Il museo come nuova forma di narrazione culturale

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    Il monopolio rivendicato, anche se implicitamente, dall’Occidente sul dominio del Bello, ha cominciato a venir meno con le discussioni degli anni novanta aperte dal collezionista e mercante d’arte Jacques Kerchache. Kerchache, vicino al presidente Jacques Chirac, riuscì a convincere quest’ultimo che sarebbe convenuto  estendere il dominio del Bello al di fuori del suo terreno classico, vale a dire quello dell’arte occidentale. […] Kerchache riuscì a vendere a Chirac l’idea di un’apertura del museo del Louvre alle arti esotiche non europee, nell’attesa della costruzione di un museo a loro specificatamente dedicato: il futuro Musée du quai Branly. È nella forma del Pavillon des Sessions, aperto nel 2000, che prende corpo tale estetica del mondo.

    Bisognerà attendere il 2003 perché il Louvre allarghi il suo campo di competenze alle “arti dell’Islam” – già presenti in precedenza, ma senza una sezione propria; apertura, nei due sensi del termine, meno audace di quella del Pavillon des Sessions, poiché si tratta di arte che possiamo considerare espressione di una “grande civiltà”, che regge il confronto con l’arte egizia e greca antica o quella del periodo medievale o classico europeo.

    Ed è così che, in un certo senso, il Louvre Abu Dhabi può essere considerato la logica conseguenza dell’apertura del Louvre di Parigi alle arti dell’Islam. Non soltanto perché quest’ultimo intende prestare o affittare una parte della sua collezione al Louvre Abu Dhabi per il periodo 2017-2046, ma anche perché tale progetto costituisce lo sviluppo naturale di un’opera di seduzione del mondo arabo-musulmano e di esportazione del museo del Louvre in una delle regioni economiche più dinamiche del globo.

    All’interno del progetto del Louvre Abu Dhabi, come si evince dai documenti preparatori, si possono distinguere due grandi tipologie di universalità: una universalità concreta, pratica, empirica, storicamente dimostrabile e che è riprova di tutti quei meticciamenti, ibridazioni o diramazioni osservabili nel corso della storia; e una universalità di tipo filosofico, per la quale il museo occupa il ruolo di Dio rispetto alle monadi (le opere) nel sistema leibniziano.

    Il Louvre Abu Dhabi vuole essere da una parte modesto, storicizzante, ma allo stesso tempo universalizzante nel senso negativo del termine, occupando, di fatto, una posizione occidentalista di supremazia insieme ordinatrice ed egemonica.

    Una posizione da museo europeo; e non uno qualsiasi, dal momento che parliamo di uno dei più antichi e maestosi musei del mondo, nonché del più visitato.

    Pertanto, ci si potrebbe domandare che cosa ci sia in gioco con il decentramento di questo museo universale del XXI secolo sulle rive del Golfo Persico. L’apertura di questa succursale del Louvre non è forse un modo per mascherare il perpetuarsi di questa volontà di egemonia museale dietro l’apparenza di una delocalizzazione geografica?

    Di certo, il Louvre Abu Dhabi possiede, a dispetto delle evidenti somiglianze, una superiorità propriamente ideologica rispetto al cugino del quai Branly. Se il Branly pretende di far “dialogare le culture” escludendo se stesso dal confronto, vale a dire rifiutando di tener conto della sua appartenenza all’area culturale europea, e dunque di “provincializzarsi”, come afferma lo storico indiano Dipesh Chakrabarty, il Louvre Abu Dhabi mette in rapporto l’insieme delle culture artistiche del mondo, ivi compresa l’area culturale egemone rappresentata dall’Europa o dall’Occidente.

    Questa culturalizzazione globale è naturalmente una sfida alla concezione universalista illuminista nella forma in cui essa ha prevalso all’interno del Louvre ancora fino a tempi recenti.

    L’inclinazione etnologica che soggiace a questa nuova apertura è rafforzata dall’orientalismo esplicito che ha guidato il gesto architettonico di Jean Nouvel. Questo architetto, conosciuto e premiato in tutto il mondo, è già stato citato per l’approccio primitivista applicato al Branly, che si ispira a una giungla amazzonica. Trasposto sulle coste del Golfo Persico, questo primitivismo si è tradotto in orientalismo, e cioè nell’imposizione di una specifica cultura architettonica alle società di questa parte del mondo.

    Nel progettare il primo museo universale del XXI secolo nel mondo arabo, Nouvel avrebbe potuto accontentarsi di ideare un’architettura universale “neutra” come è stato fatto altrove. Ma nel caso del Louvre Abu Dhabi è stata la logica “culturalista” a guidarlo, portandolo a un progetto ispirato alla città araba, alla moschea e all’insieme di riferimenti orientalisti a essa associati: in particolare, la cupola e il gioco di luci e ombre.

    In breve, un’estetica stereotipata della mashrabiyya, analoga a quella che si può osservare in altre due sue realizzazioni – l’Institut du Monde Arabe a Parigi o il Museo nazionale del Quatar –, che fa profondamente dubitare del valore universale del Louvre Abu Dhabi sul piano architettonico.

    Nel corso della sua lunga storia, il museo del Louvre ha costruito la sua identità ridefinendo di continuo la gamma di opere presenti nelle sue collezioni. L’apertura di questa succursale fa da specchio alla necessità di ogni museo occidentale di abbandonare l’universalismo, o per lo meno di riconfigurarlo decentrando i suoi luoghi espositivi.

    Tale delocalizzazione si suppone permetta di sottrarsi all’obbligo correlato della restituzione richiesta dai paesi che in passato hanno subìto il saccheggio del loro patrimonio. Evitando di interrogarsi sull’origine delle sue collezioni e sulle modalità con cui le diverse opere esposte sono entrate a far parte del mondo dell’arte, il Louvre Abu Dhabi porta avanti la definizione di una parità estetica e di un livellamento artistico tra le differenti culture del mondo che compromette il suo desiderio di universalità.

    Il museo del Louvre e la sua succursale di Abu Dhabi sono stati oggetto della critica distruttiva dell’artista americano-libanese Walid Raad, attraverso il suo progetto Scratching on things I could disa- vow. Secondo Raad il Louvre Abu Dhabi non è in alcun modo un decentramento riuscito del «museo universale del xxi secolo nel mondo arabo». Tutt’al più, un modo comodo per il maggiore museo del mondo di darsi un aspetto più presentabile e di sottrarsi così alle critiche rivolte al suo eurocentrismo, concludendo nel frattempo un buon affare.

    Il Louvre Abu Dhabi è, da parte sua, un “muro” che porta avanti l’annullamento del senso delle opere provenienti dalla casa madre parigina.

    I musei universali del xxi secolo del mondo arabo, secondo Raad, di universale altro non hanno che il nome, poiché essi non fanno altro che perpetuare il saccheggio di oggetti artistici islamici che, attraverso una “accumulazione originaria” (per usare una formula di Karl Marx), hanno finito per ammassarsi nei musei occidentali. In questo senso, la prospettiva di Raad è autenticamente postcoloniale, dal momento che intende procedere a una reale distruzione, sia pure simbolica, dei musei occidentali e in primo luogo del museo del Louvre.

    Da qualche anno, nell’ambito della morale politica, come in quello del mondo intellettuale e artistico, prevale la critica postcoloniale o decoloniale, caratterizzata da tre principi: il pentimento, le riparazioni, la riconciliazione – e sul piano museale la restituzione delle opere rubate dall’Occidente nei paesi colonizzati o semicolonizzati come per esempio la Grecia. Ma anche l’Italia, oltre ad aver colonizzato e ad avere restituito nel 2005 l’obelisco di Axum all’Etiopia, potrebbe allo stesso modo chiedere un giorno la restituzione delle sue opere artistiche rubate all’epoca della conquista napoleonica, così come la Grecia reclama dalla Gran Bretagna la restituzione dei frontoni del Partenone esposti al British Museum.

    Insomma, i saccheggiati possono a loro volta diventare saccheggiatori e viceversa!

    La critica postcoloniale ha trovato una traduzione sorprendente in Francia nelle leggi memoriali sugli ebrei, sulla schiavitù e sul genocidio armeno. Nell’ambito dei musei, questa critica colpisce nel segno quando reclama la restituzione delle opere rubate dai conquistatori e dai colonizzatori.

    Come ha fatto notare il grande collezionista africano Sindika Dokolo, peraltro genero del presidente dell’Angola Dos Santos, se la restituzione dei beni sottratti agli ebrei dai nazisti durante l’ultima guerra mondiale non ha posto alcun problema al governo francese, perché la restituzione al Benin delle opere di arte pr imitiva esposte al musée du quai Branly dovrebbe porne? Due pesi, due misure, conclude dunque Sindika Dokolo; e a tale proposito non possiamo che dargli ragione, anche se dichiara: «Preferisco che le ricchezze dell’Africa ritornino a un nero corrotto, piuttosto che a un bianco neocolonialista».

    Vediamo quindi, in conclusione, che la problematica postcoloniale o decoloniale ha come effetto di mascherare le opposizioni di classi esistenti al nord come al sud e di fornire una legittimazione alla dominazione delle élite dei paesi africani. A chi conviene la restituzione? Questa è, in definitiva, la domanda che dobbiamo porci.


    Pubblichiamo un estratto dal saggio di Jean-Loup Amselle  da La cultura ci rende umani (UTET)

    Immagine di copertina: ph. di Sudhith Xavier da Unsplash

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