Arte, libertà e speculazione?

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    Nel 1938 Filippo Tommaso Marinetti è al Cairo per una conferenza all’Essayistes Club, dove la intelligentia locale, poliglotta e cosmopolita, si riuniva regolarmente. Gli echi vagamente futuristi della sua presentazione, Poésie Motorizé, non trovarono però il favore del pubblico. Marinetti, che nel 1936 aveva partecipato come volontario agli ordini del generale Badoglio alla guerra in Etiopia (e l’occupazione di Addis Abeba), è affrontato da un giovane arrabbiato, lo scrittore Georges Henein, che si alza e lo insulta, accusandolo di essere fascista ed imperialista.

    Heinen ed il suo attacco all’anziano Marinetti sono il palesamento di una generazione di giovani artisti e intellettuali non europei che non digerivano la retorica tronfia dell’Europa imperialista e in guerra. Qualche mese dopo il Manifesto Viva l’Arte Degenerata circola in Arabo e Francese al Cairo ed all’estero (grazie a una rete di contatti costruita tra Egitto ed Europa).

    Rifacendosi nel titolo alla mostra dell’Arte Degenerata di Monaco del 1937, il Manifesto smaschera e condanna l’Europa fascista e nazista, che uccide e deporta i nemici (le deportazioni di comunisti, antifascisti, ebrei, omosessuali e prigionieri di guerra iniziano tra il 1930 in Libia ed il 1933 in Germania), brucia i libri (il rogo dei libri di Berlino è del 1933) e mette all’indice le opere dell’Arte Moderna e la loro visione libertaria dichiarandole “degenerate”.

    I circa quaranta intellettuali, tra pittori, scrittori ed attivisti culturali che firmano il Manifesto, dichiarano che l’Egitto deve prendere una posizione chiara contro il conservatorismo dei regimi totalitari europei e le culture che questi dispongono.

    Un’attitudine che oggi definiremmo “decoloniale” e che oltre a sembrare una lettura della nostra attualità era alla radice della nascita di Jama’at al-Fann Wa al-Hurriyyah (il Gruppo Arte e Libertà), nel Marzo del 1939.

    Ramses Younan, Fouad Kamel, Anwar Kamel, Edmond Jabes e Kamel Telmisany erano insieme a Henein parte del gruppo che in pochi anni organizza una serie di attività espositive ed editoriali, sempre mantenendo la postura politica libertaria ed antifascista.

    Il gruppo anima un bollettino, “Art et Liberté”, che circola in francese. In pochi anni organizza una serie di mostre dal titolo Ma’arid al-fann al-hur (Mostre di Arte Libera) e pubblica una serie di riviste: in Francese (“Don Quichotte” e “Part du Sable”); ed in Arabo, “Al Risalah”, (Il Messaggio), “Al Majallah Al Jadidah” (La Nuova Rivista) e “Al-Tatawwur” (Evoluzione). La produzione editoriale porta al pubblico temi di politica locale ed internazionale, l’analisi critica dei lavori di artisti Moderni Egiziani ed Internazionali, poesie e testi critici sulla cultura contemporanea.

    L’esperienza radicale del gruppo Arte e Libertà è raccontata nella mostra When Arts Become Liberty: The Egyptian Surrealists (1938-1965), che ha inaugurato al Palace of Arts del Cairo lo scorso Settembre e viaggerà nei prossimi anni in diversi musei.

    Oltre 150 opere e materiali di archivio (riviste, fotografie, bollettini), raccolti tra collezioni private e pubbliche in Egitto ed all’estero, sono per la prima visibili al pubblico. Il sostrato politico e culturale di riferimento è quello tracciato più sopra: con questo in mente, i curatori hanno deciso di racchiudere l’esperienza tra il 1938, data dell’attacco a Marinetti, e gli anni Sessanta, che segnano la svolta conservatrice del governo di Gamal Abdel Nasser. Dopo la rivoluzione del Movimento degli Ufficiali Liberi, dal 1956 Nasser irrigidisce la politica intorno alla sua figura, spingendo alla diaspora diversi artisti del movimento, le cui tendenze non potevano andare d’accordo con la nuova organizzazione dello stato.

    La mostra è il risultato di sette anni di ricerche ed è stata fortemente voluta e curata da Salah M. Hassan, storico dell’arte, fondatore e condirettore della rivista NKA – Journal of Contemporary African Art  e dell’Institute for the Comparative Modernities della Cornell University insieme a Sheikha Hoor Al-Qasimi, artista, curatrice e presidente della Sharjah Art Foundation e della Biennale di Sharjah.

    Hassan è una figura chiave per la storia dell’Arte Moderna Africana. Attraverso un’attività accademica e curatoriale internazionale, dagli anni Novanta ha supportato le ricerche di storici dell’arte e curatori che in tutto il mondo si sono specializzati in arte africana – e della sua Diaspora – oltre scritto su artisti africani invisibili o quasi nel sistema dell’arte globale.

    Dalla fine degli anni Novanta ha organizzato diverse mostre che svelano la storia modernista del continente. Tra queste vanno ricordate Authentic/Ex-centric, primo Padiglione Africano alla Biennale di Venezia del 2001, ed Unapcking Europe, l’Europa narrata dall’Africa e dalla sua Diaspora, al museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam.

    Hoor Al-Qasimi è la testa visionaria dietro la riformulazione della Biennale di Sharjah, avvenuta quando, rientrata da Londra a 23 anni con un BA ed un MA ottenuto nelle migliori scuole d’arte della città, le è stata messa in mano la Biennale, fondata nel 1993 dal padre il Sultano bin Muhammad Al-Qasimi, reggente illuminato del principato di Sharjah. Hoor è una principessa postmoderna, sempre in aereo per lavoro e che è entrata dal 2003 nella lista delle 100 persone più potenti del mondo dell’arte, aggiudicandosi quest’anno il quarantesimo posto.

    Una mecenate del XXI Secolo che nel 2003 ha trasformato la Biennale in SAF – Sharjah Art Foundation, una istituzione fluida che produce arte, produce ricerche, organizza workshop (gratuiti) di pittura e scultura per bambini ed adulti della città, produce la Biennale, organizza un festival annuale degli artisti di tutta la penisola araba, offre proiezioni di cinema ed organizza anche mostre di livello internazionale. Uno spazio culturale il cui interno ed esterno sono ugualmente vissuti dagli abitanti del quartiere (vecchia area portuale di Sharjah, oggi radicalmente trasformata dall’arrivo dell’architettura Moderna e luccicante) e regolarmente frequentato dai nomi che contano nel mondo dell’arte Arabo ed internazionale. Un mix riuscito di Dolce Vita dell’arte globale e radicamento nel contesto locale. Entrambi ugualmente presenti ed importanti: il primo per dare credito al secondo; il secondo per dare contenuti al primo nel caso delle produzioni site specific di opere di artisti internazionali.

    Si potrebbe obiettare: beh, sono capaci tutti con i soldi del Sultano Al-Qasimi. Credo però che avere tonnellate di soldi del petrolio e pensare di spenderli in una maniera altrettanto innovativa non sia da tutti. Dubai ha prodotto Art Dubai, una Fiera d’arte, che ha sì spinto l’arte del Golfo, ma si tratta di puro mercato. Abu Dhabi ha importato grandi istituzioni occidentali, la New York University ed il Louvre che aprirà nel 2017. Meno conosciuto e scintillante di Dubai o Abu Dhabi, Sharjah invece produce cultura, fa del territorio della città la ragione ed il mezzo della propria produzione culturale, e si proietta sulla scena internazionale non tanto sostenendo il mercato dell’arte del mondo arabo (per quello c’è Dubai), ma la sua storia come veicolo per costruire la propria identità senza il filtro dell’Eurocentrismo.

    Salah e Hoor si sono ritrovati a collegare le rispettive ricerche lavorando per sette anni sui Surrealisti Egiziani e cercando le opere negli archivi di vari musei del Cairo e di diversi pittori e collezionisti egiziani residenti in Egitto ed all’estero. L’Egitto è Africa per Salah (Sudanese di origine, e quindi cresciuto a cavallo tra Africa e lingua e cultura araba) ma è anche mondo Arabo per Hoor.

    Dopo aver lanciato la mostra con una conferenza internazionale, Egyptian Surrealists in Global Perspective, che ha avuto luogo nel 2015 all’American University del Cairo, Hoor e Salah hanno volutamente deciso di lanciare When Arts Become Liberty al Cairo, per permettere agli stessi egiziani di vedere le opere di artisti i cui nomi erano noti ma che non erano mai state esposte.

    La mostra ha infatti coinvolto due curatori locali, Ehab Ellaban dell’Ufuq Gallery, e Nagla Samir dell’American University, per fare in modo che la scena artistica locale fosse interamente coinvolta in un’operazione che vuole avere un forte radicamento in Africa e nel mondo Arabo.

    Dopo una riuscitissima mostra sul pittore sudanese Ibrahim El-Salahi, interamente finanziata da SAF, approdata da Sharjah al Museum of African Art di New York ad alla Tate di Londra nel 2014, e prima di un’altra grande mostra sul Modernismo in Sudan (che aprirà a Sharjah nel Novembre 2016), Hoor e Salah hanno portato avanti questa collaborazione con il comune intento di riscrivere la Storia dell’Arte.

    Sembra fondamentale dover sottolineare il percorso e le intenzioni di entrambi i curatori (e le loro inclinazioni nei termini della politica culturale) proprio mentre una mostra sullo stesso gruppo surrealista egiziano e dallo stesso titolo ha incredibilmente inaugurato quasi un mese dopo al Centre Pompidou di Parigi: Art et Liberté. Rupture, War and Surrealism in Egypt (1938 – 1948). I curatori Sam Bardaouil and Till Fellrath (che operano con il nome “Art Reoriented” e che nel 2013 hanno organizzato una mostra dal titolo assai Pop Tea with Nefertiti) e la direttrice del Centre Pompidou Catherine David devono aver trovato urgente e necessario presentare al pubblico francese un progetto espositivo che sembri coincidere integralmente con la mostra del Cairo.

    Una svista? Indagando, emerge una vicenda piuttosto esemplare in termini di egemonia culturale. La mostra di Parigi sembra essere in buona parte costruita sui pezzi appartenenti alla Al Thani collection di Doha, Qatar, appartenente allo sceicco Hassan M. Ali Al Thani. Voci assolutamente non verificabili insinuano che questi avrebbe spinto Catherine David a fare la mostra al Pompidou, cercando anche di sottrarre a collezionisti e musei egiziani alcune opere già prenotate da Hoor Al-Qasimi e Salah M. Hassan, in nome dell’enorme prestigio dell’istituzione francese.

    Senza dover dare credito a queste insinuazioni, appare comunque strano che la mostra firmata Art Reoriented sia stata lanciata su e-flux nel Novembre 2015 – pochi giorni dopo la conferenza del Cairo Egyptian Surrealists in Global Perspective – con un titolo molto Pop: Baby Elephant Die Alone. Quasi un anno dopo, il titolo effettivo della mostra al Pompidou è cambiato ed è la traduzione in francese della mostra di Hoor e Salah: Art et Liberté.

    Appare inoltre problematica la diatriba nata tra Sam Bardaouil e May Telmissany, professore dell’Università di Ottawa (Canada) e figlia di Kamel Telmissany, uno dei pittori surrealisti del Cairo le cui opere sono nella mostra del Pompidou. In un articolo pubblicato il 23 Ottobre 2016 sul giornale Alkhaera, May Telmissany rende note le conversazioni avute con Catherine David e Sam Bardaouil su alcuni quadri attribuiti a suo padre che nella realtà erano dei falsi, prodotti nel Golfo Persico negli anni Ottanta. I quadri, dice May Telmissany, erano già stati venduti all’asta da Christie’s e poi ritirati, perché l’acquirente si era reso conto di aver comprato dei falsi.

    Nell’articolo, May Telmissany parla anche di alcune immagini del sontuoso catalogo, che sarebbero erroneamente attribuite a Kamel Telmissany. Tanta negligenza è il segno di malafede da parte dei responsabili che pure erano stati informati dei falsi, dice Telmissany, accusando l’intera mostra del Pompidou di essere una mera operazione commerciale finalizzata a far crescere sul mercato i prezzi delle opere della collezione Al Thani di Doha.

    Nel suo complesso, la vicenda getta non solo una luce oscura sulla mostra di Parigi e ci fa percepire la realtà ben poco militante dei meccanismi delle Blockbuster Exhibitions e del mercato dell’arte, ma anche ci spinge ad interrogarci sul senso, il valore e le modalità corrette delle vere operazioni culturali, che agiscono con un respiro che va ben oltre i meccanismi mercantilistici dell’ ”Art Incorporated”.

    Note