Come ogni avventura che si rispetti, anche la nostra ha un prologo. In questo caso, potremmo raccontarlo così:
“tanto tempo fa, in un paese lontano lontano c’era una scuola, nata da una profonda crisi dovuta agli effetti di quella che chiamavano ‘rivoluzione industriale’. Questa scuola, nata dall’intuizione di un architetto, voleva mettere assieme gli istituti tecnici, le scuole d’arte e la facoltà di progettazione architettonica, con l’idea che, attraverso la contaminazione di questi mondi, avrebbe potuto contribuire allo sviluppo di nuove professioni, capaci — in quel periodo così turbolento — di rispondere alle nascenti necessità del nuovo mondo industriale. Fu così che nacque, all’inizio del secolo scorso, in Germania, la Bauhaus”.
Quando ero piccola mio padre lanciò una granata lacrimogena in casa, per vedere l’effetto che fa. — Carlotta Latessa (FF3300)
La nostra storia inizia nel 2013, con il laboratorio di ricerca e co-progettazione “X — Una variabile in cerca d’identità” svoltosi a Castrignano de’ Greci e progettato da FF3300 (Alessandro Tartaglia, Nicolò Loprieno e Carlotta Latessa) attraverso il bando “Laboratori dal Basso” dell’ARTI (Agenzia Regionale Tecnologia e Innovazione).
Il laboratorio prevedeva 12 docenti e 8 tutor, con 40 studenti, per 15 giorni, dalla mattina alla sera assieme a lavorare a progetti di ricerca nell’ambito del design generativo e parametrico. Tra le caratteristiche più interessanti di questa esperienza c’era la multidisciplinarietà, sia tra i docenti e i tutor che tra i partecipanti.
“Da piccolo non prendevo sonno se non avevo accanto al cuscino il trapano elettrico di mio padre”. — Alessandro Balena
Lo staff di X comprendeva anche Alessandro Balena (videomaker che grazie ad X ha incontrato il mondo della progettazione e del making) e Lucilla Fiorentino (che stava per trasferirsi a Londra). Il loro incontro con X è stato iniziatico e ha aperto la strada a XYLAB l’anno successivo.
Se è vero che mai prima c’era stato nulla di simile a X, immaginate cosa sia stato realizzare XYLAB. Il numero dei docenti è salito a 20, i tutor erano 8, i partecipanti 66. Entrambi i laboratori si sono svolti nello stesso castello, contemporaneamente, per la durata di 15 giorni.
Assieme abbiamo costruito una strategia e un’identità, comuni a entrambi i laboratori, incentrate sulla condivisione degli strumenti e delle possibilità, per generarne di nuove. Abbiamo provato ad alzare l’asticella e molta gente ha iniziato a percepirlo.
Con questa seconda esperienza abbiamo potuto “stressare la nostra idea” di metodo didattico, sottoponendola a ulteriori sollecitazioni e contaminazioni.
“Sono nata e vivo a Bari. Spesso ho la sensazione di essere un ‘pesce fuor d’acqua’”. — Lucilla Fiorentino
Contestualmente XYLAB è stata l’occasione per incontrare e conoscere nuove persone, in particolare l’associazione Barimakers (attraverso Aurelio Carella), con la quale è iniziata una fase di dialogo e di elaborazione: avevamo obiettivi e interessi comuni, oltre a aver anche essi organizzato e tenuto eventi, laboratori e workshop per diffondere la cultura Maker (tra cui i 2 makers meeting tenutisi a Bari nel 2014 e nel 2015). Fu così che pur trattando due ambiti differenti (design noi, ingegneria molti di loro), ci siamo “riconosciuti” reciprocamente e abbiamo iniziato a collaborare.
“Lì, nel cuore della Grecìa Salentina, ho trovato ciò che credevo di poter trovare solo all’estero: un contesto orizzontale, collaborativo, in cui ricerca e didattica nascono dalla contaminazione di idee, esperienze e saperi diversi e dove il prodotto finale non ha solo una forma ma anche un’anima. Una possibilità per produrre realmente innovazione. Un’epifania”. — Lucilla Fiorentino
L’anno dopo in Puglia si tennero le elezioni regionali, questo ha prodotto una serie di “mutamenti”, ad esempio l’iniziativa di “Laboratori dal Basso” è stata sospesa.
In questo periodo abbiamo avuto modo, grazie ad Alberto de Leo, un vecchio amico, di conoscere un imprenditore che diceva di voler investire in start-up innovative. Inizialmente sembrava un’offerta interessante, poi avanzo la richiesta del 51% e dell’amministrazione per 3 anni. A quel punto fu chiaro che non era così interessante, visti i principi sociali e i valori di libertà e non-linearità che ci animano. Da quel momento, comunque, Alberto è nella ciurma.
A un certo punto ho capito che contribuire a migliorare davvero il mondo mi fa stare bene — Alberto de Leo
Abbiamo quindi compreso che dovevamo rielaborare il progetto, in modo che fosse sostenibile nel tempo, e nella città dove viviamo, Bari. In questo momento avevamo le idee chiare su cosa volessimo fare, ma non avevamo ancora capito come.
Nel 2015 è iniziato un lavoro di “formalizzazione dell’idea”, questo ha impiegato alcuni mesi, fino a quando, stimolati dall’uscita del bando cheFare, abbiamo deciso di provare a “mettere in pratica” ciò a cui stavamo lavorando. Durante questi mesi abbiamo investito sulla costruzione di relazioni e sulla mappatura delle realtà che ci interessavano sul territorio (su tre scale: locale, nazionale, internazionale). La sensazione era quella di sospensione, una calma ovattata e inquietante.
“Sognavo di aprire un fablab a Bari, per dare sfogo ai nostri interessi riguardanti il mondo della manifattura digitale e della stampa 3D. Un giorno, l’assessore alla Cultura Silvio Maselli ci consiglia di fare due chiacchiere con Alessandro Tartaglia e Alessandro Balena, che stavano lavorando a “qualcosa che avrebbe potuto intrigarci”. — Agostino Pellegrino (3dNEST)
Intanto il gruppo cresceva, attraverso un link creato dall’assessore alla Cultura del comune di Bari, Silvio Maselli, avevamo conosciuto 3dNest, un gruppo di ragazzi (Agostino Pellegrino, Roberto Ladisa e Roberto Rinaldi) che si occupano di manifattura 3d. Bevendo alcune birre, invece, avevamo conosciuto Maurizio di Luzio, scenografo e rappresentante degli studenti all’Accademia delle Belle Arti di Bari.
Poco più tardi è arrivato Giancarlo Ostuni.
Ho girato per 5 anni il mondo lavorando nell’ambito delle no-profit, dopo una laurea in economia. Un giorno, mentre leggevo i dati del rapporto SVIMEZ sul Sud Italia (pensando intimamente a quanto avrei voluto tornare a casa) noto un commento in fondo all’articolo: era un post di un gruppo che voleva fondare una “Scuola Open Source” a Bari. Di lì a poco sarebbero diventati i miei soci, ma io non lo sapevo ancora. — Giancarlo Ostuni
Studi economici alle spalle, in giro per il mondo da 5 anni, attivo nel campo del volontariato internazionale, che decide di tornare a vivere in Puglia, dopo aver letto del progetto.
Ci raggiunge a Bari. Ci incontrammo al “El Chiringuito” e fu un colpo di fulmine.
Fu una di quelle sere, in riva al mare, verso le 18, mentre chiacchieravamo, Lucilla Fiorentino ebbe un’intuizione che diede a tutto una grande accellerata. Individuo con chirurgica precisione il nome che sintetizzava quanto volevamo significare: “La Scuola Open Source”.
Un Istituto Didattico, Centro di Ricerca e Consulenza Artistica e Tecnologica, per l’Industria, il Commercio e l’Artigianato (digitale e non), o in altre parole, una comunità di artigiani digitali, maker, artisti, designer, programmatori, pirati, progettisti, sognatori e innovatori che agiscono assieme, sperimentando nuovi modelli e pratiche di ricerca, didattica e comunità.
Nasce per accogliere persone, idee e progetti per condividere spazio, conoscenza e valori; questo genera osmosi di esperienze e competenze, aumentando il valore dei singoli attori che prendono parte al processo.
Finalmente non navigavamo più nell’indefinito, stavamo vedendo terra.
Decidemmo di partecipare a cheFare.
→ Qui l’abstract dell’idea inviata.
→ Qui il Business model inviato.
→ Qui le slide del pitch finale.
Una volta inviata la candidatura, abbiamo messo online il documento con il progetto, aperto e commentabile. Così abbiamo iniziato a raccogliere feedback attraverso la rete.
Affinché non si possa più dire “me ne vado dal Sud perché qui non c’è niente”. — Chiara Carulli (Barimakers)
Intanto avevamo passato la prima fase del bando e c’era da organizzare una campagna che sarebbe durata 2 mesi. Però, per fortuna, su questo eravamo preparati.
All’inizio della campagna ci rendemmo conto che cheFare non forniva una “classifica” o delle statistiche sull’andamento dei progetti, per evitare la comparazione. Grazie all’aiuto di persone all’interno della nostra rete (e in particolare di Danilo di Cuia), ci costruimmo gli strumenti che ci servivano per monitorare l’andamento della campagna. Dopo pochi giorni dall’inizio della gara, li pubblicammo online mettendoli a disposizione di tutti, quando avremmo invece potuto usarli in modo esclusivo, evitando di semplificare la vita anche agli altri.
L’idea era che per essere più forti dovevamo essere coerenti.
Incarnare il nostro messaggio. E il nostro messaggio è “la conoscenza va condivisa”, la speculazione sull’ignoranza degli altri proprio non ci piace.
Immagine di copertina: Lucilla Fiorentino all’ISIA di Firenze durante il tour per la campagna di cheFare