Cinque proposte per la critica cinematografica in tempo di crisi

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    I ben informati sanno che la critica cinematografica nasce insieme al cinema, il giorno dopo la prima proiezione dei fratelli Lumière, nel 1895. Ma oggi capita, in questo isolamento casalingo, di leggere critici dello spettacolo che lamentano la sparizione della propria professione: con le sale chiuse probabilmente fino a dicembre, gli eventi posticipati a chissà quando e il pubblico che si orienta autonomamente tra le molte offerte on line, qualcuno sostiene che la critica in un simile momento non serva a nulla.

    «C’è ben poco da scrivere oltre alla crisi stessa. Il mio potenziale di guadagno è evaporato da un giorno all’altro e non c’è una rete di sicurezza», ha dichiarato il 20 marzo l’inglese Nikki Baughan a Variety. È vero, il problema esiste, ma essere critici va al di là del mero scrivere recensioni, cosa che ora non possiamo fare perché i film non escono (a meno di anteprime private che i registi ci chiedono, o di qualche uscita on demand).

    Essere critici significa molte altre cose, come procurarsi interviste, spiegare cosa succede nell’industria del cinema, raccontarne i mestieri e le difficoltà connesse, fare da tramite con il pubblico. Siamo certamente in una crisi che impatta sul settore cinematografico più ancora che in altri e per il nostro settore durerà più a lungo. E allora attrezziamoci, ragioniamo, decidiamo in che modo stare nella crisi. Quello che abitiamo è un momento che va raccontato perché è Storia, ed è anche un momento per testare la nostra professionalità, altrimenti poi non stupiamoci se i ragazzi preferiscono le pseudo-recnesioni degli youtuber ai nostri articoli. Dovremmo piuttosto chiederci: cosa posso fare io nel mio piccolo per contribuire alla ripresa del comparto?

    Leggo la rassegna stampa dell’Agis tutti i giorni (dove però, va detto, non c’è spazio per le riviste specializzate) e penso che si potrebbe fare di meglio che rivolgere le solite domande alle solite facce. Quella che manca adesso sembre essere paradossalmente proprio l’elaborazione critica, la voglia di approfondire, il tentativo di rispondere alla domanda “Che fare?”. Ho alcune proposte:

    1. Andiamo oltre il mainstream

    I giornali ci chiedono di suggerire al pubblico quali film vedere nel grande mare dello streaming? È da da due mesi che lo facciamo. E allora invitiamo ad andare oltre Netflix e Raiplay. Ci sono almeno una sessantina di realtà diverse che stanno segnalando film disponibili gratuitamente. Approfittiamo del nostro più ampio osservatorio (ad esempio leggendo quelle e-mail mai aperte che ci mandano gli uffici stampa, o le newsletter) per consigliare i lavori di chi ancora non è entrato nei grandi circuiti, di cinematografie minori (non esiste solo l’Occidente bianco), di registe e non solo di registi, del ruolo degli sceneggiatori, dei direttori della fotografia e così via. Il cinema è un lavoro corale, non di pochi e non da poco. E smettiamo di essere Roma-centrici, raccontiamo luoghi meno conosciuti dove si fa cultura, quelli dove a differenza dei multisala si può ancora instaurare un dialogo. Raccontiamo come si svolgono le fasi della filiera per chi non le conosce. C’è chi un pubblico può trovarlo proprio adesso che abbiamo più tempo per andare oltre il mainstream.

    2. Mettiamo al centro le persone

    Il cinema è un lavoro corale, e allora perché si corre dietro ai soliti noti e non si parla di tutte le altre risorse umane di questa industria, tra le più colpite dall’inizio dell’emergenza? Una crisi ha sempre una dimensione umana, politica ed economica: perché non indagarle? I produttori riescono a farsi sentire (a proposito, Giancarlo Leone con i suoi social dimostra di essere un buon comunicatore), ma vogliamo chiedere quantomeno ai rappresentanti delle associazioni di categoria come stanno tirando a campare e cos’hanno da dire sulle misure intaprese dal governo? Le associazioni nazionali e internazionali di autori hanno redatto delle proposte che andrebbero approfondite, il network autorganizzato Professionisti della cultura e dello spettacolo – emergenza continua (nato in seguito ad una chiamata di ADL Cobas) sta scrivendo le condizioni di una riforma di settore per arrivare anche al pieno riconoscimento del lavoro intermittente e rivedere il meccanismo di assegnazione del FUS, gli Art Workers si stanno ugualmente mobilitando, Mi Riconosci? ha diffuso i risultati di un questionario per valutare l’impatto del Covid-19 sul comparto, la SLC CGIL risponde ad ogni singola e-mail, Fondazione Centro Studi Doc e Note Legali sono molto attive, Europa Creativa è intervenuta, moltissimi in diversi settori stanno chiedendo un nuovo welfare con l’estensione del reddito di cittadinanza (mentre la Spagna approva un’entrata minima di esistenza), gli eurodeputati della Commissione Cultura hanno chiesto un fondo speciale e un potenziamento di Europa Creativa. Nel mentre, ci sono stati oltre settanta appelli (li ha contati Ateatro.it) che hanno molto a che fare con qualcosa di cui ci occupiamo poco: l’economia della cultura. Non ve ne siete accorti? Male, perché sono passati dieci giorni e non esistono solo AGIS, ANEC e Anica.

    3. Studiamo

    Non c’è solo l’ultimo libro uscito per il centenario di Fellini o di Sordi, non ci sono solo i colleghi dei giornaloni: leggiamo Che Fare, Lavoro Culturale, Ateatro.it, Delteatro.it, TeatroECritica, Vice, Rolling Stone, Rockit, Artribune – giusto per restare alla stampa in italiano. Qui succedono cose. E a gennaio è uscita la valutazione d’impatto della Legge Cinema del 2016: qualcuno ne ha scritto? Qualcuno si è preso la briga di leggerla? È sul sito del Ministero che aspetta. Posso capire: non avendo mai scritto un articolo che andasse al di là delle dichiarazioni di un ministro sareste a disagio a scrivere del suo impatto, ma non è mai troppo tardi. Sempre a proposito di lavoratori: gli intermittenti sono stati inizialmente esclusi da qualsiasi prestazione prevista dal Decreto Cura, mentre in Francia sono riusciti ad ottenere una legge che li riconosca, un Fondo nazionale per l’occupazione permanente nello spettacolo, un ufficio di collocamento dedicato: non pensate che anche la stampa debba fare la sua parte, documentandosi e documentando? E ancora, avete letto il duro ma condivisibile atto d’accusa dei documentaristi e di CNA rispetto al ruolo cui la Rai è obbligata dal contratto di servizio, nondimeno in questo periodo? Scrivere una recensione è molto più semplice, ne convengo.

    4. Impariamo ad usare i social

    Il lavoro culturale ha bisogno di un megafono che racconti le sue pratiche quanto le sue fragilità, il suo essere precario ben prima di questa emergenza. Diamogli voce. rispondiamo con il nostro contributo alla domanda di solidarietà diffusa. Cerchiamo di essere più social, di condividere riflessioni e non solo ciò che è instagrammabile, di non far emergere solo i colleghi in carica nei grossi gruppi editoriali. Mi è capitato tempo fa di partecipare ad una proiezione di IDFA (per i non addetti ai lavori: uno dei più importanti festival di cinema documentario, ad Amsterdam) in una sala di Milano e ho visto che il dibattito dopo il film prevedeva domande inviate da tutto il mondo tramite i social: bellissimo. E allora studiamo il funzionamento dei social e il modo in cui oggi le informazioni possono essere condivise al meglio. Altrimenti un “Ok, boomer”, quando arriva, ci sta tutto.

    5. Raccontiamo le donne

    Le statistiche sull’occupazione femminile negli audiovisivi danno un quadro desolante: tante le costumiste ma poche le registe, per fare un esempio, e poche tra queste ultime riescono ad andare oltre l’opera prima o seconda. Meno ancora tra loro riescono ad avere budget che si avvicinino a quelli degli uomini. In una prima fase della carriera ha spesso a che fare con il lavoro di cura che per molti uomini spetta solo alle donne, è sempre stato così e sempre sarà. Ve ne sarete accorti anche in questi due mesi se convivete con una donna, e vale anche per le critiche, che sempre su Variety spiegano come abbiano ora “ulteriori responsabilità nella cura dei bambini, a causa della chiusura delle scuole o all’assistenza a persone anziane o malate, che possono anche avere un impatto enorme sulla loro capacità di lavorare”. Vogliamo parlarne? Perché se non lo facciamo significa che ci va bene così.

    Piaciuto l’esperimento? Ripetetelo. Sono solo alcune idee, ma credo che così facendo potremmo poi rivendicare a nostra volta diritti per un mestiere che alcuni giudicano ormai inutile.

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