La metropoli è sotto accusa al tempo dell’epidemia. Le grandi città, dense e compatte, sono additate come i luoghi della concentrazione dei contagi e della massima diffusione del virus. Dati e immagini hanno mutato il nostro immaginario. Le vicende di Wuhan e poi di New York e Madrid hanno messo in luce il lato oscuro delle grandi conurbazioni.
Nel nostro paese, Milano si è trasformata in poche settimane da città capace di un respiro europeo a luogo infetto da abbandonare al più presto. Il dibattito che ne è risultato ha riportato in auge borghi abbandonati, piccole città e territori che sembravano irrimediabilmente trascurati. Anni di elogio della metropoli aperta, inclusiva e creativa sono stati prontamente accantonati. Influenti voci del dibattito italiano hanno prefigurato una possibile fuga dalla metropoli per ritrovare salute e qualità della vita in contesti di media e bassa densità.
Anni di elogio della metropoli aperta, inclusiva e creativa sono stati prontamente accantonati
Può essere questa la via per rigenerare a piccole città e borghi abbandonati? Lo sviluppo è esito di un processo che valorizza le risorse materiali e immateriali di una comunità. Per anni le scienze sociali hanno segnalato la necessità della partecipazione e della condivisione perché la crescita abbia carattere durevole e sostenibile. Appare poco credibile immaginare oggi la rinascita di luoghi trascurati per effetto di scelte eterodirette e probabilmente destinate a essere contingenti e temporanee.
Ancora, l’ipotesi di una nuova Italia borghigiana e di un revival delle città della provincia elude alcuni aspetti strutturali e non considera le ragioni profonde a fondamento del diverso sviluppo di grandi città e piccoli centri. I dati sullo sviluppo delle città italiane raccontano in modo univoco il processo di concentrazione dello sviluppo nel nostro Paese.
Solo per citare un indicatore di sintesi, i valori immobiliari medi tra il 2012 e il 2019 sono cresciuti a Milano di oltre 25 punti percentuali. Nelle altre città metropolitane sono scesi del 15% in media. Una flessione analoga riguarda le principali città di provincia non capoluogo di regione. La concentrazione della crescita in pochi luoghi segue un modello consolidato a scala internazionale. Le grandi metropoli sono i luoghi che vantano scala e varietà di competenze e risorse, riuniscono conoscenza scientifica e saperi creativi, mettono insieme risorse materiali e immateriali.
Per questo, e non solo in Italia, sono i luoghi della crescita. Le città della provincia italiana non hanno simili economie di scala e di varietà e dunque faticano a trovare la via dello sviluppo. Che l’epidemia in corso possa sancire la fine del processo di concentrazione nelle poche grandi aree metropolitane del Paese appare poco lucido.
Una cosa è rilevare che le misure collettive messe in campo di fronte all’epidemia abbiano evidenziato delle difficoltà. Altro è dire che i processi di concentrazione, legati ai fondamentali dell’economia della conoscenza, trovino una definitiva battuta d’arresto per un fenomeno gravissimo quanto limitato temporalmente.
Per le altre città italiane il punto non consiste nell’aspettare gli improbabili benefici di una implosione delle nostre metropoli. È invece possibile trarre dall’epidemia in corso un’occasione di apprendimento per uno sviluppo originale e alternativo.
In questi mesi gli italiani hanno maturato una riflessione più attenta sul valore di una diversa qualità ambientale. Hanno potuto apprezzare inedite opportunità di lavoro in remoto. Hanno maturato il convincimento che le relazioni di prossimità e solidarietà concorrono in modo determinante alla qualità della vita. Con le loro specificità e loro contraddizioni, le nostre grandi città possono offrire un allineamento omologato alle medie metropoli europee.
Le città medie e piccole possono sperimentare la via della differenza e della specializzazione
Città medie e piccole possono invece sperimentare la via della differenza e della specializzazione, possono seguire direttrici di uno sviluppo diverso e alternativo, attento ai valori dell’ambiente e della solidarietà rivelatisi urgenti durante le settimane del confinamento. Simili alternative non possono essere guidate esclusivamente dalle forze del mercato, altrimenti saremo di nuovo di fronte a dinamiche esterne che trainano uno sviluppo le cui forze motrici stanno altrove. In molti, ad esempio, hanno sentito il richiamo del turismo.
La mercificazione di paesaggi e città è stata spesso la conseguenza di uno sviluppo sbilanciato sul versante delle rendite e poco attento a un’autentica rigenerazione dei luoghi. Risulta più convincente puntare a uno sviluppo che abbia a proprio fondamento una mobilitazione delle comunità, che valorizzi risorse latenti e un capitale sociale inespresso. Alcuni ambiti della vita economica e sociale hanno già dato prova di svolgere un ruolo di guida per un diverso sviluppo delle città piccole e medie: la produzione culturale, la manifattura specializzata e l’artigianato digitale, un’agricoltura emancipata dalle produzioni intensive. Non mancano le opportunità per guardare a un futuro in cui l’originalità della provincia non scolori nell’anominato della periferia.
Quello che manca è invece un insieme di politiche che guardino alle differenze territoriali e ne promuovano il valore. Che considerino la cultura e il suo potenziale di creazione di valore nell’economia e nella società non come una stravaganza, ma come una risorsa decisiva per un percorso originale di sviluppo locale. Che sostengano la manifattura e l’agricoltura come aree di sperimentazione per rinnovate centralità produttive.
I casi non mancano. Favara, in provincia di Agrigento, mette in mostra una Sicilia che trova nella cultura e nell’arte contemporanea il motore di una radicale discontinuità. A Brindisi l’amministrazione comunale riusa il patrimonio abbandonato del centro storico per dare spazio a innovazione tecnologica e produzione culturale. A Sansepolcro, imprenditrici e artiste rilanciano il centro urbano puntando su mostre ed eventi e rinsaldati per rinsaldare rapporti di comunità.
Il tempo della metropoli difficilmente sarà travolto dal Covid-19. A ben vedere, la pronta risposta in termini di innovazione collettiva che ha luogo nelle grandi città – ne è esempio il piano della mobilità pubblica a Milano – evidenzia già la natura reattiva di quei luoghi. Dalla dura esperienza dell’epidemia le altre città possono imparare a elaborare modelli originali per il proprio futuro, per differenza, rinunciando a qualsiasi velleitario tentativo di omologazione.
Friedman ricordava, sulle colonne del New York Times, che quella contro il Covid-19 non è una guerra. Non vincono i paesi e le città che sconfiggono un nemico. Vincono le comunità che si adattano, grazie a scelte politiche consapevoli capaci di individuare le direttrici di un diverso sviluppo. Vince chi, da questa tragica esperienza, sarà in grado di trarre le lezioni più utili a disegnare un futuro coraggioso e discontinuo, nelle metropoli e nell’Italia delle cento città.