Non esisteva una libreria nel paese dove sono nato, vissuto e dove continuo a vivere.
Non è mai esistita nemmeno prima e a dirla tutta, non esiste nemmeno ora.
Da qualche anno c’è una cartoleria che, oltre ai giocattoli e alla cancelleria, vende anche qualche libro, prima se ne potevano trovare qualcuno sul bancone di Ciata, il classico spaccio da paesino sperduto negli appennini che vende sigarette, detersivi, collanine, biscotti, spume al cedro, Stock 84 e altri generi di prima necessità, un po’ come gli empori del Far West, dove potevi anche prendere un sacco di fagioli e qualche scatola di munizioni per le Colt da 45 mm.
Però Ciata teneva solo opere locali, nel senso che quando qualcuno della zona scriveva un libro e si pagava la pubblicazione, poi lo portava da Ciata affinchè ne tenesse qualche copia sul bancone, tra il barattolo di farina di fecola e quello delle pastiglie alla menta.
È lì che tra una spuma e l’altra, ho letto il Diario di Condotta del mio medico curante, il Dott. Filippo la Porta e anche il bellissimo libro sulla Storia di Casola Valsenio ( vabbè, era lungo settanta pagine, non perchè Casola non sia antica, ma la nostra tribù di Galli Boi mischiati a Etruschi reietti è uscita dalla foresta solo a medioevo inoltrato, e quindi un sacco di secoli si potevano riassumere in due righe).
Se proprio uno aveva grande desiderio di leggere, c’era la biblioteca comunale, che però negli anni ottanta apriva a sorpresa, senza orari fissi, ma quando ne aveva voglia Anna la Svizzera, una pensionata che la teneva aperta come volontariato, oppure doveva andare a Faenza, dove c’era la libreria più vicina. Che erano 40 km, e quindi andava bene solo se avevi la macchina.
Per nostra fortuna, almeno per quella minoranza di bambini a cui piaceva leggere, c’era in fondo a un’aula delle Scuole Elementari un vecchio armadio ministeriale, imbarlato, pieno zeppo di vecchi libri ammuffiti che mandavano un piacevole odore di formaggio di fossa.
Io leggevo quelli. Almeno, ho potuto leggerli fino alla quinta.
Non è che però quando non leggevi i libri ti sentivi tagliato fuori dal mondo delle storie. Anzi.
Nei piccoli paesi di Romagna come il mio, esisteva ed esiste ancora una inossidabile tradizione orale. C’era sempre qualcuno, da qualche parte, che raccontava qualcosa.
Ma non come succede nei film, seduti intorno a un fuoco o cose del genere.
E non erano nemmeno racconti in senso stretto.
Il più delle volte litigavano per qualche sciocchezza, e finivano per rinfacciarsi cose del passato, e davvero ne saltavano fuori di tutti i colori.
Come tutti i romagnoli il mio domicilio reale non è dove vivo, ma il bar che frequento. Casola ha pochi abitanti, 2880, ma ha undici bar. Il bar è come una religione, o la squadra di calcio del cuore; non si cambia. E ogni bar ha la sua specializzazione. C’è quello dei cacciatori, quello dove si parla di sport, c’è quello dei pensionati, quello dove ci vanno le donne a fare colazione, c’è quello dei comunisti (in ogni paese di romagna c’è sempre un bar dei comunisti) e via dicendo. Il Bar che frequentavo io era il Bar di Sopra (in realtà all’anagrafe si chiamerebbe Bar Nuovo, ma qua si usano i soprannomi per tutto, anche per i luoghi e le cose). E la specializzazione del Bar di Sopra era raccontare patacche.
È stato al bar che ho sentito le storie più incredibili della mia vita, quasi tutte nate da litigi durante le partite a carte. Ho visto amicizie lunghe sessant’anni finire perchè non ci si metteva d’accrodo su quanto pesava un’occhio umano, e si finiva con il rinfacciarsi il furto di galline durante il fronte o la provenienza della moglie, conosciuta in licenza mentre esercitava in un bordello di Trieste.
Il resto della narrativa, la fruivo comodamente a casa, senza dover spostarmi da un passo.
Ho il privilegio di essere nato di padre ignoto, figlio di ragazza madre, e di aver vissuto sempre con i miei nonni, in una rarissima famiglia romagnola ultracattolica. Mia nonna, per non farsi mancare niente, era pure fascista, avendo fatto la serva dai Conti Torlonia ed essendo sorella di un veterano della marcia su Roma (anche si Zio Tosco all’epoca aveva solo 14 anni e l’hanno lasciato a far la guardia con lo schioppo alla stazione dei treni di Faenza, perchè era troppo piccolo per portarlo giù con gli altri nella capitale).
Mia nonna si lamentava di mio nonno – miserabile contadino Saragattiano – con il gigantesco crocifisso che aveva appeso in cucina, elencandogli tutte le tribolazioni che le aveva fatto patire.
Era uno spettacolo.
Quando poi c’era anche mia mamma, i litigi e le recriminazioni assumevano portate epiche, e finiva sempre che si correvano dietro con il coltello in mano, cercando di ammazzarsi. Era come avere il cinema lì, nel nostro minuscolo appartamento delle Case Popolari.
Ecco, io credo che al loro meglio, una libreria, o una biblioteca, o comunque un posto in cui vivono le storie, debba avere quell’aria da Bar degli Appennini, con la sua testa di cinghiale appesa sopra l’ingresso, il bancone consumato, la gente che anche se ti vuole bene non te lo dice perchè non sa fare ma te lo dimostra mandandoti cordialmente a quel paese; un posto in cui si ha piacere di stare, anche solo per litigare un po’.
Quelli sono turbine che generano un sacco di narrativa, di ogni tipo.
Poi, il resto accade da sè, in un modo o nell’altro.
Tanto che a volte sono le storie che ti cercano, non il contrario.