Negli ultimi giorni, in uno stato di comprensibile allarme per l’emergenza virale con cui l’Italia sta facendo i conti – quella del Covid-19 – su molti quotidiani si è letto di «giovani irresponsabili» che non rinunciano alla «movida», sprezzanti del contagio e delle nuove norme di sicurezza sanitaria proclamate dal governo su scala nazionale. Condannati all’unanimità dai giornalisti, i “giovani” sono apparsi dalle prime pagine una sorta di comunità a sé stante, auto-generata, colpevole di un radicato disinteresse per il contesto sociale di cui, invece, sarebbe parte integrante.
Non è un caso che un film come Joker di Todd Phillips, scritto con Scott Silver, abbia vinto negli ultimi sei mesi due Golden Globe, due Oscar e il Leone d’oro di Venezia, oltre ad essere stato nominato per altri tredici premi. L’accostamento può sembrare azzardato, ma Joker e quest’emergenza hanno molto più a che spartire di quanto sembri a prima vista.
Guardando Joaquin Phoenix nei panni del protagonista tutti ci siamo infatti trovati davanti a un fantasma ben più spaventoso del controverso personaggio di tradizione DC Comics: un’incarnazione brutale, orribilmente credibile, dell’individualismo forzato in cui le nostre società sono precipitate negli ultimi cinquant’anni, incoraggiando la retorica dell’egoismo legittimo, del cinismo sferzante, della disgregazione dell’istinto di comunità a favore del ‘successo’ personale.
Alle domande degli intervistatori, le persone riunitesi a frotte in Campo de Fiori a Roma le scorse sere hanno risposto che «si ammalano solo gli anziani» e che «a chi tocca nse ’ngrugna». Una risposta di questo tipo a fronte di un’emergenza può avere principalmente due motivi, l’ignoranza e l’egoismo. Da un lato, quindi, la colpa starebbe in un’informazione lacunosa, quando non completamente assente, di cui il singolo cittadino potrebbe essere responsabile con la complicità di un sistema mediatico aggressivo, a tratti confuso e superficiale.
Dall’altro, come scrive Pietro Saitta in un articolo sui meccanismi complessi della comunicazione di questi giorni uscito su lavoroculturale.org, «la crisi delle comunicazioni relative ai rischi per la vita e la sopravvivenza è la crisi dell’autorevolezza delle istituzioni»: le nuove generazioni non sono composte da egoisti deliberatamente capricciosi, quanto piuttosto da persone deprivate del significato sociale dello Stato.
Il punto diventa allora un altro: perché da una società a priorità economica, in cui si è cittadini perché clienti e in cui viene incoraggiata la retorica dell’individualismo in tutti i campi dell’esistenza, ci si aspetta come risultato una cittadinanza unita e piena di senso civico? Come potrebbero generazioni cresciute nel deserto sociale, abituate alla mercificazione dei rapporti umani, improvvisamente dimostrarsi un esercito di paladini della comunità, pronti al ‘sacrificio’ della propria individualità per un bene collettivo?
A ben guardare, il problema non è nemmeno soltanto dei giovani: viene da domandarsi se esista ancora un’idea di cooperazione collettiva, leggendo che la sera stessa in cui è stato emanato il decreto che estendeva la zona rossa a tutta la penisola, padri, madri e nonni si sono accalcati in fila davanti ai supermercati, in barba a una misura di sicurezza che dispone il distanziamento preventivo tra le persone.
D’altro canto, almeno a Roma, le nuove norme di sicurezza stanno in questi giorni dando vita a parossismi degni della miglior commedia all’italiana, con teatri, cinema, musei, ristoranti e perfino negozi chiusi, ma vagoni della metropolitana in cui la distanza di un metro non rimane che un sogno dei viaggiatori, da ben prima dell’emergenza, a causa della situazione disastrosa in cui da molto tempo versano i trasporti pubblici della capitale.
Il comportamento di questi «giovani irresponsabili» appare molto più chiaro – e, sia detto per inciso, non per questo accettabile, o meno grave, o meno triste – se lo si guarda alla luce dei macro-processi che hanno interessato la società e le politiche occidentali dell’ultimo mezzo secolo. Eccoli: sono gli under 35 dei bandi, pura ossessione commerciale, ridotti nel migliore dei casi a ipotetica fucina di idee, nel peggiore a fascia d’acquisto, sempre nel segno rigoroso della produzione e del consumo.
Forse è semplicemente sciocco stupirsi se dopo aver coltivato una generazione di persone isolate, truffate con la normalizzazione della precarietà, allontanate progressivamente dai luoghi di dialogo reale con i poteri, quella generazione non è in grado, nemmeno di fronte a un’emergenza mortale, di auto-responsabilizzarsi in quanto comunità. Si tratta di persone che non si riconoscono più nella comunità: il senso stesso di ‘comunità’ è stato smantellato.
Come scrive Beniamino Piccone, pur traendo conclusioni diverse da queste, su ilSole24ore: «per la maggioranza degli italiani sembra essersi rotto quel patto di fondo che tiene insieme una comunità di persone». Assieme al senso di comunità, svanisce anche il senso di responsabilità verso gli altri e se stessi, e l’educazione come l’etica finiscono per essere affidate esclusivamente alle famiglie, inevitabilmente dipendenti dal retaggio e dalla storia delle persone che le compongono.
In questo scenario diventano rilevanti non soltanto i tagli degli ultimi vent’anni alla sanità pubblica (di cui Rosy Battaglia dà conto qui), ma soprattutto quelli operati al settore culturale, che negli ultimi trent’anni ha visto sbriciolarsi il progetto di un’Italia capace di produrre, rigenerare, incentivare con azioni concrete lo sviluppo della cultura in tutte le sue manifestazioni.
Senza ventilare ipotesi di complottismi anti-coscienza civile si può dire che in Italia, per motivi che richiederebbero uno studio specifico, in molti ambienti si ha nei confronti della ‘cultura’ un atteggiamento che oscilla fra il diffidente, l’annoiato e l’arrogante.
Per far saltare ogni equivoco sulla cultura intesa come rifugio elitario degli intellettuali, basterebbe però tenere presente che «il primo africano e il primo indoeuropeo, che si scambiarono i loro diversi cibi, fecero cultura. Dal che si deduce, contrariamente a chi afferma l’opposto, che con la cultura si mangia eccome, talvolta meglio talvolta peggio ma si mangia», per dirla con Andrea Camilleri. La cultura fabbrica pensiero nuovo. È un prodotto dell’aggregazione e produce aggregazione.
A questo proposito, il caso romano è tristemente esemplare: tutti gli spazi non istituzionali che si costituiscono a centri di aggregazione e di cultura vengono regolarmente sgomberati. Solo negli ultimi cinque anni sono stati ciclicamente minacciati e hanno rischiato di chiudere: Cinema Palazzo a San Lorenzo, Angelo Mai a Terme di Caracalla, Casetta Rossa a Garbatella, la palestra popolare di SCuP a Pontelungo. Ha chiuso 238 Hangar delle arti, e proprio in questi giorni le attiviste di Lucha y Siesta combattono una battaglia per tenere aperto il centro antiviolenza Casa Internazionale delle Donne.
Ognuno di questi progetti e ognuno di questi sgomberi ha una storia diversa, ma una costante li accomuna tutti: i cittadini che ne hanno costruito le identità, provando con pazienza e intelligenza a creare nuovi spazi comuni, si sono visti puntualmente attaccati da quelle istituzioni che avrebbero dovuto, se non finanziarli, quantomeno proteggerne l’operato. Ciò che è peggio, è che non ci siamo stupiti nel vederle agire in questo modo. Parafrasando molto liberamente la Susan Sontag di Sulla fotografia, alla violenza ci si abitua, e corriamo il grande pericolo che la continua esposizione alla brutalità (in primo luogo delle immagini e delle informazioni) cresca generazioni anestetizzate, incapaci di reagire alla realtà.
Alla fine dei conti, guardando all’emergenza del Covid-19, in Italia sembra di veder emergere un problema antico: che tipo di persone cresce un sistema che mette all’ultimo posto il capitale umano, e i cui ingranaggi si muovono soltanto per i grandi numeri e i grandi guadagni? Come possono quelle persone ora, improvvisamente, tirare fuori un senso civico e una cura di cui non sono mai state oggetto?
L’inizio di questo 2020 ci ha proposto sotto più aspetti una situazione mondiale davvero disperata. La buona notizia è che deve essere sembrata disperata anche altrove, in altre epoche, a gente lontana o sepolta, che ha creduto lo stesso che qualcosa potesse cambiare. Così, per ogni cento ‘giovani irresponsabili’, c’è un Circolo Arci Sparwasser che, a poche ore dall’esplosione dell’emergenza, attiva una call per giovani volontari e si organizza per portare la spesa a casa agli anziani del quartiere: pare che al momento ci siano più volontari che persone da assistere.
E per ogni cento persone che si affollano su un treno in preda al panico, c’è un Portierato Sociale che in collaborazione con l’Associazione Centro Solidarietà offre la propria disponibilità a Testaccio per la consegna di spesa, farmaci, richieste mediche. Il Taxi Solidale delle Acli si offre per commissioni nel primo municipio, l’associazione Salvamamme pratica assistenza a domicilio per bambini con patologie pregresse.
La Comunità di Sant’Egidio prosegue la sua attività di tutela dei senzatetto e le librerie Tiburtina Incipit e Coreander effettuano consegne di libri nei quartieri periferici. Intanto a Udine la Onlus Damatrà mette in piedi un progetto di appuntamenti gratuiti per favole raccontate al telefono ma si può chiamare da tutta Italia, e nei palazzi di alcune città sono apparsi avvisi di cittadini che si offrono spontaneamente per un sostegno agli inquilini che per motivi di salute o di età abbiano difficoltà ad uscire di casa.
Forse questo Covid-19 ci sta dando davvero, nella sua dimensione terribile, l’opportunità per intraprendere un clamoroso cambio di rotta. Suggeriva Ezio Manzini, in Politiche del quotidiano, che ancora qualcosa si può fare: dare retta alla capacità di progettazione umana. Usarla diversamente, usarla meglio. Muoversi, una volta per tutte.