Una delle mie maestre delle elementari diceva che ero socievole e brillante ma indisciplinata. Era vero: se non ero d’accordo, interrompevo la lezione e mi alzavo per discuterne. “Perché Bologna è detta La Rossa?”. E chi aveva letto il sussidiario: “per i suoi tetti rossi!”. Ma io sapevo la verità, perché mia mamma, che era nipote di un anarchico della Lunigiana e parlava l’Italiano con accento argentino, ed il mio papà materialista storico, mi spiegavano che Bologna è la rossa perché comunista. Ed i comunisti sono brave persone che vogliono che tutti stiano bene. Io visualizzavo i negletti e gli sfruttati come gli indigeni delle incisioni dell’artista ecuadoriano Oswaldo Guayasamin (arrivate in casa come parte di una collezione dalla galleria di mio nonno, la Due Mondi di Roma, aperta al suo ritorno dall’Argentina): gli occhi grandi, le mani grandi, ripiegati su sé stessi. Poiché tenevo a far sapere alla maestra che su Bologna lei ed il sussidiario sbagliavano, come molte altre volte finii dietro la lavagna. A me non dispiaceva: potevo finalmente immaginare senza essere distratta da interrogazioni, compiti o spiegazioni. Però poi mi dicevano che le bambine non si comportano così, ed era una bella noia. Come del resto era una bella noia tutta la scuola: materie divise, lavoro individuale, ripetere i libri senza sentire il sangue nelle vene, la disciplina.
L’unico corso che mi piaceva al liceo era Storia dell’Arte; il professore parlava romanesco, prendeva in giro tutti e fumava il sigaro. Era fotografo e veniva a scuola con la sua reflex per insegnarci la profondità di campo ed i tempi dell’otturatore. Spiegava l’Analitica del Bello affermando che Carol Alt non gli piaceva e sua moglie sì. Ci mandava a guardare le opere della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e grazie a lui ho visto la Trilogia di Apu, del regista indiano Satyajit Ray, insieme a Truffaut e Tarkovsky. Ed ho capito che le chiese di Roma non sono alte per stare più vicine a Dio (come alcuni miei compagni di classe Scout dicevano), ma perché erano state costruite per incutere timore e soggezione.
L’ingresso all’Università ha messo fine a 13 anni di noia mortale, nonostante a Lettere gli esami si misurassero in centimetri di libri impilati: non era certo il prototipo dell’educazione empatica e creativa, ma amavo ascoltare i professori “leggere” immagini di opere, proiettate sulla parete della classe buia, mettendo in gioco musicisti, scienziati, filosofi, poeti. Durante le lezioni di Filosofia del Linguaggio, De Mauro ci spingeva ad essere meno scolaretti e leggere i giornali. Imparai così a mettere insieme ambiti disciplinari diversi e dare un nome alla mia curiosità: saper stare al mondo. Invece di Vasari e Panofsky (che leggevano i miei compagni di studi schifando le mie letture Cyberpunk), avevo spesso in mano un quotidiano e studiavo antropologia, cinema, architettura. Ed ascoltavo la radio.
In particolare ascoltavo e frequentavo Radio Onda Rossa, che era libera, autoprodotta e trasmetteva il Martedì Autogestito Femminista. Sentir parlare le donne delle donne e per le donne mi faceva un gran bene e mi fece osservare un fatto assai bizzarro: la maggior parte dei miei professori erano donne che parlavano di uomini (autori, artisti, filosofi). Non citavano Carla Lonzi, della quale invece le femministe parlavano e come. Mi parlava del nostro piacere, diceva che bisogna dominare gli eventi della vita ed essere costruttrici della propria storia ed era critica d’arte.
Io per certo volevo autodeterminare le mie scelte e fare della mia vita un percorso significante. E se Vasari e Panofsky non li ho saputi convergere nella mia formazione umana, quelli dell’Internazionale Situazionista, che facevano cose davvero divertenti, le chiamavano “Superamento dell’Estetica” e poi si occupavano anche delle guerre di liberazione decoloniale, erano più nelle mie corde. Avevano messo a fuoco i punti di crisi della società, volevano stravolgerla a partire dalla vita quotidiana e si prendevano gioco delle cose seriose.
Quando mi accorsi che alcuni coetanei che frequentavano gli stessi spazi sociali che frequentavo io si facevano tutti chiamare Luther Blisset, improvvisavano feste sui tram romani e avevano un programma su Radio Città Futura nel quale trasmettevano dal vivo le loro derive psicogeografiche (ne ricordo una dalle montagne russe del Luna Park dell’EUR), capii che l’arte contemporanea faceva per me ed era un territorio di esperienze. Quelle che Stewart Home chiama “movimenti utopici” in un libro degli anni Novanta: Assalto alla Cultura, tracciando una storia leggera ma partecipata di artisti, che dal Surrealismo in poi, abbandonarono le gallerie per rivoltare le cose intorno a sé. L’Arte era una modalità di essere e di guardare il mondo. Una attitudine, non una concatenazione di procedimenti da applicare per produrre l’oggetto perfetto per il salotto di un palazzinaro.
Avevo così conciliato il mio percorso di studi con i compagni di strada con i quali nel frattempo stavo crescendo: Indymedia, NGVision, Dadaciclo, Sexy Shock, gli Hackmeetings e tutta quella umanità che si era appropriata del digitale e di Internet per costruire comunità, condividere conoscenza, rivedere i modelli di produzione, revisione, distribuzione di idee e contenuti I miei compagni di strada erano a loro volta collegati a networks di altri compagni di strada, che pensavano ed agivano nello stesso modo a Buenos Aires, in Messico, a Delhi e Johannesburg.
Il mondo dell’arte era nel frattempo diventato globale. E sensazionale. La mostra Sensation (1997) di Londra, costruita sulla collezione di opere fatte per épater les bourgeoises dell’imprenditore e magnate della comunicazione britannico Saatchi, rese evidente che l’arte è un oggetto di transazione economica neoliberista. “L’economia dell’arte assomiglia molto all’economia del libero capitale” dice Julian Stallabrass nel suo – mai tradotto in Italia – Art Incorporated, e continua: gli artisti sono soggiogati dalle pressioni del mercato e non più i sovvertitori delle Avanguardie.
Osservavo questo nuovo mondo, incarnato da libri della Taschen come Art Now, dalle riviste “Flash Art” e “Frieze”, con non pochi dubbi. Lavoravo in un museo senza collezione e pieno di libertà (il MLAC della Sapienza di Roma), dove progettavamo mostre site-specific e praticavamo il curating come sintesi di idea e prassi. Facevo parte del board di “Digicult”, e“Luxflux”, l’allora rivista del MLAC. Facevo editing di libri, scrivevo progetti per finanziare mostre, curavo il sito del museo e della rivista, facevo lezione di Storia dell’Arte Contemporanea. E sopravvivevo lavorando per una agenzia di stampa, perché l’università era più un lusso che un lavoro. Ma ero più interessata alle vicende dei brevetti sul riso Basmati in India e sul mais in Messico.
Leggevo Vandana Shiva piuttosto che Hans Ulrich Obrist, evitavo le mostre delle gallerie o fondazioni romane e l’unico piacere estetico che provavo proveniva dall’allora emergente scena dell’arte digitale. Attivismo a parte, soprattutto da quell’area al confine tra immagine e suono, che ha caratterizzato la metamorfosi di parte della club culture in audiovisivo live ed immersivo, che vedevo ai festivals Transmediale di Berlino, Sonar di Barcellona, Dissonanze di Roma, Sonic Acts di Amsterdam.
Il dottorato in Storia dell’Arte mi spingeva intanto guardare altrove, recuperando una necessità che avevo appena intuito molti anni prima alla UNAM-Universidad Nacional Autonoma de México, studiando i Murales messicani. La lente terzomondista della Biennale de l’Avana e la ricerca sull’Africa in un successivo periodo di studi all’Africana Studies Center della Cornell University, mi dotarono di un vocabolario: alterità, globalizzazione, eurocentrismo, esotismo, modernismo, razzismo, colonialismo, imperialismo, modernità comparate. Avevo imparato l’accezione provinciale della parola “internazionale”, che in Occidente estendiamo all’Occidente. Avevo capito la portata non solo teorica degli studi postcoloniali (anche se, quando il mio co-direttore di tesi della Cornell, Salah M. Hassan, mi assegnò l’Autobiografia di Malcolm X per capire l’Africa e la sua diaspora, l’accademismo di Bhabha, Spivak ed Appaduraj mi apparirono improvvisamente privi di vita).
La conclusione della tesi in una Università Ivy League ed i viaggi per visitare mostre, artisti e biennali in Africa e America Latina, mi avevano trasformata. Tornai da quell’esperienza totalmente incapace di riprendere la vita di prima e lasciai Roma, dove mi mancava un contesto con il quale dialogare, oltre alle biblioteche sconfinate degli Stati Uniti e l’essere trattata da adulta in ambito universitario. E soprattutto mi mancava la sovrapposizione tra arte e vita che invece avevo sentito così forte a l’Avana, Buenos Aires, Bogotà, Santiago, Dakar, Cairo, o Johannesburg.
Amaury Pacheco di Omni Zonafranca che ogni mercoledì girava per il centro de L’Avana con un ombrello aperto, camminando all’indietro e recitando poesie. Unathi Sigenu che uscito da un carcere di Cape Town ha fondato Gugulective, un collettivo di artisti attivo a Gugulethu, la township in cui era nato. Vanessa e Carlos di Systema Solar, che aprono un media center tra gli indigeni nella selva della Sierra Nevada in Colombia. Alexandra Gelis, queer e punk, che insegna ai tossici e pusher delle periferie di Bogotà ad autonarrarsi con l’audiovisivo. Joe Ouakam che dagli anni Ottanta attraversa le strade di Dakar facendo il matto. René Francisco che invece di fare lezione, per tre anni trasforma la sua classe della ISA a L’Avana in un collettivo di artisti, che pensano e producono all’unisono. Tania Brughiera che costruisce a New York un partito politico di immigrati. Sammy Baloji che costruisce una organizzazione a Lubumbashi dove l’educazione all’arte diventa motore di emancipazione sociale e decoloniale.
Il mio legame con l’Africa e l’America Latina passa per decine di visionari con i quali ho avuto la fortuna immensa di perdermi, imparare, condividere tempo, vita, idee, immaginazione e progetti. Con loro ho imparato la bellezza delle poetiche della vita quotidiana. Quelle cose effimere, minime, che hanno senso nel momento in cui sono percepite da una comunità e poi svaniscono. Senza questi incontri non avrei montato Alamar Express Lab, il media center ad Alamar, periferia de L’Avana, insieme all’Associazione Inventati di Firenze. O non avrei messo in piedi Khartoum Art Lab, una serie di residenze di artisti africani a Khartoum che in un mese ideavano nuove forme d’arte con un gruppo di artisti locali. E non sarei finita due anni ad insegnare l’arte come motore di cambiamento sociale all’Università di Addis Ababa.
Qualche tempo fa, l’artista nigeriano Moyo Okediji mi ha chiamata “new leftist” dopo aver ascoltata una mia lezione. Sorrido, ma non credo che questa categoria anglosassone basti a racchiudere l’esperienza peculiare di chi si è formata in italia, tra cultura umanista, politica, controcultura ed aspirazioni internazionaliste, vivendo la sintesi di teoria e prassi che si impara anche prendendo un autobus. Ritornando in Italia – ed a Roma – dopo un decennio all’estero, ho trovata una città schiantata ma anche un territorio in cui, nonostante corruzione, malafede ed impreparazione della classe dirigente, ci sono persone che riescono a costruire piccole cose che cambiano la parte di umanità alla quale si rivolgono. Una forza che il neoliberismo violento ha rasato al suolo in altri paesi Europei, normalizzandoli. Qui si anima nonostante la volontà politica di farla sparire e la mancanza di visione delle istituzioni, ma credo che su questa peculiarità dovremmo lavorare.