata creata anche una linea tra Egitto, Nîmes, Genova e Venezia. Per adesso sono ancora pochi Paesi ma nel mio progetto vorrei fare tutti quelli che affacciano sul Mediterraneo. L’idea è di creare idealmente incroci da un punto all’altro e, tra culture diverse, trovare un filo comune che lega paesi così lontani sia geograficamente che culturalmente.

    Quindi il progetto non si conclude con la mostra a Nîmes e con l’installazione al Museo del Novecento ma proseguirà?

    Sì, proseguirà. Il titolo di questo progetto sul Mediterraneo sarà sempre Arrivederci tradotto nella lingua locale: in questo caso Nîmes ospita la mostra Au revoir. L’arrivederci è una forma di saluto aperto che lascia la possibilità, appunto, di rivedersi. Ed ecco che questo progetto a un certo punto si sposterà da un’altra parte, ci sarà la traduzione del titolo nella lingua locale ma sarà sempre una continuazione. Mi piace l’idea che i miei progetti siano sempre in qualche modo rizomatici e aperti, cioè che non si chiudano mai su un punto ma lascino sempre la possibilità di aprirsi da un’altra parte, di continuare.

    Qual è stata la genesi del lavoro?

    Il progetto nasce dalla partecipazione di Connecting Cultures, un centro culturale di Milano, insieme al bando Italian Council per il Ministero per le Attività Culturali e prevedeva una serie di step per la realizzazione di un’opera d’arte destinata a un Museo italiano. I migranti che hanno partecipato al progetto sono egiziani residenti a Milano e abbiamo scelto la città di Milano e il suo Museo del Novecento. Il lavoro – dal coinvolgimento dell’associazione Sartoria Migrante all’organizzazione di giornata aperta al Museo del Novecento per la donazione dei tessuti – è stato fatto con le comunità egiziane.

    In questo viaggio continuo hai coinvolto molte figure: studiosi, curatori, geografi, botanici, specialisti di diritti umani, direttori di museo, migranti dell’Africa del Nord “in un ritratto corale del Grande Mare e delle sue popolazioni, disegnando una speranza per il futuro”, come scrivi. Com’è andata? Che ritratto ne viene fuori?

    Erano coinvolte quattro tessitrici che hanno partecipato al workshop organizzato dalla Fondazione per il Tessile di Chieri: Nagwa e Doaa (Egitto), Laila (Marocco) Tamel (Srilanka). Il workshop le metteva davanti a una tecnica di tessitura che non avevano mai usato. Abituate a usare perlopiù telai verticali, qui usavano telai orizzontali del Settecento e Ottocento. Con l’aiuto dei volontari della Fondazione di Chieri – luogo dove nasce il nonno del jeans, il fustagno – queste quattro donne hanno imparato la tecnica ma, naturalmente, c’è stata un’osmosi tra i due gruppi. Le signore si erano portate dei telaietti piccoli per mostrare il loro tipo di lavorazione. Per cui la mia idea di questo mare che ibrida si è realizzata anche durante il workshop. E poi tutti gli specialisti che hanno collaborato hanno dato una visione del Mediterraneo.

    Au Revoir, 2019, work in progress, ph Max Monnecchi

     

    Prima mi sono confrontato con degli storici e geografi per lo studio della storia del Mediterraneo a partire dalla scoperta che il jeans, come lo conosciamo oggi, è in realtà un tessuto oggetto molto antico che giunge dal II secolo a.C. (come tipo di lavorazione, poi non è quell’oggetto chiaramente però la lavorazione “a saia” veniva fatta in Egitto in quel periodo). E quindi ecco perché l’Egitto ed ecco perché le donne e le comunità egiziane, come iniziatori, forse inconsapevoli, del jeans cioè di un oggetto che poi è diventato di culto per il XIX e XX secolo.

    Tutti gli altri specialisti intervengono in una seconda fase, nel libro Au revoir, che non vuole essere un catalogo della mostra ma diventa strumento di approfondimento del tema trattato in mostra.

    Nella mostra vediamo 16 mappe del Mediterraneo dall’antica Grecia a Google Maps ed è un passaggio visuale rispetto a come il mare veniva e viene visto dai geografi, dunque rispetto a come è stato letto, registrato e disegnato. Queste sovrapposizioni, poi, creano quasi un disegno astratto che viene ricamato dalle signore su un jeans. Dunque tutto il lavoro sul museo è costituito da mappe che, però, contengono significati più profondi sviluppati ad esempio dal botanico Antonio Perazzi che nel libro ci racconta la storia del blu, ovvero di come una pianta tintoria diventa così importante, creando un colore che prima non veniva utilizzato neanche nella pittura. Un colore, comunque, per un certo tempo poco usato perché considerato malaugurante. Solo col culto mariano ha assunto un significato completamente diverso.

    La ricercatrice dei diritti umani, Ilaria Tani, specialista di Diritto del Mare, traccia nel suo saggio l’idea di confini e di quanto possano essere labili visto che poi il Mediterraneo è ancora oggi una “terra” di confine: vediamo cosa succede ancora oggi nelle acque territoriali e non territoriali con le navi e con i migranti e quindi mi sembrava importante fare un focus su questo.

    Poi ci sono dei testi di storici del tessuto che ne tracciano le vicissitudine storiografiche e gli specialisti del tessuto che invece ci raccontano la loro storia personale, cioè il loro legame con il jeans.

    Il libro ospita anche un bellissimo testo di Federica Freddiani che ci racconta le storie delle donne migranti: quando si spostano, come si spostano e in questa idea di migrazione che cosa si portano, qual è il bagaglio culturale che poi hanno con sé.

    Quindi ecco che il libro diventa una mostra finale in cui si approfondiscono tuti i temi che invece nel museo, nelle opere, vengono lasciati un po’ sotto traccia, lo spettatore può individuare degli aspetti che io tratto e soltanto accenno ma che lascio aperti e che nel libro preferisco approfondire. È importante che diventi un libro trasversale, che abbia più pubblici.

    In questo lavoro collettivo c’è un aspetto a cui sei particolarmente interessato?

    Non c’è n’è uno in particolare. Tutto il lavoro secondo me funziona bene, è diventato un oggetto bello e soprattutto ricco di significati perché in qualche modo dà proprio un’idea complessiva di questo mare che è così stratificato sia a livello storico che geografico per la complessità delle storie che lo circondano e che per questo è così difficile da identificare. Nel libro c’è la serie di nomi che hanno contraddistinto il Mediterraneo nel passaggio dei secoli (da mare nostrum a mare aperto, mare chiuso, mare bianco) ed è molto interessante anche questo aspetto che ci chiarisce che è un mare che si fa fatica anche a denominare, ad analizzare complessivamente.

    Un mare, per esempio, dove contemporaneamente ci sono conflitti ma in qualsiasi località affacciata sul Mediterraneo, non si leggono nell’immediato, pur essendo molto vicini: quando sei su un’isola greca, ad esempio, pensi alla Grecia e non pensi a quello che sta succedendo, che so, a Lesbo. Quindi ecco che dà la lettura a molte aperture e interpretazioni.
    È un mare secondo me aperto da questo punto di vista.

    Cosa ospiterà, di tutto il progetto, il Museo del Novecento di Milano?

    Il Museo del Novecento ha acquisito completamente tutta la mostra in corso a Nîmes. Verrà fatta una mostra temporanea e, se riusciranno a fare l’ampliamento strutturale del museo, un paio di gruppi di opere saranno, poi, nella collezione permanente.

    La mostra, appunto, si compone di gruppi di opere e l’idea della mostra stessa nasce da un primo lavoro costituito da un gruppo di mappe. L’idea è di prendere il Mediterraneo e analizzarlo attraverso tre teli in jeans: sono dei tendoni tesi a riprodurre il movimento delle onde del mare e su questi sono ricamate delle figure. Una ritrae le rotte marittime che venivano tracciate nel Mediterraneo per portare il cotone dall’Egitto verso Venezia o dall’Egitto verso Genova quindi appare un’immagine astratta dove scompare il profilo del mare: restano soltanto le rotte.

    Mer fermée, 2019, cianotipia su tessuto, ph Max Monnecchi

     

    L’altra mappa contiene le 16 mappe del Mediterraneo sovrapposte: un grande caos ricamato sul jeans, rappresentazione del mare stesso nei secoli. L’ultima è una mappa che traccia i confini marittimi territoriali. Per cui cambia la geografia del Mediterraneo, si creano delle forme che non riconosciamo immediatamente, in realtà sono i nuovi confini del mare, dunque come il mare e le terre in qualche modo cambiano la geografia. La carta geografica diventa carta “politica” nel vero senso della parola.

    Un altro gruppo di opere è in bronzo: bassorilievi di modelli navali che accompagnano lo spettatore di sala in sala; un paio di jeans piegati che ho reso con una fusione a tessuto perso; una grande mappa del Mediterraneo in cui le onde prese dalle grafiche – delle mappe dal Quattrocento a quelle dell’Otto-Novecento – sono rese in 3d secondo una rappresentazione apparentemente caotica perché le assomma tutte insieme.

    Un altro gruppo di lavori sono le 16 mappe in cianografia sui tessuti realizzati, tagliati e cuciti dalle donne egiziane a Chieri: un tipo di stampa a contatto che dà come risultato il colore blu.

    L’ultimo lavoro, che secondo me è il più importante dal punto di vista emotivo, è la grande vela latina – un tipo di vela che viene utilizzata ancora sul golfo del Nilo per le navi da pesca – ottenuta con l’assemblaggio di pezzi di jeans e pezzi di tessuto che queste comunità egiziane mi hanno portato al Museo del Novecento raccontandomi la storia personale legata a quel frammento tessile. Storie mute sulla vela che appare come un patchwork. Nel libro si trovano tutte le testimonianze sul significato che aveva il singolo pezzo di tessuto donato: dal pezzettino di body del bambino al velo che la nonna aveva regalato alla nipote. Questa vela diventa un ritratto delle comunità egiziane a Milano. Mi piaceva che quel lavoro tornasse a Milano perché queste famiglie potessero tornare al Museo e riconoscersi in quel lavoro: per loro è tanto più importante perché c’è una forma di riconoscimento anche sociale.

    Dove andrà questa progetto? Hai già un’idea di quale sviluppo avrà?

    Quando faccio le ricerche poi leggo sempre parecchi libri sul tema d’indagine e l’ultimo che ho letto è stato Le crociate viste dagli arabi di Amin Maalouf, un ribaltamento di visione per noi occidentali che è stato già indagato anche da un artista egiziano che ha esposto più volte a Documenta, Wael Shawky. Un altro libro che mi ha interessato è Una società mediterranea di S. D. Goitein che mostra l’idea di come musulmani ed ebrei fossero stati sempre attaccati all’interno del bacino mediterraneo; ma anche quanti punti di unione ci sono tra queste due religioni e gruppi etnici.

    L’idea è, quindi, di ripartire dall’ebraismo cercando le sue radici nei paesi arabi attraverso le rappresentazioni tessili. Come riuscirò a realizzare l’idea non lo so ancora. Mi piacerebbe partire dalla Turchia o dalla Grecia ma soprattutto mi piace affrontare una questione religiosa mai risolta e che in realtà nel passato aveva, in alcune località, esempi di convivenza estremamente civile. Mi piacerebbe partire da qui per sviluppare un progetto nuovo.


    Immagine di copertina: Au revoir, ph Max Monnecchi

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