Alcuni mesi fa il quotidiano britannico The Guardian ha lanciato un sondaggio tra i lettori, che mirava a comprendere se, in quale misura e secondo quali modalità, la politica si stia trasformando, o venga di fatto trasformata, dal basso. La questione centrale posta dal quotidiano era se la diffusione delle nuove tecnologie, combinata con una rinnovata fiducia da parte dei cittadini nella possibilità di far sentire la propria voce e influenzare il dibattito politico, anche grazie proprio ai nuovi media, fosse in grado di esercitare una reale capacità trasformativa nei confronti delle forme più tradizionali di organizzazione della politica, lungo tutta la filiera, a partire dalle modalità e dai meccanismi di selezione dei leader, per giungere alla definizione dell’agenda pubblica.
Allo stesso modo, guardando a una scala di maggiore dettaglio, è forse utile chiederci se e quanto queste mutate condizioni stiano contribuendo a cambiare la politica a livello urbano, e in particolare quali impatti le varie forme di attivismo civico abbiano in termini di selezione dei leader locali, definizione dell’agenda e avvio di progetti di trasformazione territoriale, rispetto a filiere più tradizionali delle politiche urbane. Questa domanda sembra essere di grande rilevanza per le città italiane oggi, in particolare, ma non solo, per quelle che affronteranno tra qualche mese le elezioni amministrative. La relazione tra meccanismi decisionali e selettivi appannaggio della politica tradizionale (dentro e fuori i partiti) e meccanismi di selezione e azione dal basso appare tuttavia ancora significativamente sbilanciata verso i primi.
Da un lato ci sono le numerosissime iniziative di trasformazione urbana dal basso, alcune connotate anche in relazione al deposito fisico che producono (riuso di edifici abbandonati, community gardens, …), altre invece legate a innovazioni più immateriali, di tipo organizzativo (come le piattaforme di condivisione di beni, servizi e competenze). D’altro canto, le forme di selezione delle priorità vengono con sempre maggiore frequenza affidate a meccanismi partecipati e condivisi, di tipo crowd, di co-produzione. Il percorso di crowdfunding civico che ha portato al restauro del portico di San Luca a Bologna o i nuovi meccanismi di crowdfunding promossi dal Comune di Milano sono esempi interessanti di questa linea di tendenza. All’opposta polarità dello spettro partecipativo, connotata da spazi di discussione e selezione delle priorità strutturati dalle amministrazioni, troviamo esperienze come i bilanci partecipativi, di cui pure Milano e altre città italiane hanno fatto esperienza negli anni più recenti. In tutti questi casi, oltre a una dimensione di contributo concreto alla vita urbana, vi è una importante dimensione di modifica delle percezioni, delle aspettative e delle potenzialità di far sentire la propria voce da parte di attori non istituzionali, che si accompagna a un uso competente delle nuove tecnologie.
Tuttavia nel complesso i sistemi politici locali, al di là di retoriche molto diffuse, hanno difficoltà ad ammettere la rilevanza di queste pratiche e a lasciarsene trasformare e influenzare, a parte alcune interessanti, quanto circoscritte eccezioni.
Forse è opportuno interrogarsi sul perché questo avvenga. Sembra esserci uno scollamento, una difficoltà di sincronizzazione tra attivismo dal basso e politica locale. In parte questo può essere legato alla difesa di rendite di posizione e alla scarsa attitudine a cedere spazi di potere, che inevitabilmente vengono resi disponibili a un maggior numero e a una diversa tipologia di attori se i processi decisionali divengono realmente più inclusivi e trasparenti e si basano su forme diffuse di co-produzione.
Dall’altro, gli stessi gruppi che si attivano dal basso mostrano in verità dei limiti importanti, nel momento in cui si concentrano sull’oggetto circoscritto della loro azione (tanto più se questa azione è conflittuale) e tralasciano invece di mettere in relazione la loro azione singola con il contesto in cui questa avviene, e in particolare a riconoscere che alcune determinanti strutturali influenzano in modo significativo i campi sui quali cercano di agire, spesso in modo rimediale.
Quello che manca alle azioni, iniziative, attivismo molecolare dal basso non è quindi la capacità di assumersi responsabilità e trattare i problemi, quanto quello di proporre narrazioni capaci di dare senso a quello che fanno, al di là delle retoriche del piccolo è bello. E’ forse questa capacità di connettere in modo convincente cause, situazioni di contesto, ragioni dell’agire/azione, e quindi possibili risultati e impatti che impedisce all’azione e al pensiero dal basso di essere realmente capace di trasformare la politica, in primo luogo quella locale, più ancora forse che i (prevedibili) strumenti difensivi messi in atto dalla politica tradizionale. Una straordinaria capacità di portare questioni e aspetti sull’agenda pubblica, una non trascurabile capacità trasformativa, forse non ancora narrazioni capaci di produrre senso e aperture di orizzonte.