Italia Evolution: essere presenti scomparendo

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    Lavorare sul bordo, in condizioni precarie – togliere via tutto, rimescolare – sfuggire la retorica, scavare proprio dove non c’è niente e sai benissimo che non c’è niente, mangiare il vuoto – nascondersi, non apparire, il desiderio di non ostentazione: fare sempre – il contrario di ciò che ci si aspetta, oggi, in giorni dominati dall’ansia di prestazione e di “esserci” come essere riconosciuti. Vivere nel momento, essere nel momento (questa grande aspirazione inevasa) – e improvvisamente non esserci. La responsabilità consiste nello sfuggire ai compiti assegnati. “Essere-presenti-scomparendo” è la condizione di un fantasma vivo, che ha cose da fare e tristezze da esercitare, ma il punto di vista unico è quello di chi è al tempo stesso fuori e dentro. È la situazione di chi esiste nell’impermanenza, di chi ricerca nell’oscurità, di chi trova da ridere (anche) nell’infelicità. La gioia inespressa dell’assenza di prospettive; e dello scoprire quanto preziosi sono gli SCARTI.

    Che cosa è importante per te? Che cosa è fondante, che cosa è radice?

    Un sentimento oscuro
    L’impiego di scarse risorse
    Un’arte fatta da chi non ne è capace, un imprevisto
    Un disimpegno, la disillusione
    Maschere non ironiche, che intrappolano il sé e nello stesso tempo convogliano la sua espressione: la permettono
    Il sentimento prematuro del tempo che passa
    Un punto di vista progettualmente negativo sulla realtà
    Il sentimento del legame sconosciuto tra le cose
    Il fastidio per il conformismo e la rassicurazione
    Un ghigno irriverente e un po’ inquietante
    La ferma volontà di non piacere
    Domande su domande
    Un rapporto sano e creativo con il sovraccarico di informazioni
    Una critica sociale abrasiva
    Un vero amore per la corrosione e per le superfici smangiate

    Non atteggiarsi, non posare; svicolare, distrarre l’attenzione; concentrarsi, ma senza mostrare di essere concentrati; fare solo ciò che serve; l’utilità al posto della dimostrazione di bravura; semplicità e intransigenza; rigore unito a contegno beffardo.

    ‘Sognare di’ non è fare, così come ‘fare-finta-di’ non è essere. Questo tipo di opera resiste particolarmente allo spazio istituzionale, ufficiale, separato, perché tende per costituzione a inoltrarsi e a confondersi con la realtà. L’opera, anzi, non esiste al di fuori della realtà e del contesto di riferimento, dello spazio dell’esistenza. E, tra l’altro, dubito fortemente che nella storia dell’arte – tranne forse proprio quella fatta di opere destinate al museo sin dalla loro apparizione (opere tecnicamente ‘morte’), in ogni caso molto breve – il funzionamento sia mai stato troppo diverso. Fin dai suoi inizi. Molto probabilmente, le opere vive di ogni epoca finiscono al museo quando gran parte del loro potenziale di partenza si “scarica”, per così dire – oppure quando vengono travisate. Come scriveva Giorgio Manganelli il museo, luogo cimiteriale e concentrazionario per definizione, “nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode”.

    Scivolare via dal recinto – e concentrarsi su quegli artisti che stanno lavorando per questo; che costruiscono giorno per giorno un piano diverso di esistenza (in cui l’arte verrà accolta nel prossimo futuro); che resistono egregiamente ai condizionamenti e alle pressioni; che sfuggono al display con grazia.

    Non tutto giusto (e prevedibile) ma pieno di sbavature, di sfumature, di ripensamenti, di ripiegamenti – e vero – tentare l’autenticità significa… significa far vedere la sofferenza senza pietismi, o esibizionismi. L’imprecisione, la rottura, i passi indietro, il fallimento continuo – il non appoggiarsi, il vagare scontenti, il non conoscere di preciso il modo, il processo, come funziona. Il procedere per tentativi. La paranoia e la paura.

    La sensazione di scomparire. Essere presenti scomparendo è un po’ questo: un tentativo (estremo, patetico, che attrae condiscendenza, sorrisetti, pacche sulle spalle, gigionerie…) di frantumare filtri, di far vedere la cosa-come-è sotto tutti gli schermi e gli specchi, che ci siamo costruiti e che ci sono stati imposti:

    L’ho girato [8½, 1963] senza vedere mai nulla di quello che facevo, perché era in atto uno sciopero di quattro mesi di tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa. Rizzoli voleva fermare il film, Fracassi, il direttore di produzione, si rifiutava di proseguire la lavorazione. Ho dovuto impormi, gridare, per obbligare tutti a continuare ugualmente. Ed è stata la situazione ideale. Perché a me sembra che quando vai a vedere giorno per giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo, che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai veramente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l’unico film possibile. L’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo. ( F. Fellini, Fare un film, Einaudi 2015, p. 166.)


    Estratto da Italia Evolution. Crescere con la cultura, Meltemi

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