Tra terre di confine

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    “L’esperienza personale è tutto ciò che abbiamo nella vita. Sta a noi decidere come usarla”. Le parole di Aaju Peter, avvocatessa Inuk per i diritti del suo popolo, mi risuonano nel petto. L’avevo già incontrata, anni fa, guardando i documentari della regista Alethea Arnaquq-Baril, di cui scrissi qui. La ritrovo protagonista e co-sceneggiatrice di Twice Colonized, documentario diretto dalla danese Lin Alluna. Il titolo si riferisce alla doppia colonizzazione dei popoli artici (e di molti altri): prima per mezzo dei coloni europei e in seguito per le politiche delle istituzioni tese ad annullare le specificità culturali invece che renderle la controparte del dialogo. In seguito alla controversa questione della caccia alle foche, reclamata come diritto dai nativi dell’Artico e ignorata dalle associazioni animaliste, Peter lavora per l’apertura di un forum dedicato alle problematiche delle genti indigene presso il parlamento europeo. Per far questo si muove fra il Canada dove vive, la Groenlandia dove è nata, e la Danimarca dove ha frequentato le scuole “ospite” di famiglie locali. Sono le terre del suo abitare e del suo doppio processo di estraniamento e riacquisizione identitaria. La sua battaglia si sovrappone alle vicende personali: un compagno violento, il suicidio del figlio – evento comune fra gli Inuit, conseguenza di disorientamento, disoccupazione, depressione. Guardo il volto tatuato secondo tradizione di questa donna, la sua fragilità esposta. Lottiamo perché siamo fragili. Tanto più sappiamo della nostra fragilità e tanto più lotteremo. Lottiamo perché se è vero che la morte crea eredità indistruttibili lo fa sempre per trasformarsi nell’atto del vivere. Guardo Aaju Peter, i cui sforzi contro la tirannia estrattivista sono infinitamente superiori ai miei, la cui esistenza è un pegno di dignità che io conosco appena e mi dimentico tutto. Dimentico le appartenenze accidentali, il continuo aggiustarsi al contesto, il disagio per quello che si è e non si dovrebbe essere. Lei mi riguarda. Anche se non appartengo al popolo Inuit, se non ho idea di cosa voglia dire perdere la lingua e la famiglia per frequentare una scuola di “bianchi”, se mi trovo invece dalla parte di umanità che ha oppresso, credendosi migliore, illuminata. Mio padre è morto alla fine dell’estate. Non so ancora come si svolge questo tempo del lutto. Sono continuamente alla ricerca delle voci native come di un’umanità altra in cui riappacificarsi, sentirsi specie che condivide e non schiaccia. Non attendevo così presto questa morte. Mi ritrovo ancora una volta nel ruolo di chi sopravvive portando con sé una parte dei suoi morti. Perché questo dolore viene insieme a una gratitudine antica? Siamo nel bosco, io, le mie sorelle, le nostre madri – disperdiamo le ceneri del babbo fra i castagni, immergo le mie mani, lascio andare. L’ombra degli alberi ci ripara dal sole settembrino. “Sono grata”, dice Aaju Peter mentre ripercorre il suo dolore. Ho bisogno di ascoltare le sue parole perché sono le mie e si affrancano dalla paura della mortalità che la cultura occidentale si porta addosso. Non è la mia cultura: è lo spettro che ne abbiamo fatto, strappandole di dosso tutte le sostanze. Per forgiare i miei strumenti vitali ho bisogno di sostare nelle cose, non superarle o rimuoverle.

    Davanti a me cresce una pila di libri che hanno molto in comune con il film. Le loro autrici parlano da soglie culturali ed etniche, decolonizzano le loro menti e difendono mondi condannati alla sparizione, ribaltandoli nell’attimo presente. L’attimo in cui spariamo è lo stesso in cui potremmo sorgere come specie che si mescola e genera altre lingue. Prendo i due volumi di Gloria Evangelina Anzaldùa tradotti e pubblicati per Meltemi e Black Coffee. Meticcia, femminista, attivista, Anzaldùa conobbe la metamorfosi prima di tutto nel suo corpo, a causa di un ciclo mestruale straordinariamente precoce, squilibri ormonali e infine il diabete che la uccise. La sua condizione fisica si intreccia indissolubile alla sua idea di autohistoria dove la biografia non è soluzione, ma il principio delle domande.

     

    Immagine di copertina di atarin michaeli su Unsplash

    Note

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