Autenticità è una parola desueta. Saccheggiata da tempo dalle variegate perfidie politiche. Che di volta in volta ne fanno uno strumento reazionario, il nome di una purezza malsana o un freno per la crescita. Nell’ultimo caso, l’autenticità è un limite all’industrializzazione, fondata sulla riproduzione a grande scala e sulla pubblicità, la valorizzazione menzognera di un prodotto. Priva di valore intrinseco, nelle società industriali e postindustriali dominate dalla finanza l’autenticità è un peso morto. Come immaginare che un banchiere che specula su prodotti derivati si ponga il problema dell’autenticità del non- prodotto o del sistema di non-prodotti che deve vendere?
Pubblichiamo un estratto da Insurrezione culturale di Jonathan Nossiter, Olivier Beuvelet (Derive Approdi)
Come può una società volta al consumo di oggetti e alimenti sempre più artificiali, inutili e distanti dai nostri bisogni biologici (ma non dai nostri bisogni psicologici), preoccuparsi all’autenticità? Ma da quale luogo oscuro proviene l’ultimo chiodo per sigillare definitivamente la bara di questa parola, di questo ideale omerico? Omerico perché mitologizzante, volontariamente «primitivo» in apparenza ma in realtà al centro del significato della civilizzazione umana: essenziale, per coloro che vogliono pensarci. Martello e chiodo arrivano da un certo postmodernismo, partner ideale perché palesemente contrapposto, con la sua predilezione per i giochi intellettuali, la sua concezione della forma considerata sostanza e il suo progetto di negazione della sostanza delle cose.
È possibile che le molteplici forme d’impegno dei viticoltori naturali siano una risposta solida, materiale e spirituale alla ricerca di questo Graal passato di moda. È ciò che in loro mi tocca. Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna (e uno dei protagonisti di Resistenza Naturale), discorreva a Pacina con Giovanna Tiezzi del rifiuto della commissione incaricata di attribuire la Doc «Chianti» ai vini di Giovanna, rifiuto motivato con il fatto che i suoi vini sarebbero storicamente atipici (il che è esattamente il contrario della realtà dei fatti). Farinelli reagiva con queste parole: «La storia non è mai fissa. La verità culturale non esiste, perché la cultura è in continua mutazione». Vi sono tribù che hanno conservato gli stessi gesti per periodi lunghissimi: meno contatti avevano con le altre culture e più potevano preservare i propri gesti, comportamenti e sistemi di pensiero. Ma in Occidente la storia è una lunga serie di episodi di contaminazioni e mutamenti.
Per questo la parola «autenticità» induce domande complicate. Semanticamente, è quasi un ossimoro. Può essere impiegata per difendere un’idea passatista, quanto essere evocata come vettore di un progresso durevole. Ma per molti è soprattutto il nome di quel che fugge, di ciò che si è perso, di un paradiso perduto. Come molte persone della mia età, ho spesso l’impressione di assistere alla scomparsa delle ultime tracce di gesti autentici.
Una preoccupazione scandita da circa diecimila anni di storia, e che si ripete a ogni generazione: «Ai miei tempi la cose erano più autentiche…». Ma stavolta, nella nostra epoca, il ritmo dei cambiamenti ha accelerato in modo folle, in via esponenziale: e la scomparsa delle vitamine dalla frutta non è un’illusione creata dal passare degli anni.
Prendiamo l’esempio della Borgogna: il vino prodotto nel 200 a.C., quello fatto dai romani durante i due o tre primi decenni dell’era cristiana e il vino del Medioevo non si assomigliavano affatto. E di certo ci sono notevoli differenze tra i vini medioevali, quelli bevuti dai principi de Conti nel Seicento e il vino oggi prodotto da Aubert de Villaine alla Romanée Conti. Nessuno è in grado di descriverli con precisione, ma si può affermare con certezza che ogni trasformazione importante si è prodotta nell’arco di un centinaio d’anni. Esiste così una curva dell’evoluzione nel gusto e della concezione culturale del vino che accompagna tranquillamente l’arco della vita di un uomo… e spesso anche dei suoi figli. Il tempo si iscriveva nel vino, come il vino nel tempo. Non si nasceva con una verità per morire con la verità opposta. Le cose andavano più piano e una vita non bastava a esaurire il campo di un sapere tecnico.
La lacerazione è di questi ultimi anni, e ha portato con sé un cambiamento che si svolge nell’arco di mezza generazione anziché tre o quattro. Cioè nel bel mezzo della vita di un uomo. Nel mondo tecnologico sono gli adolescenti a spiegare agli adulti, rovesciando così l’ordine della trasmissione. E ciò a cui assistiamo ci spinge a immaginarne che questo effetto non farà che aumentare. Proprio come aveva previsto il padre di Giovanna, Enzo Tiezzi, come conseguenza dello scontro tra tempo biologico – della terra e dell’uomo – e tempo storico imposto dalla volontà dell’uomo.
Autentico ed etico
Per quanto riguarda il vino naturale e come per ogni atto culturale, non basta parlare di sincerità. La sincerità non garantisce alcuna autenticità. La sincerità appartiene solo al soggetto che compie l’atto, si misura in relazione a esso, ma è possibile essere sinceri e sbagliarsi completamente, essere ingiusti.
Al contrario, se si è sinceri e si considera il proprio gesto come qualcosa che non ci appartiene, ma che esiste al di fuori di noi (che è quindi «altro», come la natura per il viticoltore o la realtà filmica per il cineasta), se lo si integra dentro di sé rispettando ciò che è, allora entriamo un ambito etico, caratterizzato dall’incontro tra questo altro e il proprio sé. E in un gesto etico l’elaborazione intellettuale e la sincerità spontanea vengono a trovarsi mischiate, perché la qualità «etica» di un gesto è prodotta dalla sinergia tra una cornice sociale e un’intenzione personale. Nell’etica c’è l’idea di incontro tra una sincerità soggettiva e una realtà oggettiva e condivisa, una realtà che appartiene a chi agisce – certo – ma anche agli altri.
Non si può fare il vino da soli, non si possono avere uve o vini autentici che corrispondano alla propria immagine, come un quadro di Friedrich. Lì dovrà esserci il rispetto dell’alterità. Non si può fare un film da soli. Che sia per un documentario o una fiction, il film attinge la propria materia dalla realtà filmata.
Occorre anche distinguere la morale dell’autenticità dall’etica dell’autenticità. La prima porterebbe a produrre un vino ideologico, a partire da una verità universale e dalla ricerca di una formula da applicare. Non finiremmo così granché lontani da un sempre pericolo concetto di purezza e dai dogmi religiosi.
Tra i fautori di un ritorno all’autentico, c’è chi assume un atteggiamento morale e afferma che un vino non può essere naturale quando contiene anche solo un milligrammo di zolfo aggiunto. Chi vuole imporre regole ferree che garantiscano la purezza del vino naturale, anche a costo di fargli perdere sincerità e allontanandolo dal gusto di chi lo produce (e che sceglie di subordinare la propria sensibilità a questo dogma).
Per quanto riguarda il cinema, c’è l’esempio dei danesi «Dogma 95»: i quali, a forza di ricercare una purezza cinematografica per gli autori che hanno aderito al loro complesso di intransigenti divieti (benché mai del tutto rispettati), hanno finito per produrre immagini palesemente artificiose, nelle quali il reale si è ridotto a una semplice posa. Eppure ho apprezzato alcuni dei film che ne sono scaturiti, come Gli Idioti che resta per me il più grande film di Lars Von Trier, l’unico dove ho l’impressione che lui non si nasconda. È la storia di un gruppo di emarginati bohémien – potremmo quasi dire di troubadour – che in una cittadina sono dediti alla provocazione: truffano, bluffano, raccontano balle, fanno gli sbruffoni per in- durre la «verità» nell’altro, negli innocenti.
Incuriosito dal risvolto autobiografico di von Trier e spinto dalla sensazione di averlo visto finalmente a nudo, ho chiesto all’attore Stellan Skarsgard, che è un nostro grande amico comune, di chiedergli conferma. Sei mesi dopo mi arriva una telefonata: «Ciao, sono Stellan. Ti chiamo dall’aeroporto di Copenhagen. Ho ap- pena preso un taxi con Lars. Così gli ho chiesto se Gli Idioti fosse un film autobiografico». Silenzio. «E allora?» gli chiedo io. «Be’… non mi ha risposto. Ma ha riso per cinque minuti».
Al contrario del vino «morale», quello che è frutto di un’etica dell’autenticità non è un vino ideologico, definito e limitato dai dogmi. È un vino libero, in grado ad esempio di sopportare un po’ di zolfo quando serve, senza dogmatismo ma senza concessioni sull’equilibrio tra convinzioni personali e considerazione del prossimo.
Opposto al discorso industriale, che parla del vino come di un oggetto fine a se stesso, il vino naturale non tiene un discorso sul vino, ma sulle relazioni umane e sulla relazione dell’uomo con la natura. Non è un vino che parla del vino, ma un vino che parla di quel suo «altro» che è la natura.