L’illusione di ricordare tutto: ripensare l’archivio contemporaneo. Una conversazione con Gabriella Giannachi

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    In occasione della recente traduzione in italiano di Archiviare tutto. Una mappatura del quotidiano (Treccani, 2021), l’autrice Gabriella Giannachi discute alcuni temi centrali del libro insieme a Cristina Baldacci. Uscito inizialmente in inglese (MIT Press, 2016) – Giannachi è docente di Performance e New Media e direttrice del Centre for Intermedia and Creative Technologies alla University of Exeter – il libro ripercorre, in una prospettiva interdisciplinare, la tanto complessa quanto affascinante storia dell’archivio come luogo della memoria e dispositivo culturale, che si è evoluto nel corso dei secoli di pari passo con il rinnovarsi delle tecnologie, degli usi e dei valori ad esso attribuiti. Tuttavia, mai come oggi, nell’epoca dei big data, gli archivi hanno subito una trasformazione così radicale e accelerata che ne ha minato profondamente la funzione “archiviante”. Perché l’archivio rimanga un sistema di memoria vivo nel presente e affidabile per il futuro, è diventato dunque oltremodo urgente non solo ripensarne collettivamente le pratiche, strategie e possibilità, ma anche e soprattutto averne cura, tutelandolo rispetto ai grandi cambiamenti in corso nel passaggio dal postmoderno al postumano.    

    CRISTINA BALDACCI: Vorrei cominciare questa nostra chiacchierata sull’archivio con un’immagine che è stata un riferimento importante per entrambe e che è significativamente coeva al saggio derridiano sul “mal d’archivio”1Jacques Derrida, 1995, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, trad. it. di G. Scibilia, Filema, Napoli 2005.: Archive (1995) di Thomas Demand. La fotografia presenta una ricostruzione dell’archivio di Leni Riefensthal, nota fotografa e regista di propaganda nazista, come accumulo di scatole vuote e disordinate, dunque come luogo di memoria privato di contenuto e di senso. Si tratta – lo ricordi nel libro riprendendo le parole di Derrida – di una metafora del fallimento novecentesco dell’archivio come «archivio archiviante» (p. 323). Il paradigma dell’archivio moderno come dispositivo di potere, al centro della teoria foucaultiana e così ben riassunto dalla frase di Aleida Assmann «controllare gli archivi è controllare la memoria»2Aleida Assmann, 1999, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. di S. Paparelli, il Mulino, Bologna 2002, p. 382. A cui si può affiancare un’altra citazione tratta da un libro che ricostruisce l’ossessione modernista per l’archivio universale perpetrata da Napoleone a inizio Ottocento: «Chi possiede gli archivi, possiede la Storia e controlla la visione del futuro». Cfr. Maria Pia Donato, L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia, Laterza, Roma-Bari, 2019, p. VIII. , è stato messo sotto scacco dal postmodernismo e incalzato dai più recenti studi postcoloniali (e postcomunisti), postumani, gender e ambientalisti. Eppure, con l’inizio del nuovo millennio, grazie anche alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali, il desiderio umano di “archiviare tutto” è più vivo che mai, come racconti nel libro. Quale rinnovato modello d’archivio – o forse sarebbe meglio parlare di modelli al plurale – si prospetta nel e per il contemporaneo?   

    GABRIELLA GIANNACHI: Gli archivi sono formati da documenti accumulati per motivi diversi, in periodi storici diversi, da persone diverse. Gli archivi sono però anche formati dagli edifici o dalle strutture che ospitano e/o organizzano questi documenti e dalle strutture archivianti, metodologie, ideologie, classificazioni, proposte da varie civiltà, non solo per l’organizzazione di questi documenti, ma anche per l’organizzazione del nostro intero apparato conoscitivo. L’Olocausto ha stravolto questi sistemi. Da allora la cultura occidentale si ritrova nella condizione che Jean-François Lyotard ha definito postmodernismo3Jean-François Lyotard, 1979, La condizione postmoderna, trad. it. di Carlo Formenti, Feltrinelli, Milano, 1981.. Sono passati quarant’anni e la nostra ossessione per gli archivi è continuata ad aumentare, così come è anche aumentato il nostro interesse per la documentazione, che, come ci ha insegnato Suzanne Briet, nel suo Qu’est-ce que la documentation?4Suzanne Briet, Qu’est-ce que la documentation?, Édit, Parigi, 1951. , è un meccanismo chiave non solo per la produzione culturale, ma anche per l’epistemologia della cultura. Al momento si può quindi cercare di reinventare gli “archivi archivianti”, da un lato, tramite l’espansione di modelli documentaristici e, dall’altro, tramite la re-interpretazione, anche fisica (con il reenactment), dei materiali archivistici già archiviati.

    CB: Gli artisti contemporanei sono tra i primi sovvertitori dell’archivio come strumento di controllo politico-culturale. Con la loro pratica producono contro-modelli inclusivi e mai statici, che io considero, come sai, “archivi impossibili”5Cristina Baldacci, Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, Monza, 2016. . Questo non solo perché sono opere d’arte, e non archivi tout-court, che spesso nascono come imprese di raccolta e catalogazione utopiche, destinate a rimanere aperte, non-finibili (ciò ne determina il fascino e la forza). Ma anche perché ripensano profondamente sia il funzionamento, sia il ruolo dell’archivio come luogo di sopravvivenza della memoria, di produzione, accessibilità e diffusione della conoscenza, e soprattutto come spazio di possibilità. Su questo aspetto fondamentale insisti giustamente molto nel libro, arrivando a dare una bellissima definizione degli archivi come «catalizzatori della trasformazione» (p. 326). Per approfondire l’argomento, vuoi magari citare come esempio uno degli artisti di cui hai trattato e a cui tieni particolarmente? 

    GG: Bellissimo il tuo libro sugli archivi “impossibili”, dove parli, appunto, dell’importanza degli aggiornamenti e delle rielaborazioni degli archivi. Anche io sono interessata a come creare nuovi archivi, soprattutto archivi di materiali che non sono stati fino ad ora ritenuti di valore, oppure appartenenti e pertinenti a comunità disperse o distrutte dalla storia. Per questo nel libro parlo anche del Museo Ebraico di Daniel Libeskind, che è testimone della storia di Berlino, raccontata attraverso l’uso di spazi che collegano le storie di alcuni degli artisti annientati dall’Olocausto. Mi chiedi di parlarti di un artista a cui tengo particolarmente e vorrei proporti l’esempio di Thomas Allen Harris, non solo perché ha creato, letteralmente dal nulla, un archivio meraviglioso, gigantesco, ma anche perché il modello che ha creato è facilmente esportabile. Harris è un artista interdisciplinare che si occupa di famiglia, identità, comunità e pratiche partecipative di memoria. Dal 1990 lavora con il concetto (e la pratica) dell’archivio, adoperando fotografie raccolte in collaborazione con varie comunità afroamericane. Nel 2009 Harris ha avviato il Digital Diaspora Family Reunion, LLC (DDFR), un progetto transmediale che gli ha permesso di collaborare con varie comunità afroamericane, raggiunte tramite una serie di roadshows. Usando strategie curatoriali, performative e lo storytelling, ha prodotto 45 eventi audiovisivi in oltre 30 città. Ha invitato 3000 persone a esplorare e condividere le loro storie, o le storie dei loro antenati, attraverso le foto che si trovavano nei loro album di famiglia e oggetti vari tramandati di generazione in generazione. Al momento, DDFR consiste in oltre 30.000 immagini, condivise tramite i social media e la televisione, ma anche articoli, giornali e la radio. Harris ha così raggiunto oltre 70 milioni di persone arrivando a ispirare addirittura una serie televisiva, Family Pictures USA. Da qualche anno insegna all’Università di Yale come Senior Lecturer in African American and Film & Media Studies. Con l’aiuto degli studenti, durante i suoi corsi su Family Narratives/Cultural Shifts e Archive Aesthetics and Community Storytelling, continua a rivisitare vari archivi e a crearne di nuovi. L’obiettivo è continuare a riscrivere collettivamente la storia degli Stati Uniti. 

    CB: Per essere al centro del cambiamento e sfuggire al rischio di produrre canoni troppo rigidi, esercitando o subendo forme eccessive di controllo, gli archivi devono essere continuamente rivisitati e riattivati. Da questo punto di vista, la pratica del reenactment gioca un ruolo fondamentale nei progetti archivistici degli artisti, specialmente quando ad essere al centro dell’attenzione ci sono testimonianze fragili o linguaggi per loro natura impermanenti. Anche questo è un tema caro ad entrambe che affronti nel libro e di cui mi piacerebbe tu accennassi qui.       

    GG: Il reenactment è una pratica fondamentale per l’attivazione degli archivi, non solo perché permette di tradurre un archivio nel presente, di renderlo a noi presente, quindi di iscrivere anche la nostra presenza nell’archivio, ma anche perché, tramite questi meccanismi, permette cambiamenti sociali, politici ed economici. Basta pensare al valore (o ai valori) dell’uso della documentazione nei musei. È proprio tramite la documentazione che il museo determina, aggiorna e comunica non solo il valore dell’opera ma anche la sua estetica. Il ruolo giocato dall’intangible heritage, cioè, come dici tu, da materiali effimeri, impermanenti, che sopravvivono solo grazie al reenactment, è da questo punto di vista importantissimo. Credo che in realtà il patrimonio culturale, tangibile e intangibile, sia molto dipendente dalle pratiche performative e che il reenactment possa aiutarci a conservare le opere nel tempo. Molte opere digitali possono essere conservate soltanto attraverso il reenactment e la reinterpretazione (reinterpretation). Il reenactment ci dà l’opportunità di far rinascere un’opera. È interessante notare come alcuni musei, tra cui la Tate, non parlino di reenactment ma di attivazione, come se lo stato originario di un’opera non importi più e l’unica cosa che conta sia la possibilità di attivarla in un contesto espositivo.  

    CB: Rispetto allo stoccaggio e all’organizzazione di documenti analogici, le nuove forme di archiviazione digitale permettano forse una gestione più democratica e trasparente di dati, informazioni e memorie. Eppure, con l’intelligenza artificiale, i rischi di sorveglianza e manipolazione di ciò che affidiamo al computer e mettiamo in internet non sono diminuiti, anzi, i fakes e la post-verità sono parte del nostro quotidiano. Una delle sfide più urgenti per le istituzioni culturali è quella di ripensare e riorganizzare i propri archivi e le proprie collezioni, non solo per renderli maggiormente inclusivi, ma anche per salvaguardarne integrità e funzionalità nel passaggio dall’analogico al digitale. Dalla correttezza di questo processo dipendono sia la nostra memoria del passato, sia il nostro lascito per il futuro. Accanto al chiedersi quanto gli archivi digitali siano affidabili sia nel conservare e tramandare, sia nel produrre e rendere accessibili i dati, sono sempre più convinta che bisognerebbe domandarsi a chi affidarne la cura. Nell’epoca dei cosiddetti big data, gli archivi digitali sono, come ricorda un’altra importante pubblicazione uscita di recente, “archivi incerti”6Bonde Thylstrup, N., et al. (a cura di), Uncertain Archives: Critical Keywords for Big Data, MIT Press, Cambridge (MA), 2021.: come possiamo tutelarli? 

    GG: Sono d’accordo. L’automatizzazione e l’avvento dell’intelligenza artificiale sono un grande rischio in un mondo che è sempre più soggetto al cyber-crime e all’interno del quale sta diventando impossibile distinguere tra fakes e documenti “autentici”. In pochissimi sono al corrente del fatto che la maggior parte dei post che troviamo online sono creati da algoritmi. Il problema è che non stiamo gestendo bene il nostro rapporto con internet. Viviamo in carceri elettroniche che fanno sì che vediamo solo notizie create appositamente per noi. Quindi la tua domanda è altamente pertinente, perché questi siti digitali andrebbero studiati, archiviati, curati e, soprattutto, contestualizzati. Purtroppo, moltissime istituzioni culturali non documentano più quello che digitalizzano pensando che basti mettere gli archivi in rete per facilitarne la permanenza. Lo stesso vale per molti musei. Ma la rete non è un sito “affidabile”. La rete è dove le nostre identità (e i nostri archivi) vengono trasformate in big data che permetteranno alle macchine di interpretarci all’interno di quello che ormai comunemente chiamiamo Internet of Things. Per questo, non solo è importantissimo creare nuovi archivi insieme a comunità che sono al momento assenti dalla storia degli archivi, ma è anche importantissimo mantenere gli archivi esistenti. Il nostro è un periodo di grandissima incertezza. Dovremo pertanto iniziare a tutelare gli archivi da un punto di vista pratico, calcolando innanzitutto quali archivi sono a rischio di conflitti, cambiamenti climatici, cyber-crime. E poi collaborare con esperti in vari settori, non solo digitali, per curarne la memoria in modo sostenibile. Solo così in futuro si potranno ancora studiare gli stessi archivi che abbiamo usato noi.

    CB: Designando l’archivio come «oggetto relazionale», nel libro parli anche dell’importanza degli archivi digitali generati in tempo reale da una specifica comunità di utenti, specialmente in occasione di eventi traumatici. Il caso che citi è quello dell’11 settembre (2001), ma possiamo per esempio anche ricordare gli archivi spontanei, contenenti materiali fotografici e audiovisivi, nati in internet un decennio dopo (2010-2012) per documentare, senza pericolo di censura, i moti rivoluzionari delle primavere arabe. Quanto affidabili li reputi come archivi per il futuro? 

    GG: Questi archivi spontanei generati in risposta a un evento sono utilissimi sia dal punto di vista storico, sia da quello archivistico, ma bisogna sempre tener conto che gli archivi non sono mai del tutto affidabili, in quanto dipendono dalle strategie utilizzate dagli individui, dagli enti o dalle organizzazioni archivianti. Detto questo, gli archivi fungono da testimoni, nel senso che offrono documenti e testimonianze. Bisogna però sempre saper leggere il contesto all’interno del quale gli archivi sono stati creati, conservati e anche consultati nel corso del tempo. Importantissimo è quindi prestare attenzione a quello che è assente dagli archivi, le voci che sono state escluse, censurate o annientate. Gli archivi più interessanti non sono statici, ma dinamici, spesso spontanei, talora instabili, per l’appunto “incerti”, proprio perché continuano a emergere e cambiare. È ciò che li rende attivi dal punto di vista epistemologico. La responsabilità di renderli “affidabili” è nostra, nel senso che siamo noi che dobbiamo continuare a mantenerli e lo possiamo fare re-interpretandoli nel corso del tempo. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere archivi da conflitti come quelli dei moti rivoluzionari delle primavere arabe a cui hai fatto riferimento. Questi archivi saranno importantissimi per comprendere la storia del nostro secolo. La questione ora però è chi curerà questi archivi apparsi sulla rete o sui social, chi li conserverà di modo che potranno continuare a dare testimonianza. È urgente che si documentino questi archivi, soprattutto nell’ipotesi che ulteriori conflitti possano distruggere gran parte dei materiali attualmente sulla rete.

     

    Immagine di copertina ph. Catarina Carvalho da Unsplash

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