‘Arte, tecnologia e scienza’ di Marco Mancuso per ritrovare un campo d’azione collettivo

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    Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio si è tenuta a Berlino la trentaduesima edizione del festival di arte e cultura digitale Transmediale. Il tema al centro della tre giorni era quello degli affetti, dell’emotività come forza su cui indagare, oltre che agli aspetti che riguardano la vita e le relazioni nel mondo digitale sempre più frenetico, automatizzato, digitalizzato.

    Proprio nei giorni precedenti al festival mi sono trovato tra le mani il nuovo saggio Arte, tecnologia e scienza (Meltemi 2018) di Marco Mancuso, già direttore della rivista Digicult. E si direbbe che quello della convergenza tra campi del sapere e della produzione sia già un tema che accomuna il volume e un festival come il Transmediale, di cui Mancuso stesso parla, nel mappare gli appuntamenti di rilievo nel panorama internazionale interessati ad elaborare forme espressive, comunicative e di ricerca al passo con i tempi nel mondo iperconnesso globale.

    A fare da filo conduttore del libro è l’ambito della New Media Art, termine riferito a un ambito artistico sviluppatosi gradualmente nell’ultimo secolo nel quale si possono identificare una serie di esperienze artistiche, ricerche di linguaggi ed esperimenti di ricerca sociale e politica dove è significativa l’integrazione di tecnologie e scienze.

    Vivere tempi complessi significa elaborare necessariamente strumenti eterogenei, spesso anche in un lungo divenire prima di trovare una forma adatta.

    Strumenti che, nel loro ibridarsi, agiscono con un feedback positivo sui loro stessi creatori, plasmando di volta in volta artisti-programmatori, scienziati-designer, attivisti-cyborg.

    Se per chi studia i mutamenti del mondo artistico questo può fornire un’enorme gamma di nuovi soggetti da comprendere, per chi considera anche il ruolo produttivo ed economico dell’arte come lavoro, è naturale riconoscere questa evoluzione come processo contemporaneo della produzione post-fordista, nella quale i soggetti dell’industria culturale determinano in modo deciso e decisivo l’utilizzo dei linguaggi, gli strumenti del mestiere, i tempi e i modi di agire la comunicazione scientifica e artistica.

    Quella che Mancuso sembra esprimere a più riprese nel suo testo, e che certamente è una percezione molto diffusa tra chi si occupa, ad ampio spettro, delle tecnologie e della loro azione sul reale, è la necessità di ritornare a costruire paradigmi, trovando la forza e i tempi di ridefinire collettivamente il campo di azione, il vocabolario.

    Capire cosa oggi significa accessibilità, cosa è successo all’open, quale proposta davvero vogliamo portare in alternativa alle logiche culturali delle piattaforme.

    Google Arts & Culture è un servizio offerto dal motore di ricerca che permette di navigare nel patrimonio artistico mondiale con efficienza unica nel suo genere, grazie a visualizzazioni totalizzanti, capacità di ricerca di tag invidiabile e il supporto dell’intelligenza artificiale per creare accostamenti tra diverse opere.

    la necessità di ritornare a costruire paradigmi, capire cosa oggi significa accessibilità, cosa è successo all’open, quale proposta davvero vogliamo portare in alternativa alle logiche culturali delle piattaforme

    Quale può essere il risultato, forse nei prossimi anni, di un processo di democratizzazione e accesso alla cultura dove a dettarne le regole sono un paio di grosse aziende del capitalismo digitale? Che forme può assumere in un tale contesto la sussunzione del lavoro vivo non solo dei singoli lavoratori della cultura, ma anche dei progetti collettivi, della produzione delle community, che si trovano così svilite anche del loro ruolo potenziale di determinare le direzioni di sviluppo?

    Nell’ambito dell’arte digitale, un interessante caso di comunità cresciuta attorno ad uno strumento open è certamente quello di Processing, linguaggio di programmazione free e open source sviluppato inizialmente dagli americani Casey Reas e Ben Fry, fortemente indirizzato verso un paradigma non strettamente proveniente dal mondo del coding, diventando in breve tempo un riferimento per artisti, designer e maker che nel tempo ne hanno ampliato le potenzialità, costruendo archivi didattici come OpenProcessing, utilissimi per chi vuole approcciarsi al design algoritmico o alla dataviz.

    E ancora una volta, se indubbiamente le community, i meeting, i festival, sono capaci di creare strumenti – mezzi di produzione -, resta da chiedersi quali siano le strade da percorrere per elaborare autonomie di paradigma, capaci di elaborare la propria teoria sui tools caratteristici di ogni fase della produzione culturale.

    Se da un lato è evidente che il capitalismo dell’informazione si fonda sulla raccomandazione di buzz words, che finiscono per diventare trends del mondo culturale, dall’altro dobbiamo capire quando la rincorsa su questi temi possa essere utile a definire un campo di azione, e quando invece non si rischia di seguire ciecamente dei frame imposti da chi non ha propriamente la stessa idea di piattaforma culturale quale può essere quella di un collettivo di lavoratori culturali.

    Quale può essere il risultato, forse nei prossimi anni, di un processo di democratizzazione e accesso alla cultura dove a dettarne le regole sono un paio di grosse aziende del capitalismo digitale?

    Mancuso propone in un momento caldo come quello attuale un lavoro di riepilogo e mappatura di quello che si è mosso negli ultimi anni, suggerendo linee di lettura per orientarsi in un panorama artistico vasto quanto ibrido, nel quale l’importante non sembra tanto trovare definizioni e codici su cui sentirsi a proprio agio, ma anzi fare esplodere ulteriormente categorie e linguaggi, magari con una consapevolezza collettiva, di classe, di comunità.


    Immagine di copertina: Mathematical Beauty: Visual Music by Mary Ellen Bute

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