I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.
I nuovi centri culturali sono il luogo di incontro di reti, comunità e organizzazioni nate in risposta alla crisi economica del 2008. Portano avanti pratiche culturali collaborative basate sulla partecipazione e sull’attivismo, nelle città e nelle campagne, al Sud come al Nord, costruendo spazi di confronto.
I nuovi centri culturali sono makerspace, biblioteche sperimentali, luoghi rigenerati, community hub e residenze d’artista: sono presidi fondamentali della sperimentazione dei linguaggi, delle passioni civili e dell’attivismo di base. Sono attraversati da centinaia di migliaia di persone, eppure costituiscono un mondo ancora in parte poco conosciuto, poco studiato e poco raccontato.
cheFare invita attivisti, ricercatori, scrittori, artisti, operatori culturali e policy maker a Molto Presto, prospettive d’azione dei nuovi centri culturali: 2 giorni di riflessione e dibattito sui nuovi centri culturali e sul loro ruolo nel tessuto culturali e civico italiano nella cornice della Triennale Milano, il 18 e 19 ottobre 2019 — l’evento è aperto a tutti e completamente gratuito.
Dal 2012 cheFare si occupa di mappare, connettere e dare voce ai protagonisti della trasformazione culturale in Italia e all’estero. Lo ha fatto prima con il bando omonimo e poi accompagnando a un’attività editoriale continua la produzione di progetti culturali collaborativi locali, nazionali e internazionali.
In questi anni di attività, cheFare ha analizzato migliaia di progetti culturali innovativi da tutta Italia, partecipato a centinaia di incontri, pubblicato tre libri e oltre mille articoli sulla trasformazione culturale, organizzato percorsi collaborativi online e offline che hanno coinvolto migliaia di persone e partecipato a sempre più tavoli di indirizzo con stakeholder istituzionali e “dal basso”.
È un’area di pratiche che aspira a superare i confini tra mondi diversi
A seconda dell’humus da cui sono nati e delle pratiche che hanno incrociato, i mondi che attraversiamo sono conosciuti con vari nomi scelti per per convenzione, per moda, per necessità comunicative o per visione teorica. Innovazione culturale. Innovazione sociale a base culturale. Attivismo culturale. Innovazione sociale generativa. Cultura collaborativa. Cultura in trasformazione. Cultura dal basso.
Pur ponendo l’attenzione su accenti leggermente diversi, ognuna di queste etichette indica sempre la stessa area di senso in cui la cultura apre nuovi spazi di cittadinanza perseguendo la partecipazione di individui, gruppi, organizzazioni e istituzioni alla vita culturale e politica della società.
È un’area di pratiche che aspira a superare i confini tra mondi diversi, gettando ponti tra ambienti che di solito non si parlano e ricercando modi inediti di traduzione di linguaggi, stili e contenuti.
Le forme che la compongono sono puntuali e situate. E’ un panorama frammentario fatto di associazioni culturali, imprese sociali, cooperative, fondazioni, comitati, gruppi informali. Quali che siano le forme che prendono, è ormai chiaro che comunità, reti e organizzazioni si organizzano sempre di più attorno a quelli che possono essere chiamati “nuovi centri culturali”. L’aggettivo “nuovi” ha una connotazione cronologica ben precisa.
Gli spazi culturali del ‘900
Nel corso della seconda metà del XX° secolo gli spazi per la fruizione e la produzione di beni e servizi culturali sono stati caratterizzati da alcune tendenze organizzative, spaziali, economiche e di governance abbastanza definite.
Da un lato c’è stata la concentrazione in istituzioni ufficiali come università, musei, centri espositivi e centri studi. Sono stati, e sono tutt’ora, i grandi centri riconosciuti della cultura che dialogano con gli altri attori di primo piano della governance culturale: gallerie, case editrici, grandi biblioteche, programmi radiofonici e televisivi, terze pagine dei quotidiani, etc.
Un altro filone, ovviamente, è stato quello degli spazi di fruizione delle opere prodotte dalle industrie culturali. Cinema, sale concerto, librerie, biblioteche, piccoli musei non hanno costituito solo l’ultimo miglio di reti di distribuzione capillari ma hanno assunto, spesso, anche il ruolo di piattaforme territoriali di discussione e critica in un quadro più ampio di invenzione e rafforzamento della sfera pubblica.
Una terza linea, infine, è stata quella della molteplicità di piccoli presidi territoriali pubblici o privati legati all’associazionismo, al welfare, ai corpi intermedi, alle confessioni o ai partiti. Spesso caparbiamente autonomi e allo stesso tempo riuniti in reti e confederazioni, le associazioni e i circoli hanno costituito per decenni l’interfaccia diffusa capillarmente tra grandi nodi della politica e della vita civile e piccoli centri.
Si tratta di una suddivisione volutamente grossolana e imperfetta che mescola piani diversi tra i quali, solo per citare il più evidente, quello della distinzione pubblico/privato. Ma può essere interessante utilizzarla ricordandoci che è soprattutto sui margini di quei mondi, e nelle loro intersezioni, che nel corso del ‘900 sono emerse le ricchezze della cultura vissuta dai territori, con le sue specificità, contraddizioni, capacità di costruire legami.
Il risultato di queste tre linee di sviluppo è stato per lungo tempo un panorama con alcune caratteristiche relativamente stabili: le tipologie spaziali e le convenzioni nell’organizzazione dei volumi e degli spazi); le forme di offerta culturale; le reti orizzontali (territoriali) e le filiere verticali (di secondo livello) nelle quali erano inserite; le figure professionali che generavano, caratterizzate da biografie tendenzialmente ancorate ad altri percorsi, più stabili, nelle istituzioni pubbliche o nelle industrie culturali; la relativa separazione dei rapporti tra professionisti, amatori e spettatori; i sistemi di governance territoriale, che si sono mantenuti stabili per buona parte della seconda metà del ‘900.
Il passaggio da organizzazione fordista a post-fordista dei territori ha implicato una riorganizzazione spaziale, sociale, produttiva e culturale di tutti i tipi di spazi, compresi quelli deputati alla cultura. Si è trattato di una trasformazione che ha colpito sia le metropoli e le città medie che, di rimbalzo, anche i luoghi più rurali e remoti.
I Centri Sociali hanno costituito una quarta forma di spazio culturale del ‘900 anticipando quello che sarebbe arrivato dopo
I primi soggetti che hanno saputo inserirsi produttivamente in questa trasformazione urbana facevano parte del movimento dei Centri Sociali della metà degli anni ’90. Eredi della stagione di movimenti politici ’68-77 e dei Circoli del proletariato giovanile, avevano sperimentato forme inedite di costruzione di offerta sub-culturale durante il riflusso degli anni ’80 per poi mettersi in gioco in modo più articolato nell’89-90 con La Pantera.
Quando centinaia di amministrazioni locali sono entrate in stallo amministrativo, politico e giudiziario nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, i collettivi che animavano i Centri Sociali hanno occupato centinaia di edifici sfitti in tutta la penisola, istituendo per oltre 10 anni una rete parallela di produzione, fruizione e distribuzione di beni e servizi culturali che ha coinvolto milioni di persone. Sotto molti aspetti, i Centri Sociali hanno costituito una quarta forma di spazio culturale del ‘900 anticipando, al contempo, quello che sarebbe arrivato dopo.
I nuovi centri culturali
Con la nuova fase di riflusso iniziata a metà degli anni ’00 e la crisi economica e sociale iniziata nel 2007, la situazione è mutata ancora. Il restringimento delle finestre di opportunità per molte carriere classiche nei mondi della ricerca, della cultura e della comunicazione – falcidiate dai tagli costanti, dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro e da contesti sempre più senescenti – ha fatto sì che migliaia di persone iniziassero a sperimentare nuove forme di organizzazione e di carriera.
Questo è successo in un contesto reso sempre più complesso dall’espandersi o consolidarsi di nuove tecnologie legate a dimensioni anche molto diverse – dalla manifattura digitale al web 2.0 – che hanno dato il via a configurazioni inedite tra reti, flussi di informazione e intelligenza collettiva e territori. Territori che non erano allo stesso tempo resi più distanti tra loro per l’aumento del brain drain indotto dalla crisi ma anche più vicini: l’ampliamento delle opportunità di esperienze internazionali ha aumentato la possibilità di letture incrociate tra contesti territoriali molto diversi tra loro, favorendo la costruzione di esperienze e competenze ibride.
È con gli anni ’10 che hanno iniziato a diffondersi in tutta Italia esperienze di innovazione sociale e culturale
Su un altro piano, nel moltiplicarsi dei casi di rigenerazione urbana la dimensione culturale è stata spesso definita come uno degli asset fondamentali; se in molti casi si è trattato prevalentemente di operazioni di facciata – guidate dai miraggi della classe creativa come driver di sviluppo e dell’urban marketing come reale possibilità di costruire narrazioni univoche delle città – in altri si è avuta la possibilità di costruire sperimentazioni reali per reti, organizzazioni e comunità culturali.
Ed è con gli anni ’10 che hanno iniziato a diffondersi in tutta Italia esperienze di innovazione sociale e culturale per l’azione combinata di pratiche dal basso, spinta delle pubbliche amministrazioni, innovazione delle reti cooperative tradizionali e tentativi di rinnovamento di diverse tipologie di istituzioni tradizionali, dai musei alle biblioteche.
Il risultato di tutte queste linee di trasformazione è stato l’emergere di una grande varietà di nuovi spazi culturali, definiti variamente come “spazi culturali indipendenti”, “nuovi centri culturali”, “spazi culturali polifunzionali”, “centri culturali di nuova generazione”, etc. Noi preferiamo chiamarli “nuovi centri culturali”.
Con questo termine intendiamo spazi ibridi nati in anni relativamente recenti che producono e distribuiscono cultura in forme peculiari che li distanziano dalle istituzioni culturali tradizionali.
I nuovi centri culturali sono caratterizzati in tutto o in parte dai seguenti elementi:
- le dimensioni medio-piccole le distinguono da realtà più grandi – nate all’interno di operazioni di rigenerazione urbana su vasta scala – che soggiacciono a logiche ed economie diverse;
- la presenza di ambienti variegati che offrono funzioni eterogenee come biblioteche, librerie, bar, ristoranti, spazi incontri, spazi workshop, laboratori adibiti a differenti scopi (artigianato condiviso, fabbricazione digitale, …), sale concerti, sale proiezioni, spazi espositivi, sale prove, spazi teatrali;
- data la loro natura necessariamente situata, a seconda dei contesti in cui operano indagano il contemporaneo attraverso le forme e le pratiche più disparate: residenze artistiche; laboratori di manifattura digitale; progetti di arte pubblica o partecipata; rassegne di arti performative; seminari e panel; cine-forum; spettacoli teatrali; concerti; feste; dj set; gestione comunitaria di beni culturali; festival; presentazioni di libri e riviste; mostre.
- hanno la tendenza alla commistione di pubblici diversi, che in alcuni casi si sfiorano appena mentre in altri iniziano a conoscersi ed ibridarsi;
- sperimentano modelli di sostenibilità economica innovativi, cercando di ricombinare le opportunità che emergono dal mosaico delle funzioni e dalle opportunità dei territori;
- costituiscono spesso un polo d’attrazione per i linguaggi innovativi;
- mostrano una tendenza all’internazionalizzazione data dalla elevata circuitazione di figure professionali e oggetti culturali;
hanno la capacità di attivare processi di coesione sociale e inclusione nei territori in cui operano; - in alcuni casi, abilitano funzioni generative o attrattive per l’imprenditoria giovanile e per le Industrie Culturali e Creative.
Non necessariamente queste caratteristiche ne fanno una entità “altra” rispetto alle forme dei luoghi della cultura del secondo ‘900 e dei primi anni ’00. Ha senso considerarli, piuttosto, come una delle mutazioni possibili di istituzioni culturali ufficiali, luoghi del consumo culturale, circoli e centri sociali.
Questo perché i nuovi centri culturali sono il punto d’incontro di cruciali istanze trasformative degli ecosistemi culturali e civili, e si sviluppano quindi in dialogo e conflitto costante – complementare e situato – con i territori. Rispondono alle domande di de-standardizzazione della produzione e del consumo culturale, favorendo la moltiplicazione delle opportunità e fornendo occasioni per costruire nuovi legami culturali, sociali ed economici dove la coesione è potenzialmente a rischio di fronte alla complessità del contemporaneo.
Presidi di innovazione civica di fronte alle complessità di nuove demografie, nuovi panorami interculturali, nuovi bisogni e nuovi desideri
Questo non solo perché – al Nord come al Sud, nelle periferie delle grandi città come nelle aree interne – sono partner o promotori di sperimentazioni di innovazione sociale e di welfare sussidiario. Ma anche e soprattutto perché costituiscono presidi di innovazione civica di fronte alle complessità di nuove demografie, nuovi panorami interculturali, nuovi bisogni e nuovi desideri. Nel farlo, sviluppano visioni ed ipotesi operative per rispondere all’assottigliamento dei legami e alla crisi della politica.
È proprio questo a renderli, nella pratica, qualcosa di diverso dall’utopia melensa dei “luoghi della coesione a tutti i costi”. Nelle zone industriali inserite in percorsi di rigenerazione, ad esempio, sono sempre più spesso la pietra di paragone della reale costruzione di senso oltre le pure retoriche del rinnovamento: talvolta promotori, in alcuni casi foglie di fico, in altri ancora protagonisti del disvelamento di logiche estranee a quelle del sociale e della cultura.
È su questo piano, forse ancora più che sugli altri, che sfidano le governance territoriali declinando conflittualmente la domanda di nuove soluzioni politiche ed amministrative per la cultura, siano esse soluzioni inedite pubblico-privato, regolarizzazioni di occupazioni, regolamenti comunali dei beni comuni o micro-innovazioni burocratiche di diverso ordine e grado.
Alcuni osservatori si concentrano soprattutto sul fatto che, nei contesti più terziarizzati, hanno un’interazione stretta con l’ambito dell’innovazione culturale, intesa come l’insieme di pratiche economiche ed organizzative che rispondono alle nuove istanze delle Industrie Culturali e Creative: dalle applicazioni tecnologiche per l’innovazione museale alle forme di finanziamento in crowd per la cultura, passando per i co-working legati alle nuove professioni culturali ed alle sperimentazioni di audience engagement e audience development.
Non è solo una questione di consumi culturali. È una questione di passioni
Al di là delle questioni strettamene tecniche, il punto forse più importante è che i nuovi centri culturali agiscono come piattaforme per la sperimentazione e la circuitazione di nuovi linguaggi, nuove visioni e nuovi contenuti. Sono sempre di più agenzie di trasferimento culturale tra quello che succede “altrove” e il “dietro casa”, dove l’altrove possono essere di volta in volta grandi capitali culturali, spazi digitali, luoghi di provenienza di flussi migratori, altri centri, altri periferie.
Non è solo una questione di consumi culturali. Si tratta, soprattutto, di una questione di passioni. Negli anni in cui la società sembra contrarsi sotto il peso dell’incertezza, dell’anomia e dell’incapacità di scrutare nell’immediato futuro, i nuovi centri culturali sono sempre di più i crogioli alchemici in cui provare a forgiare il senso del contemporaneo.