Per capire Milano è necessario soffermarsi il tempo che le serve a cambiare, e quindi pochi anni. Aiuta ascoltare come si narra e si vende, dando pochissima importanza a ciò che dice e millanta e moltissima al fatto che lo faccia in continuazione, come se in questo costante marketing di se stessa ci fosse già la dichiarazione d’intenti che basta a definirla. Milano è un contenitore. Contiene benissimo e in maniera spietata. Nell’ultimo decennio, e in particolare a partire da expo 2015, è cresciuta a un ritmo due volte superiore a quello del resto del paese, diventando di fatto l’unica città italiana in grado di apparire un po’ meno provinciale e aggiudicandosi così il ruolo di rappresentante sullo scenario internazionale. Ha attirato a sé ogni genere di capitale — finanziario, umano, sociale — e ancora è difficile stabilire quanto sia stata in grado di restituire al difuori delle mura, ancor meno è chiaro se abbia mai avuto intenzione di farlo.
Chissà se basta attirare capitale per diventare Capitale, mi chiedo mentre ridacchio sul profilo Instagram “milanocapitaledicose”, che raccoglie gli articoli di giornale in cui la città meneghina diventa di volta in volta capitale del vino, dei fumetti, dei diritti, del design, dell’abitare agile, dei vaccinati, dell’evasione, del no-smoking, del dating online e di qualsiasi altra cosa accada all’interno dei suoi confini. Non è rilevante capire se Milano sia davvero il luogo che in Italia detiene ogni primato, importa molto di più che sia in grado di farlo credere. Importa che abbia rieletto un sindaco abilissimo nel pubblicizzare quella che oggi finalmente è davvero capitale della moda, perché ogni giorno intercetta ciò che è di moda e ne fa la copertina di una brochure – termine assolutamente démodé e del tutto antimilanese – che cambia di continuo ed è formalmente impeccabile.
Dire che la nuova capitaledicose ha ingannato tutti sarebbe disonesto. È vero che si narra come grande città e poi si attraversa in mezz’ora di bicicletta. È vero che promette a tutti di poter diventare ricchi e non fa diventare ricco quasi nessuno, considerato che il 9% per cento degli abitanti detiene un terzo della ricchezza. È vero che si dice inclusiva e verde e poi a dominare l’orizzonte è il cemento e gli eventi esclusivi che ospita. E sì, non è particolarmente bella, ma non c’è tempo di accorgersene tra la settimana della moda e quella dei libri, il Salone del Mobile e Piano City. Tutte queste sue bugie o mezze verità non vengono smentite perché fintanto che funziona come funziona, e cioè perfettamente, non c’è nessuno che possa legittimamente lamentarsi senza essere accusato di agire in malafede o per rancore personale. Non è vero quasi mai che Milano si ama o si odia. Di solito non la si ama, ma ci si rimane lo stesso per anni o per tutta la vita.
Chi rimane a Roma difende la sua scelta paragonandosi a un tossicodipendente o a un innamorato. La frustrazione e la rabbia per i suoi malfunzionamenti, per la sua ingordigia e per il suo rifiuto nei riguardi della modernità e del progresso, non logorano il legame con la città perché è un legame fatto d’amore e all’amore poco importano l’efficienza e l’ottimizzazione. Quando si passeggia per Roma ci si chiede come si faccia a viverci e come si faccia a non viverci, ed entrambe le alternative sembrano necessarie e urgenti. Chi rimane a Milano non ha mai bisogno di difendere la sua scelta perché la città si difende da sola con argomenti che sono sempre del tutto razionali e non hanno nulla a che fare con l’amore e dunque diventano inattaccabili: sono argomenti che parlano la lingua dei ragionieri e non è quella dei ragionieri una lingua su cui si possa più di tanto stare a discutere.
Il 18 novembre 2021 dalle 18:00 presso Off Campus San Siro – via Giacinto Gigante, di fronte al civico 5 (Milano) gli autori di L’ultima Milano. Cronache dai margini di una città esporranno la ricerca che li ha condotti alla stesura del libro, in dialogo con Elena Granata, Paolo Grassi e Bertam Niessen, direttore scientifico di cheFare.
Nel libro “L’ultima Milano. Cronache dai margini di una città” gli urbanisti Jacopo Lareno Faccini e Alice Ranzini compiono un’operazione di analisi interessante perché aiuta a guardare la città come non la si guarda mai, e cioè di sbieco, ripartendo dai margini – tanto fisici quanto sociali — per ragionare su un’agenda urbana che smetta di essere esclusiva e si proponga invece di includere e redistribuire la ricchezza che così efficacemente sa generare. L’inchiesta degli urbanisti ruota intorno ai temi della casa, della scuola e dell’accoglienza coniugando le storie particolari delle persone che abitano Milano ai fenomeni generali all’interno dei quali sono costrette a muoversi, spesso a fatica. Ciò che emerge è che il Modello Milano è un modello che ha ancora un’idea di “pubblico” debole, subordinata alle spinte del mercato immobiliare e poco capace di costruire visioni alternative della crescita urbana.
La costruzione di un’idea di città è delegata ad attori privati che ai bisogni pubblici dei cittadini antepongono il bisogno tutto privato di trarre grandi profitti. Accade così che ogni opera di rigenerazione urbana finisce per essere congeniale a una città da consumare, più che da vivere, e va bene fintanto che si accetta di fare aderire la propria vita al consumo. Ne è un esempio eclatante la zona riqualificata di Porta Nuova, dove lo spazio verde che è stato garantito tra i grattacieli e i negozi scintillanti non è un parco ma “un giardino botanico contemporaneo dove vivere esperienze culturali a contatto con la natura”. Questo giardino botanico contemporaneo ha un’aria tutta spocchiosa di vetrina, dove non c’è nulla che rimandi alla libertà e al disordine della natura che se volesse essere inclusa in una città, dovrebbe essere lì a ricordare che non tutto può essere domato e non tutto deve avere una funzione. Dovrebbe essere lì a dire che mentre ci dimeniamo nel costruire e demolire, in un’ansia perenne di appropriazione del mondo, l’erba cresce indolente e indomita.
Se Milano contemplasse una sana dose di disordine e di spontaneità, avrebbe regalato questo luogo ai suoi cittadini perché ne facessero quello che volevano come i berlinesi hanno fatto con Tempelhof, l’aeroporto dismesso in cui oggi si respira l’allegria giocosa dei luoghi liberi e improduttivi, dove ognuno può permettersi di non fare nulla di grandioso. I giardini botanici contemporanei di Milano sono invece lì a gridare, non fosse ancora chiaro, che Milano è corrosa dall’ansia performativa. Che Milano è piccolina ed è nata paperina e che cosa ci vuoi far. Solo le vere grandi città possono permettersi lo spreco e l’improduttività. Solo le grandi e ricche città possono permettersi spazi a cui non è attribuita nessuna funzione redditizia, che sono poi gli spazi dove è più facile respirare a pieni polmoni e tirare il fiato. Milano è piccola e povera e solo per questa ragione è diventata grande e ricca. Non ha potuto sprecare e regalare perché si è sempre sentita in difetto. Anche lo spirito di abnegazione calvinista al lavoro per cui sono presi in giro e invidiati i milanesi, sottrae loro la dimensione del tempo perso, condannandoli a una fretta per arrivare primi ad una gara di cui nessuno conosce di preciso il montepremi.
Le periferie milanesi non ancora gentrificate, e quindi non ancora subordinate alle leggi del mercato immobiliare in mano ad attori privati capaci di grandi investimenti, sono i luoghi in cui mi rifugio quando per le vie cerco un po’ di verità. Via Padova per esempio contiene ancora una vitalità che viene dalla diversità dei suoi abitanti, essendo l’immigrato l’attore sociale più vivo e prezioso di questa città, nonché la chiave storica del suo successo. Via Padova è una via povera ma non lugubre, dove ci si sente davvero liberi di vivere come semplici espressioni umane, con tutti i propri disordini e le proprie contraddizioni essenziali. Corvetto invece è un quartiere povero e lugubre, dove per le strade sembra scorrere uno strano male indecifrabile e misterioso a cui non si riesce ad avere accesso ma che contamina l’aria. Anche la criminalità, il malaffare e la corruzione, a Milano, sono fenomeni altamente organizzati ed efficienti. Lo si mette a fuoco con l’aiuto del libro “Milano sotto Milano. Viaggio nell’economia sommersa di una metropoli” del cronista di nera Antonio Talia, che grazie al suo mestiere rivela ciò che risulterebbe incomprensibile passeggiando in superficie. Il libro segue la corrente di denaro che si muove velocissima sotto la soglia del legale e che trasforma il ricavo di una dose di cocaina o di eroina smerciata nella periferia in quote immobiliari e commerciali nelle patinate vie del centro. “La Milano degli anni Dieci” nota Talia, “è una città che vive di rappresentazioni e messe in scena, dove basta convincere gli altri del proprio potere per risultarne automaticamente investiti.” E questa sua tendenza ormai radicata alla simulazione e alla furbizia ad ogni livello risulta paradossale se si pensa che Meneghino, il personaggio del teatro milanese che dà il nome agli abitanti della città, è uno dei pochi personaggi della commedia dell’arte a non indossare una maschera, essendo il simbolo dalla sincerità e della giustizia.
Per una riabilitazione dello spirito meneghino delle origini servirebbe un po’ meno forma e una maggiore attenzione al contenuto. Meno marketing dell’inclusione e più luoghi dove tutti possano sentirsi a proprio agio con le loro facce non sempre lustre e non sempre fotografabili. Al modello Milano serve ricordare che il rischio che corrono i modelli e le persone di successo è quello di cedere ad una vanità che se all’inizio è ammaliante e fascinosa, dopo un po’ di tempo diventa solo abbagliante e infine solo fastidiosa.