Pubblichiamo oggi il secondo intervento (qui il primo) di una serie – Le parole del biologico – pensata e realizzata insieme alla collaborazione e al contributo di Alce Nero.
Ci sono toccati, come a tutti, tempi apocalittici in cui vivere. Quello che fa la differenza è il modo in cui si reagisce: c’è chi fa finta di niente anzi rifiuta il problema come i negazionisti climatici; c’è chi al contrario è talmente paralizzato dall’inconcepibilità di questo iperoggetto che è il climate change, che si rassegna alla distopia e finisce per arrivare allo stesso risultato: la stasi. E poi c’è chi ci prova: a tentoni, cercando di immaginare soluzioni nuove, di mettere insieme cose che non dovrebbero, come lavoro e cibo, tempo libero e riposo.
Per esempio Kilowatt, una cooperativa di Bologna che opera nei mondi dell’innovazione sociale, della formazione, della comunicazione e della creatività, della rigenerazione urbana e della sostenibilità. Abitare la Terra vuol dire portare i principi della terra dentro quel che terra non è: il contesto urbano. La sostenibilità ambientale, che in agricoltura è il fondamento del biologico, si traduce nelle città in riuso e rigenerazione. Nessuna meraviglia quindi che Kilowatt sia molte cose insieme: ristorante e coworking, agenzia e luogo aperto.
Ne abbiamo parlato con una dei soci fondatori, Nicoletta Tranquillo, chiedendole di spiegarci meglio chi sono e cosa fanno. “Kilowatt è una cooperativa di lavoro nata nel 2014 e composta da diverse anime. Siamo nati con l’idea di creare un luogo per chi crede che vita, lavoro e tempo libero possano trovare una sintesi dinamica e piacevole, incentrata sulle relazioni, il rispetto e la bellezza.
Questo posto sono Le Serre dei Giardini Margherita, a Bologna, uno spazio pubblico abbandonato che abbiamo avuto in concessione dal Comune grazie a un bando e che abbiamo rigenerato per restituirlo alla città, arricchito da un’ampia offerta culturale, progetti formativi e attività accomunate da una visione di sostenibilità e collaborazione. Un luogo di confronto culturale e di contaminazione, uno spazio relazionale che permette alle persone di mettersi in gioco e dare vita a stimolanti collaborazioni professionali, aperto a chiunque abbia idee e progetti che vogliono generare un impatto sociale e ambientale”.
Da dove viene questo nome “energetico” e qual è il suo senso?
Il nome nasce da un altro spazio abbandonato che necessitava di essere rigenerato, che avevamo identificato e che guarda caso si trova a pochi passi dalle Serre, una ex cabina dell’ENEL. Quello spazio poi non siamo riusciti ad ottenerlo, ma il nome é rimasto parte di noi. Il nostro approccio infatti mette sempre al centro le persone e la cura dei rapporti, per sprigionare quell’energia creativa che favorisce percorsi di sperimentazione incentrati sul benessere.
Sostenibile, naturale, km 0, biologico: sono i principi a cui è ispirato lo spazio destinato alla gastronomia, Vetro. Ma spesso quello che è rispettoso delle risorse ambientali lo è meno del portafoglio degli acquirenti: in pratica il biologico e la qualità costano di più. Pur consapevoli che sia un passaggio necessario, come si può evitare che questa diventi una discriminazione elitista?
Penso tre cose: la prima è che va riaffermato il valore del cibo, e quindi il suo giusto prezzo. Su questo bisogna fare tanta educazione e sensibilizzare le persone. La seconda cosa è che vivendo in una società di mercato se le domanda aumentasse anche i prezzi si ridurrebbero (ed é quello a cui abbiamo assistito anche nel biologico negli ultimi anni), dobbiamo solo essere sempre di più a fare queste scelte. La terza cosa è che un terzo del cibo viene sprecato, quindi potremmo ridurre i costi della spesa comprando solo le cose che ci servono, ma di qualità. Senza parlare di tutti i costi occulti del mangiare cibi non sani, come per esempio i costi sanitari, che sono costi di medio-lungo periodo che comunque pagheremo.
Le Serre è uno spazio pubblico abbandonato e da voi rigenerato. Il principio del riuso/riciclo, di cui si parla tanto oggi come uno dei pilastri per ridurre le emissioni, vale non solo per i piccoli oggetti ma anche per gli edifici e le altre costruzioni, case uffici e luoghi pubblici? Come può essere applicato il risparmio all’abitare in questo senso?
Certamente l’Italia è piena di spazi abbandonati che potrebbero avere una nuova vita evitando nuove costruzioni e nuova cementificazione, con tutti i benefici ambientali che seguono. È però un processo che ad oggi è limitato molto prima di tutto dalle istituzioni pubbliche, dai comuni alla Soprintendenza, che rendono i processi complessi, lunghissimi e molto costosi, quando non addirittura impossibili. La società è pronta e lo desidera, ma le istituzioni hanno la palla in mano.
Ad alcuni (e io sono tra questi) piace pensare che la catastrofe climatica sia un problema innanzitutto politico, e che è inutile addossare la colpa ai cittadini singoli quando dovrebbero muoversi le nazioni e le aziende multinazionali. D’altra parte però secondo molti studi la maggior parte dello spreco di energie viene da edifici privati: si pensi alla dispersione di calore in inverno, per esempio, quando si sparano i riscaldamenti al massimo con le finestre aperte o che lasciano passare aria. Quanto è possibile e come si fa a rendere il risparmio (economico) dei singoli risparmio (ambientale) a vantaggio della collettività?
Noi a Kilowatt crediamo che sia necessario, in questa sfida climatica, ingaggiare tutti, partendo dai cittadini, che alla fine sono acquirenti, votanti, soggetti che con le loro scelte determinano i cambiamenti. Stiamo lavorando molto in questi anni sulla costruzioni di un nuovo immaginario legato alla sostenibilità e al potere delle persone, che sia capace di ingaggiare le persone e farle agire, giornalmente, per cambiare le cose. La comunicazione del cambiamento climatico purtroppo è caratterizzata da immagini distopiche che immobilizzano, ti lasciano inerme e terrorizzata, e questa è una forma di potere egemonico che fa parte del sistema che ha creato il problema. Siamo in un momento storico in cui, per dirla con Mark Fisher, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Per cui se non ci impegniamo a creare un nuovo immaginario di futuro, di progresso, di benessere che sia raggiungibile e desiderabile, in cui identificarsi e verso cui andare, allora sì che siamo nei guai!
Nei servizi che offrite ricorrono le parole impatto, efficienza, sostenibilità. Posto che un uso accorto e limitato delle risorse è il futuro, cosa ne pensa della decrescita felice da alcuni è indicata come soluzione? Consumare meno, risparmiare di più, in casa e fuori, è un’utopia o un dovere?
A me non piace nemmeno un po’ come espressione, a proposito di immaginario, non lo considero un immaginario desiderabile per nessuno, nonostante dietro ci stiano valutazioni corrette e condivisibili.