Il capitalismo finanziario è agli sgoccioli perché la Terra sta resistendo

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    La pandemia ci porterà nel post-capitalismo, epoca da lungo annunciata non solo da pensatori di sinistra, ma anche da molti intellettuali vicini al mondo dell’innovazione digitale e alle più avanzate manifestazioni della knowledge economy.

    Negli ultimi decenni pensatori come Paul Mason e Jeremy Rifkin hanno suggerito che la natura collaborativa delle tecnologie digitali porterà, in modo quasi inevitabile, ad uno superamento delle modalità di produzione capitalista.

    Ultimamente uno scenario del genere è stato ripreso anche da Noah Harari. Secondo queste prospettive l’abbassamento dei costi (marginali) di produzione che risulterebbe dalla combinazione fra la diffusione dei saperi e le skills necessarie per la produzione anche di beni avanzati (nello Shenzhen gli adolescenti si divertono a costruire i propri smartphone con componenti comprati nel famoso mercato d’elettronica Huaqiangbei) e le nuove efficienze che risulteranno da tecnologie come stampanti 3D, macchine avanzate a controllo numerico e tutto il pacchetto Industria 4.0, contribuirebbero ad abbassare i margini di profitto al punto che queste attività non avranno più senso da un punto di vista capitalista.

    Alle corporation capitaliste subentrerà un economia basata sui principi – cari ai pionieri del digitale degli anni novanta – della collaborazione e della condivisione. È come se dovessimo scivolare, quasi senza accorgercene, dritti nel socialismo.

    Argomenti del genere soffrono di una comprensione molto superficiale della natura della società capitalista. E soprattutto non sono nuovi. Nel corso della sua storia il superamento del capitalismo è stato proclamato molte volte, ma alla fine ne è sempre uscito più o meno indenne o addirittura più forte di prima sebbene spesso radicalmente alterato.

    Il capitale, la contraddizione in movimento come lo chiamò Marx, impara dalle resistenze e dalle contradizioni che provoca e ne esce più sofisticato. Questa volta però la pacchia potrebbe veramente essere finita, per dirla con Matteo Salvini.

    Molti pensatori ecologisti sottolineano le insuperabili contraddizioni fra un’economia capitalista orientata all’espansione perenne e i limiti più stretti per una tale espansione posta da una biosfera già sfruttata al massimo e che comincia a resistere sotto forma di una serie di meccanismi di feedback.

    Nell’Antropocene l’espansione planetaria della società capitalista si è già conclusa

    Finóra il capitalismo ha gestito le sue crisi con delle soluzioni spaziali: con un’espansione geografica del suo dominio (come quando le contraddizioni di un primo capitalismo mercantile furono rese globali con la creazione di possedimenti e colonie nel 1600), oppure con un’ulteriore intensificazione delle risorse già sotto il dominio dell’economia capitalista. E questo non sarà più possibile, almeno fino a quando non andremo nello spazio (cosa che non avverrà nel futuro immediato).

    Nell’Antropocene l’espansione planetaria della società capitalista si è già conclusa, e lo sfruttamento delle risorse è arrivato a dei limiti fisiologici. Questo non esclude però che non si possa vedere un’intensificazione del dominio del capitale sulla società come risultato della pandemia, almeno nel breve periodo. Come ha suggerito Naomi Klein, le grandi corporation cercheranno di approfittare delle aperture e delle possibilità generate dalla crisi, come fanno Google e Apple che insieme creano una app per il tracciamento dei dati, oppure come i giganti dell’agro-business che sicuramente pretenderanno nuove libertà e concessioni in nome della Food Security.

    Come ha fatto nel caso dell’Hurricane Katrina, la classe capitalista globale userà il caos e la confusione per consolidare ed espandere il proprio potere tramite il controllo che può esercitare sugli apparati statali impegnati nel rispondere alle varie emergenze.

    Un tale Disaster Capitalism potrebbe portare ad unan nuova crescita economica nel breve termine. A medio e lungo termine però aumenterebbe il livello di sfruttamento degli esseri umani e della biosfera e vista la natura prettamente estrattiva del capitalismo contemporaneo contribuirebbe ulteriormente a consumare le risorse disponibili senza investire nella loro riproduzione.

    Il Disaster Capitalism potrebbe anche arricchire ulteriormente le élites, ma senza un nuovo modello sociale non sarebbe in grado di generare la crescita necessaria per sollevare le masse da una povertà e da una precarietà crescente acquisendo di conseguenza il loro sostegno. Una risposta in chiave Disaster Capitalism potrebbe funzionare come rimedio a breve termine, ma alla lunga sarebbe al massimo un modo per prolungare la crisi che viviamo ormai da un decennio.

    L’esito della dinamica politica post-pandemica è imprevedibile e dipende alla fine dei conti dalle lotte in campo e dagli equilibri di potere che ne risulteranno. La mia impressione però, è che nel breve o anche nel medio termine sarà possibile vedere una diminuzione del potere che il capitale esercita sulla società in favore di un’espansione del settore pubblico e una conseguente demercificazione di molti aspetti della vita sociale che negli scorsi decenni – marcati dal neoliberismo – sono stati quasi completamente sussunti alle dinamiche del capitale.

    Ciò che segue è una visione per certi versi ottimista o almeno possibilista che sicuramente si rivelerà fallace in molti aspetti. È sempre azzardato parlare del futuro, ed è impossibile farlo con gli standard rigidi delle scienze sociali, ma in questo momento è forse anche il caso di azzardare.

    Molte cose sono già successe e ostacoli che prima della pandemia parevano insormontabili si sono sciolti da soli. Si è rotto il patto di stabilità europea e di conseguenza la politica di austerità che era rimasta intatta anche dopo la crisi finanziaria del 2008. Gli stati europei (e non solo loro) dovranno garantire un welfare esteso – in forma di reddito di cittadinanza, universale o d’emergenza -, a seconda delle inclinazioni e della retorica politica vigente, dovranno avvallare investimenti pubblici per strutture sanitarie e infrastrutture e offrire infine credito a basso costo alle imprese e alle famiglie.

    L’esito della dinamica politica post-pandemica è imprevedibile e dipende dagli equilibri di potere che ne risulteranno

    Una politica economica espansiva sarà l’unico modo possibile per mantenere la pace sociale durante la depressione che seguirà, e particolarmente in Italia, per contrastare l’influenza dei centri di potere alternativo come la criminalità organizzata.

    Una simile politica monetaria espansiva è stata la risposta alla crisi finanziaria del 2008 quando per oltre un decennio strategie di quantitative easing hanno mantenuto i tassi d’interesse vicini allo zero o addirittura negativi. Il QE degli anni ’10 era indirizzato alla banche e ai grandi attori finanziari e si sperava in un trickle down effect che si mostrò poi largamente assente. Quello degli anni ’20 dovrà per forza essere indirizzato alle imprese e alle famiglie.

    Vedremo anche un’espansione del peso del settore pubblico. Un po’ perché disinvestimenti in settori come la sanità non saranno più tollerabili e un po’ perché lo stato deve assumere un nuovo ruolo di garante per l’estensione dei crediti a tassi d’interesse artificialmente bassi e molto probabilmente dovrà di conseguenza appoggiare o addirittura nazionalizzare le banche e le istituzioni finanziarie che non reggono alle conseguenze della pandemia. E la politica d’investimento in infrastrutture pubbliche sarà una delle più importanti risposte possibili.

    Se ci va bene queste politiche espansive saranno guidate da considerazioni simili ai Green New Deal che hanno cominciato a circolare negli ultimi mesi. In parte anche perché a livello culturale il pubblico è tornato di moda e sarà più difficile giustificare disinvestimenti e de-regolarizzazioni di stampo neoliberale, soprattutto nel settore sanitario che dovrà garantire una capacità adeguata per reagire alle epidemie che verranno. Vedremo tutto sommato un ritirarsi del potere del capitalismo finanziario, e un espandersi del ruolo e del peso del settore pubblico. Il neoliberismo che dagli anni ‘80 spingeva per più mercato, meno stato è forse arrivato alla sua fine.

    Vedremo probabilmente ridursi la presa del capitalismo finanziario sulla società. L’accumulazione finanziaria funziona attraverso l’indebitamento perché ha come suo oggetto di sfruttamento non solo l’operaio, ma principalmente l’uomo indebitato. La sua leva di controllo si basa sulla differenza dei tassi d’interesse tra i potenti. Come la banca che può accedere a denaro a tasso zero o addirittura negativo. Oppure nelle reti produttive fra una società multinazionale con grandi riserve di liquidità e un subfornitore costretto ad accettare condizioni di pagamento a tassi d’interesse più sfavorevoli.

    Ora questo differenziale si restringerà per il mandato politico di estendere il credito a basso costo a tutti o almeno a tutte le piccole e medie imprese (ma sicuramente anche alle famiglie). Soprattutto questo comporterà un enorme aumento dell’indebitamento pubblico. Già adesso paesi come l’Italia faticano a supportare un debito pubblico sopra il 100 per cento del PIL, figuriamoci ak 150 o addirittura ak 200 per cento!

    Il peso di un indebitamento del genere sulla società sarà insopportabile, specialmente in un periodo prolungato di tassi di crescita economica bassi o addirittura negativi, e il risultato inevitabile sarà una qualche forma di amnistia o di default. Inizialmente vedremo una deflazione, un abbassamento dei prezzi come effetto della sovraccapacità e il ristringimento della domanda. Sul lungo termine però è probabile il contrario. Nessuno lo potrà mai pronunciare apertamente, ma non è da escludere che quando la depressione – che potrà durare anche per anni – si trasforma in ripresa economica il debito vada inflazionato.

    Possiamo immaginare l’affermarsi di economie informali o addirittura criminali e che viaggiano in al di fuori del controllo degli Stati

    In Europa la Germania e i suoi alleati difficilmente permetteranno l’indebolimento dell’euro che ne risulterà. L’Italia sarà costretta a uscire dall’euro e a lanciare una lira sovrana per poi stare a guardare la sua traiettoria turca per almeno un decennio.

    Oppure saranno l’Olanda, la Finlandia o addirittura la Germania a uscire, lasciando l’euro a Spagna, Italia e Grecia che saranno libere di tornare alle vecchie abitudini inflazionistiche degli anni Settanta. L’inflazione che ne seguirà ridurrà la fiducia nell’euro e aprirà spazi per l’espansione di monete e organizzazioni finanziarie alternative come le molte criptomonete che sono state sviluppate negli ultimi anni.

    L’apertura verso monete alternative implicherà un ulteriore indebolimento della presa delle attuali istituzioni del capitalismo finanziario che esercita gran parte del suo dominio tramite forme di indebitamento denominate in euro e dollari. Quali monete e sistemi finanziari alternativi arriveranno a dominare un nuovo ordine economico capitalista o post capitalista? Dipenderà di nuovo dalle lotte e dalle scelte politiche che si avvicenderanno nei prossimi anni.

    Possiamo immaginare l’affermarsi di economie informali, illegali o addirittura criminali e di flussi finanziari che viaggiano in gran parte al di fuori del controllo degli stati e di altri attori ufficiali che si mostreranno sempre più deboli e meno capaci d’imporsi sulla società. In questo mondo una parte sempre più consistente dei bisogni delle persone saranno sodisfatti da un’economia pirata o shanzhai dove i soldi girano in forma di bitcoin.

    Possiamo pensare all’affermarsi di organizzazioni finanziarie che operano su base comunitaria, o di settore, magari con una forte base valoriale. Qui monete alternative che mirano a incorporare valori di natura sociale o ecologica nei prezzi di mercato – come i molti token vengono sperimentati nel mondo blockchain – possono essere gestite da enti regionali o associazioni di categoria. Soluzioni del genere possono accompagnare una rilocalizzazione e almeno una parziale risocializzazione dei processi economici e saranno forse più influenti in alcuni settori (come nel Food Economy) piuttosto che in altri.

    Possiamo anche anticipare l’affermarsi di un’economia finanziaria centrata sulla Cina e mediata dalla nuova criptomoneta denominata in yuan che attualmente viene sperimentata in alcune zone della Cina. Un tale circuito finanziario sarebbe comandato da uno stato cinese interessato a consolidare il suo dominino sulla nuova area geopolitica egemonizzata da un nuovo modello di gestione centralizzato e dispotico. Un nuovo capitalismo di stile cinese che mostra grandi continuità con un modello imperiale di politica economica che risale ai Ming: una sorta di ritorno del modo di produzione asiatico ormai dimenticato e rimosso dalla teoria sociale ed economica.

    Il capitalismo finanziario non sarà l’unica vittima del post-pandemia. Forse non subito, ma man mano che si accumulano altre pandemie e altre crisi della società globale sarà necessario rilocalizzare parte della produzione di beni.

    La rilocalizzazione è un tema di cui si è discusso per molto tempo soprattutto nella Food Economy dove concetti come chilometro zero e cibo locale circolano da decenni. Anche nella produzione industriale si è visto un rinnovato interesse per la rilocalizzazione dei processi produttivi spinti un po’ dalla riduzione delle differenze salariali fra operai asiatici e europei, un po’ dalle promesse da parte di tecnologie 4.0 come le famose stampanti 3D e un po’ perché si è scoperto che stare vicino ai clienti offre importanti benefici in termini di flessibilità e logistica just in time.

    Secondo l’economista Carlotta Perez  la pandemia innescherà una svolta verso una nuova espansione dell’economia delle merci

    Fino ad adesso questi processi di rilocalizzazione hanno avuto risultati piuttosto scarsi (la local food economy è soprattutto un fenomeno che riguarda gruppi ristretti di consumatori, d’elite). Adesso però la rilocalizzione di alcuni settori come parti più estese del settore agroalimentare così come parte della filiera di produzione di apparecchi medici ed altri beni essenziali farà parte di una nuova politica di sicurezza nazionale. Man mano che si accumulano i collassi e i disastri anche gran parte delle imprese scopriranno che i costi di una produzione più vicina ai consumatori (che visto il potenziale della industria 4.0 non devono per forza essere molto più elevati) sono più che compensati dalla riduzione dei rischi che una struttura di produzione globalizzata just in time genera in una situazione di insicurezza quasi permanente.

    In più gli stati intelligenti useranno la loro nuova larghezza finanziaria per investire in programmi che mirano a riconvertire la struttura produttiva in una direzione più localizzata muovendosi verso l’autosufficienza almeno parziale nel settore agricolo ed energetico così come in alcune filiere della manifattura.

    Per l’economia dei servizi potrebbe a prima vista prospettarsi uno sviluppo al contrario. La nuova dimestichezza con le tecnologie dello smart working che abbiamo accumulato in quarantena renderà ancora più facile e naturale organizzare progetti di produzione immateriale indipendenti dalle distanze fisiche.

    In realtà però la produzione dei servizi tenderà come ha fatto fin’ora a seguire la produzione delle merci e la stessa rilocalizzazione di settori agricoli e industriali richiederà molta innovazione in nuovi servizi come per esempio forme di condivisione di risorse produttive, di distribuzione, di logistica e di organizzazione dei crediti e dei flussi finanziari che serviranno per rendere più produttiva e competitiva un’economia più localizzata. In questo modo la rilocalizzazione dell’economia aprirà nuove possibilità anche per i settori immateriali come quelli dell’innovazione sociale, del fintech o delle industrie creative.

    Potrebbe essere che queste dinamiche implichino, se non la fine del capitalismo in quanto tale, la fine o almeno una profonda ristrutturazione della sua fase finanziaria. In un suo scritto recente l’economista Carlotta Perez propone una prospettiva del genere. Secondo la studiosa (kondratieviana) la pandemia potrebbe essere la crisi che innescherà una svolta verso una nuova espansione dell’economia delle merci, così come la crisi del 1929 fu la svolta che mise fine all’espansione finanziaria degli anni ‘20 e determinò l’inizio alla società dei consumi di massa che dopo la seconda guerra mondiale sarebbe arrivata a produrre i venticinque anni d’oro di continua espansione economica dell’occidente.

    Perché si possa arrivare a questo è necessaria l’articolazione di un nuovo modello sociale nell’ambito del quale le tecnologie digitali possano trovare un utilizzo produttivo e significativo, dove la digitalizzazione della vita e la raccolta di enormi masse di dati servirà a qualcosa di più utile socialmente e in termini di guadagni economici non solo a migliorare la mira delle pubblicità su Facebook oppure a chiamare il taxi con un’app.

    Molto probabilmente questo nuovo modello sarà il frutto di un movimento polanyiano dove la società avanza e si difende in alcuni settori lasciandone altri più o meno intatti. Più che una netta transizione da un modello a un altro possiamo forse immaginare un futuro misto dove l’economia capitalista continua a operare, ma in un modo meno significativo.

    Con la pandemia abbiamo il primo segnale pratico che il capitalismo finanziario è giunto ai suoi limiti

    Un simile processo è già in corso man mano che l’economia capitalista che conosciamo si ritrae dalla società offrendo nuovi spazi per forme di organizzazione economica e sociale su base comunitaria, criminale, oppure incentrate su una nuova rete cresciuta intorno al potere economico cinese.

    Quel che è sicuro è che le istituzioni capitalistiche che noi conosciamo offriranno meno possibilità di lavoro sostenibile e meno carriere life-long come quelle offerte dalle grandi società fino a poco tempo fa. L’economia capitalista di vecchio stampo riguarderà un’élite sempre più ristretta mentre le persone comuni dovranno fare affidamento su altri sistemi.

    Con la pandemia abbiamo il primo segnale pratico (teoricamente lo si sapeva da tempo) che il capitalismo finanziario è giunto ai suoi limiti. La continua ricerca di nuove fonti di rendita ha generato una pressione sulla biosfera tale da generare nuovi feedback in forma di virus e di pandemie.

    E la resistenza contro il capitalismo finanziario non deriva principalmente da movimenti sociali o da organizzazioni politiche, ma dalla vita stessa, dal quel bios che il capitalismo finanziario sfrutta da troppo tempo. Così come lo sfruttamento da parte del biocapitalismo contemporaneo si indirizza alla vita a un livello principalmente non umano, alla sua manifestazione in forma di flussi di dati o di processi biologici, così le resistenze si manifestano anche loro a un livello microbiologico.

    Ora il compito per un pensiero progressista è quello di dare una forma politica a questa resistenza da parte della nuda vita.

    Immaginare un possibile blocco sociale dove i feedback che risultano dalla biosfera, più che dei nemici da combattere in una guerra contro il virus possano diventare degli alleati da mobilitare intorno a un nuovo progetto di futuro. Come scrisse poeticamente Giorgio Agamben: «La pubblicità e la pornografia, che l’accompagnano alla tomba come prefiche, sono le inconsapevoli levatrici di questo nuovo corpo dell’umanità».

     

    Immagine di copertina ph. Etienne Girardet da Unsplash

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