Biennale Teatro 2023. I luoghi ci determinano

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    C’è stato un momento nella mia vita – una estate di alcuni anni fa – in cui ero ossessionata da due luoghi: il punto più basso e quello più alto attraversato da un essere umano. Una curiosità semplice di altezze e profondità che mi ha tenuta incollata allo schermo, ad esempio, nell’ottobre 2012, per assistere all’impresa del base jumper austriaco Felix Baumgartner con il suo salto dal bordo dello spazio, da un’altezza di oltre 39 chilometri, per una caduta libera di quattro minuti e ventidue secondi.

    Qualche settimana fa, la scomparsa del batiscafo della compagnia Ocean Gate nei fondali dell’Atlantico settentrionale, ha risvegliato in me quella curiosità candida: a quanti metri di profondità inizia il buio dell’abisso? Che tonalità ha la tenebra più tenebra alla quale può accedere l’occhio umano?

    Storie di limiti valicati, esplorazioni oltre l’immaginabile, violazioni di foreste remote, fondali oceanici o vette antartiche, una sete di conoscenza che sembra voler definire, dettagliatamente, una mappatura dell’inquieta danza della solitudine umana, che mira, progetta e infine si disperde nei luoghi attraversati.

    In un momento storico in cui la riflessione sul sempre più compromesso rapporto tra essere umano e natura, è al centro del dibattito pubblico, la cinquantunesima edizione della Biennale Teatro – diretta per il terzo anno consecutivo dagli autori e registi Stefano Ricci e Gianni Forte – ha offerto, con alcuni degli spettacoli in programma, lo spunto per una interessante riflessione sul tema.

    “Le nostre società occidentali hanno basato la loro visione di uno sviluppo senza limiti sull’ideologia aberrante di una presumibile onnipotenza umana di fronte ai supposti elementi che compongono l’universo, omettendo l’essenziale: non siamo di fronte al mondo, ma nel mondo, in una relazione d’interdipendenza” affermano i direttori artistici della rassegna, che quest’anno porta il nome di Emerald. Il verde Emerald, il cui orizzonte simbolico indica la trasformazione, il passaggio a una nuova fase della vita, ma anche la necessità di costruire un futuro eco-sostenibile, aprendo così la strada a una prospettiva globale più radiosa. È in questa cornice di resistenza politica e poetica che la biennale teatro ha portato in scena le altezze e gli abissi, la materia che sprofonda e quella che fuoriesce, la pressione subacquea, l’eruzione vulcanica: protagonista una natura in balìa dell’uomo, che solo all’ultimo momento si ricorda di se stessa e della propria potenza, creativa e distruttiva.

    Leruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull, che nel 2010 irruppe nelle vite di milioni di persone – bloccando i voli di mezza Europa – diventa per  il drammaturgo Stefano Fortin spunto per una accurata riflessione sulla potenza dei sentimenti – non tanto nell’espressione del momento in cui si manifestano – quanto piuttosto nelle loro conseguenze nel tempo.

    La paralisi di un intero continente a seguito dell’eruzione, infatti, non è stata causata dalla materia esplosiva in sé del vulcano, bensì dalla conseguenza di quest’ultima, la cenere e allo stesso modo si muove e procede la rabbia, nelle vesti della sua lacerante natura. Vincitore del bando Biennale College Drammaturgia 2022/2023, “Cenere” è un testo denso di storie e personaggi dove la dimensione personale incontra quella universale. Scandito da un prologo e tre quadri con storie distinte – quella di un figlio chiamato dai genitori a fare colazione, quella di un poliziotto che deve avvertire una coppia di genitori della morte del figlio, quella di una vittima che parla di sé e di ciò che le è accaduto” – “Cenere” si avvale anche della voce dellautore. Una scelta narrativa, quest’ultima, che crea un gradevole contrasto alla temperatura volutamente fredda della scrittura e che offre allo spettatore un commento vivo, “parlante”, rendendolo parte attiva nell’atto teatrale.

    La regia della mise en lecture – firmata da Giorgina Pi – è ridotta all’essenziale, come un limpido recipiente che serve unicamente a mettere in risalto il contenuto e sostenuta dal valido ambiente sonoro a cura di Valerio Vigliar e dalla interpretazione degli attori Sylvia De Fanti, Giampiero Judica, Francesco La Mantia, Valentino Mannias, Alessandro Riceci, Giulia Weber.

    “E di quando in quando arrivano certe mattine simili al primo giorno del creato…[] Come quando ti sorprendi a guardare nelle acque basse della spiaggia e scorgi sul fondo dell’acqua tralucente i ciottoli rotondi, marrone, gialli, rosa, placidi, ordinati, come se mai li avesse battuti la furia dell’acqua e del vento. E allora osservi che la profondità è altezza – e non anneghi”.

    In questi versi di Ghiannis Ritsos, (dal poema “Le vecchie e il mare”, Edizioni Mesogea), il rovesciamento di prospettiva – negli occhi di chi guarda il fondo – prende addirittura le sembianze di una vetta e sprofonda nella vertigine, una dimensione che difficilmente verrebbe da associare alle oscure lande dei fondali marini. Nella vertigine si muove “En Abyme”, il testo di Tolja Djokovic,  vincitrice del premio autori under 40 della Biennale, per la regia di Fabiana Iacozzilli. Un canto continuo in cui immagini, azioni, ambienti e suoni portano lo spettatore nella più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo, la Fossa delle Marianne. È qui che nel 2012 è avvenuto il record di immersione, raggiunto dal regista James Cameron, che ha ripreso in video quel paesaggio fino ad allora inedito.

    “Della Zona adopelagica fa parte il Challenger Deep, depressione che sfida, la località più profonda della Terra. Si trova alle coordinate 11 gradi, 19 minuti e 7 secondi Nord, 142 gradi, 15 minuti e 23 secondi Est, è a circa 320 chilometri a sud-ovest del territorio abitato più vicino, lisola di Guam, e giace a una profondità di circa 11.033 metri sotto la superficie del mare. Se lEverest, la montagna più alta del pianeta, venisse appoggiata sul fondale, la sua vetta si troverebbe comunque ricoperta da 2.000 metri dacqua”.

    Davanti a un telo bianco, si alternano un padre e una figlia – ora bambina, ora adulta – alle cui azioni quotidiane si intersecano le parole di Marianne, voce – corpo che scandaglia altre profondità e le visioni dell’occhio di una telecamera, o quello dellabisso che ri-guarda indietro, mentre sullo sfondo, un documentario illustra la storia della scoperta della Fossa delle Marianne e i tentativi di discesa fino alla missione di Cameron. Dal telo emergono memorie del passato che accompagnano lo spettatore verso una discesa in  un baratro senza fondo e che sembrano ricordare come l’abisso, dopotutto, sia una presenza costante nella vita di ognuno di noi. Ottime le interpretazioni di Simone Barraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni ed Evelina Rosselli.

    Dentro il lungo e articolato dialogo tra uomo e natura di questa cinquantunesima edizione, non può che esserci lei stessa, la città isola che ospita la Biennale, sorretta da un fondale di pali di legno e argille durissime, irreversibilmente intrecciati.

    I luoghi di questa edizione sono stati sicuramente protagonisti d’eccezione. Su tutti, l’Arsenale, utilizzato per la prima volta come location nella parte delle Corderie nel 1980, in occasione della prima Mostra Internazionale di Architettura, curata da Paolo Portoghesi.

    Si tratta del più vasto centro produttivo d’epoca preindustriale, esteso su un’area di quarantasei ettari, un luogo importante per Venezia, non solo perché in questo complesso di cantieri, officine e depositi si costruivano le flotte della Serenissima, ma anche perché ne era il simbolo della potenza economica, politica e militare. Questa parte di città è rimasta a lungo nascosta agli occhi dei suoi stessi cittadini: negli anni, grazie all’impegno congiunto della Biennale, della Marina Militare e dei Ministeri competenti è diventata parte della rassegna, svelando alcuni scorci bellissimi, tra cui il Giardino delle Vergini, una maestosa area verde che si apre oltre le Tese, e le Gaggiandre, due grandiosi cantieri acquatici costruiti tra il 1568 e il 1573 su progetto attribuito a Jacopo Sansovino.

    Arrivo nel Sestiere di Cannaregio nel tardo pomeriggio, in una giornata piena di vento. Qui c’è un altro set notevole di questa edizione: la Scuola Grande della Misericordia – nei pressi delle omonime Fondamenta – la cui sede fu costruita nel 1310 e acquisita nel 1914 dalla società sportiva Reyer. L’immenso salone di questo edificio storico – dal 1941 al 1974 – fu un campo da basket, un dato che mi turba per qualche secondo, considerata la magnificenza delle pareti affrescate, i soffitti altissimi e l’aria solenne che si respira ancora oggi nel perimetro di quello spazio. Quando entro, insieme al resto del pubblico, la stanza è inondata di luce e vuota, o meglio, priva di mobilio e sedute: al centro, infatti, c’è una donna con lunghi capelli neri, un soprabito e un ramo d’albero alla cui estremità inferiore è infilata una scarpa. Ana Lucia Barbosa è la protagonista di “Domani”, l’azione performativa ideata e diretta da Romeo Castellucci. Non avendo un posto assegnato, il pubblico brancola al seguito dell’attrice, che per trenta minuti si muove nella stanza con l’andatura di una non vedente. Quando il bastone tocca le pareti ne scaturisce un boato di volta in volta più fragoroso, come l’avvicinarsi di un temporale (le musiche sono firmate da Scott Gibbons, l’artista americano che da sempre riveste con le sue inquietudini sonore i lavori di Castellucci).

    Un lavoro che il regista ha definito “un emblema”: “Immagini dipinte che non hanno bisogno di essere dette, bensì ‘vistedomani questo produce: segni che, attraverso un gioco di rimandi, esprimono attivamente dei contenuti, ovvero significano altro da sé”.

    L’immagine che mi ha accompagnata in quel pomeriggio è stata la sorprendente relazione tra Barbosa e il suo palcoscenico: una donna la cui imponente fisicità – che sembrava crescere, espandersi durante l’esibizione – al primo sguardo, appena entrati nel salone, è apparsa incredibilmente ridimensionata, quasi piccola e spaurita, dalla maestosità di ciò che la circondava. Quanto i luoghi ci determinano.

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