Rosetta è sconfinata!

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    I migranti, gli immigrati, gli extracomunitari, i clandestini, rifugiati, profughi, i siriani, gli afghani, i ghanesi, i souk, i bangla, i paki, “no pago afito”, i beurs, i rebeu, i filippini, i rosai, i vucumprà,i makkaroni,i katzelmacher, i barconi, gli sbarchi, le carrette del mare, gli scafisti, i trafficanti, la marina militare, il confine, il passo della morte, la frontiera, border, Triton, Mare Nostrum, Frontex, tendopoli, gli appartamenti, gli hotel i centri d’accoglienza, i Cie, i Cara, i Cas, i CPT, i CPR, gli hotspots, Lampedusa, Ponte Galeria, la Caserma Montello, la Stazione Centrale, La stazione Termini, Pozzallo, Mineo, Taranto, Borgo Mezzanone, Idomeni, la Jungle de Calais, Ventimiglia, Como, Ceuta, Evros, Kos, Bodrum, Zataari, Zuwarah, Tor Pignattara, il Corvetto, Barriera, San Salvario, San Faustino a Brescia, Borgo Allegri a Firenze, la Chinatown di Prato, Barbès, Church Road, Lavapiès, Kotbusser Tor, Tensta, Moleenbeek, via Padova.


    Il 30 marzo Rosetta arriva al Beltrade per parlare di migrazioni, degli immaginari e dei progetti che generano e portano con sé. Alle 18:30 il regista Suranga Deshapriya Katugampala, lo studioso di design Ezio Manzini e l’artista Adrian Paci risponderanno alle domande di Valeria Verdolini, a seguire aperitivo con dj set a cura di Matteo Saltalamacchia. Alle 21:30 verrà proiettato per la prima volta il film “Per un figlio”, di Suranga Deshapriya Katugampala.


    Le parole che descrivono lo stereotipo migratorio lo definiscono e lo peggiorano. Soprannomi, nomignoli, ma anche luoghi, quartieri che vengono connotati e trasformati dalle narrazioni dei loro abitanti. La linea dell’esclusione si traccia anche attraverso queste grammatiche, e racconta immaginari, spazi, vissuti e memorie che essenzializzano, che stigmatizzano, che alzano sottili muri, necessari per rafforzare quelli più statici e materiali.

    Dall’invisibile confine di mare che attraversa il Mediterraneo, che viene spostato sempre più a Sud, alle vie, alle strade delle città – che sono sempre “nostre”, con un possessivo soggettivante che ci definisce – fino agli spazi comuni, i parchi, le scuole, le vie, i metri diminuiscono, le paure occupano gli interstizi e trovano dimensioni sempre più consistenti. Si delinea nel racconto collettivo una toponomastica delle città altre, che si sottrae alla possibilità di cittadinanza piena.

    Il recente decreto sicurezza, promosso dal ministro Minniti come urgenza, nelle prime righe spiega chiaramente questi passaggi, in cui la vicinanza tra le parole definisce i poteri e rafforza gli stereotipi:

    “L’intervento nasce dalla sempre più avvertita esigenza di una riflessione sul concetto di sicurezza che soprattutto oggi caratterizza la condizione di complessità propria dei grandi centri urbani. La nuova società, ormai tendenzialmente multietnica, richiede infatti – unitamente ai necessari interventi di sostegno rivolti ai “nuovi consociati” – una serie di misure di rassicurazione della comunità civile globalmente intesa, finalizzate a rafforzare la percezione che le pubbliche istituzioni concorrono unitariamente alla gestione delle conseguenti problematiche, nel superiore interesse della coesione sociale”.

    In poche righe si costruiscono i confini, le soggettività, i poteri: da una parte la comunità civile globalmente intesa che richiede misure di rassicurazione, dall’altra i nuovi consociati (che vengono differenziati dal gruppo precedente) che richiedono sostegno ma che rendono la nuova società tendenzialmente multietnica, ossia provocano la causa sottintesa di insicurezza e di indebolimento della coesione sociale. Per questo, le pubbliche istituzioni devono rafforzare la percezione di concorrere alla gestione delle problematiche, attraverso la possibilità di allontanare i soggetti dagli spazi comuni, andando a definire la “sicurezza come bene pubblico volto a favorire l’inveramento dei diritti”.

    Questa architettura costituisce lo scheletro su cui si dispongono le parole dell’elenco, disegna le mappe delle città, configura gli spazi e gli attraversamenti. Esercita una violenza epistemica, violenza della conoscenza per dirla con Edward Said, in cui quei lemmi, scritti, sono dolorosi di per sé, ancor di più se sono parole del diritto, che hanno pratiche come conseguenze.

    E questo è un confine piccolo, che attraversiamo, o meglio che spesso evitiamo, quotidianamente. Ma questi racconti di esclusione vengono elaborati nei testi, nelle parole, nelle immagini dei molti attraversamenti dell’oggi. Mentre scriviamo, ci sono persone nascoste su treni, in bilico in sentieri di montagna, tra le acque inquiete di fiumi, torrenti, in gommoni marittimi, alle prese con escursioni termiche desertiche o con pianure gelide. Il movimento è costante, e le parole dell’esclusione, a cui prestano la voce i Trump, i Salvini, le Le Pen, gli Orbàn, i Kaczynski, ma anche gli accordi Ue-Ankara, i trattati bilaterali con Tripoli, gli accordi tra polizie italiane e sudanesi, le quote in Messico solo per citare i più noti. E ci sono persone arrivate, cresciute, innamorate, separate, che continuano a mantenere quella dimensione transitoria, a doversi “meritare” la cittadinanza, con qualità etiche mai richieste a chi per caso nasce nello spazio più riconosciuto, in quello più forte, o banalmente in quello più ricco. Le libertà si iscrivono in questi blocchi, e i diritti, anche quelli universali come quello d’asilo, vengono concessi, mantengono quella dimensione servile che tramuta la pienezza politica in bontà, in gentilezza, in altruismo. In quel doppio binario morale si rafforza il confine delle diseguaglianze.

    Ma se si decidesse di sconfinare? Di sconfinare non solo a parole, ma anche mescolando i saperi, gli spazi, i linguaggi? Questo interrogativo anima l’idea che Rosetta sia sconfinata, come la sonda che non ha limiti di distanze, e può partire (a noi interessa il fatto che arrivi, che possa posarsi sulla coda della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, non le si richiede di atterrare a casa propria), può scegliere dove spostarsi.

    E se quell’immaginario, assieme all’idea della traduzione che porta elementi migliorativi all’originale, fossero una chiave di lettura del presente in transizione? Vogliamo provare, e vogliamo farlo a partire da uno spazio che presenta questi elementi. Il Cinema Beltrade si trova in via Oxilia, al numero 10, a pochi passi da Piazza Morbegno, esattamente a metà strada, oggi, tra l’hub di via Sammartini e il parco Trotter, centro nevralgico di via Padova.

    Nato come cinema parrocchiale, acquisito poi dalla Cineteca, torna ad essere cinema di quartiere ed entra in crisi con il passaggio da pellicola a digitale. Dal 2013, Barz and Hippo comincia a gestirne la programmazione e il lessico cambia: non più film doppiati, ma solo proiezioni in lingua originale. Il linguaggio cinematografico aumenta la dimensione del viaggio nello spettatore, ma lo obbliga a un’autenticità e a un confronto con la propria condizione periferica, con la propria, speculare, alterità. In quella stessa parrocchia di via Oxilia, giunto da poco in Italia in pieni anni novanta, finisce un giovane artista albanese, mandato a fare dei piccoli restauri.

    È Adrian Paci, e il viaggio e il transito sono il centro della sua poetica. Quel doppio sguardo, quella “doppia assenza” del migrante che non è più nel paese di provenienza ma non viene riconosciuto (e non ha pieno spazio di cittadinanza) in quello di arrivo, come sosteneva Abdelmalek Sayad, collocano il suo immaginario nel transito, nel passaggio. È lì, nell’attraversamento, che i confini non ci sono più. Però ci sono le parole, i lessici da tradurre come in Albanian Stories, e i passaggi che si dilatano, fino a farsi spazi beckettiani ben rappresentati in Centro di permanenza temporanea.

    Una possibile tecnica per ridurre gli spazi e immaginare nuovi strumenti è, secondo Ezio Manzini, il design, un modo di fare e di pensare che mette in discussione l’esistente indicando altri modi per affrontarlo. Una piccola proposta cosmopolita come antidoto per le paure, e per diminuire le distanze tra le antinomie della sicurezza, e smontare quelle parole e tradurle in altri noi, è uno dei propositi dello sconfinamento di Rosetta. Per sconfinare è necessario lavorare su categorie non ovvie, semplificate come sentimenti, ma anch’esse costruzioni complesse: come la paura. La paura viene descritta nelle parole del filosofo Curi come “testimonianza dell’incapacità di riconoscere un dato fondamentale, e cioè il fatto che la relazione con l’altro costituisce la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità”.

    E quell’identità trova spazio dietro la macchina da presa di Suranga Deshapriya Katungampala, regista cresciuto a Verona che ha trasformato la doppia assenza in doppia presenza: guardare l’Italia, il Veneto, Verona, con le lenti dello Sri Lanka, e sommare le due visioni, tradurle, senza perdere pezzi, senza subire l’integrazione omologante. Per questo anche le maestranze di “Per un figlio”, opera prima che verrà proiettata durante la serata, hanno biografie che mantengono quel doppio sguardo, scelta dettata dal bisogno di valorizzare le competenze e le forme di fare arte che hanno altri stili e origini da quelli del contesto italiano.

    Sarà possibile una traduzione tra questi saperi? Si riuscirà a sconfinare trovando nuovi punti di riflessione e nuove parole per raccontare l’oggi? Questo è il confine che vorremmo provare ad attraversare stasera dalle 18.30, in via Oxilia 10. Unendo dibattiti e linguaggi, biografie e tecniche, traiettorie differenti e visioni (forse) comuni.

    Note