La città intorno: il camp all’Adriano

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Ore 9.30 di venerdì 20 ottobre; centro giovani di via Trasimeno, Quartiere Adriano di Milano. Nella sala in cui si deve tenere il terzo e ultimo giorno di incontri organizzati da cheFare per il camp Civic Media Art del programma Lacittàintorno, fa irruzione un gruppetto di anziani in tuta e scarpe sportive. Il venerdì è il giorno in cui, in quella sala, la mattina solitamente si tiene il loro corso di ginnastica; per cui è comprensibile lo spaesamento nel trovare al posto dell’insegnante una decina di persone intente a fare colazione prima di cominciare i lavori. Niente di grave; il tempo di spiegare perché ci troviamo lì, di far notare che gli organizzatori hanno approfittato dell’occasione per montare dei pannelli di plexiglass dove prima mancavano le finestre e di offrire loro un caffè, e il gruppo di vecchietti si scioglie e inizia a fare ciò che gli riesce meglio: chiacchierare.

    Un’esperienza assolutamente casuale. Ma è anche così che un gruppo di lavoro che contribuisce al progetto La Città Intorno può entrare in contatto con gli abitanti del quartiere Adriano, area al centro di un’importante iniziativa comunitaria di “rigenerazione delle periferie”. D’altra parte, come emergerà più volte nel corso delle tre giornate, le parole d’ordine indispensabili per un lavoro di questo tipo sono due: relazione e fiducia. E così, un piccolo incidente diventa l’occasione per iniziare a conoscersi reciprocamente e prendere le misure del terreno sul quale si realizzerà Civic Media Art, un processo di produzione artistica per promuovere l’attività sociale e culturale nel quartiere Adriano, sfruttando i suoi spazi pubblici.

    Andiamo con ordine: perché se l’obiettivo principale de La Città Intorno è la creazione dei Community Food Hub (in Adriano, ma anche Corvetto e altri quartieri) – vale a dire luoghi polifunzionali in cui il tema del cibo verrà declinato in un’offerta di laboratori, corsi, conferenze e momenti ricreativi – il progetto Civic Media Art, curato da cheFare, si concentrerà principalmente sull’aspetto culturale, ripensando il concetto di arte pubblica, civica, relazionale e ideando anche una produzione editoriale (online e offline) pensata per la zona.

    Adriano è un quartiere di recente costruzione (anni ‘90), che si sviluppa affianco al nucleo storico di Crescenzago, dove la Martesana incrocia via Padova, e in cui – stando a quanto riportato dallo studio eseguito dal Politecnico di Milano – la percentuale di stranieri supera il 20%, l’età media è decisamente giovane e il livello d’istruzione è inferiore rispetto al resto della città. In che modo l’arte, la cultura e le discussioni sociologiche possono contribuire a rivitalizzare un’area della città poco nota e che in alcuni punti assume l’aspetto di quei quartieri dormitorio che punteggiano la periferia della città? “Ancora non sappiamo come finirà questo percorso”, mi spiega la curatrice del progetto Lucrezia Cippitelli, docente di Estetica. “Non abbiamo delle idee predefinite, ma la volontà di fare uscire l’arte dagli spazi in cui solitamente è confinata, trasformando il pubblico in coautore e condividendo il processo di creazione con la gente che abita qui”.

    Questi tre giorni, quindi, hanno l’obiettivo di mettere sotto la lente d’ingrandimento il territorio, attraverso un camp in cui si confrontano realtà culturali innovative che hanno già affrontato percorsi in parte assimilabili in Italia – grazie all’assegnazione dei bandi cheFare o IC (Innovazione Culturale) – e all’estero (com’è il caso della Afrikaanderwijk Cooperative di Rotterdam), assieme a sociologi come Alberto Cossu, urbanisti come Maurizio Cilli ed editori come Giorgio Gianotto. A un primo impatto, sembra di essere tornati all’università: discussioni appassionate, lavagne in cui segnare i concetti fondamentali emersi nel corso della giornata ed esempi di esperimenti del passato, più o meno riusciti.

    Ma c’è una differenza fondamentale: tra i relatori e le realtà culturali che partecipano al camp c’è una relazione biunivoca: “Sono gruppi che in qualche modo stanno già svolgendo il lavoro che vogliamo fare qui”, mi conferma Lucrezia. “Da un certo punto di vista, siamo noi ad avere bisogno della loro esperienza”. Realtà come Super, il festival delle periferie – che da tempo conduce veri e propri tour per far conoscere e apprezzare i quartieri più decentrati di Milano – o la Tournée da Bar, che da anni porta il teatro di Shakespeare, per l’appunto, nei bar meneghini e non solo.

    Il lavoro svolto da Civic Media Art inizierà a concretizzarsi tra novembre e dicembre, quando l’artista olandese Kevin van Braak – specializzato nello sviluppo di progetti culturali che mettono in relazione media, arte, cittadinanza e luoghi specifici – si trasferirà per tre settimane nel quartiere Adriano; per conoscere questa realtà e i suoi abitanti e creare con loro un’opera site specific ancora, per forza di cose, interamente da definire.

    “Ok, ma è un artista vero o uno che lo fa per soldi?”, obietta il signor Giusto, pittore per diletto che gestisce il centro anziani in cui si è svolto il primo giorno di camp. Tocca a Bertram Niessen, curatore del progetto, raccontargli che nel nord Europa questa dicotomia non è così sentita, e che, almeno per loro, passione e soldi non devono escludersi a vicenda. Ma anche solo una timida (più o meno) obiezione di questo tipo fa capire in che direzione si dovrà muovere un lavoro che ha parecchi ostacoli da superare; tra cui quello di non far sembrare l’artista olandese un marziano precipitato nel quartiere Adriano per volere di un gruppo di “intellettuali” che vogliono diffondere la cultura a tutti i costi.

    Non sarà una missione facile; soprattutto in un paese come l’Italia, in cui la distanza tra la cultura e il “popolo” è sempre stata molto ampia, con conseguenze che ancora oggi scontiamo. Un tema fondamentale, di cui mi ha parlato Giorgio Gianotto, oggi consulente di Treccani, prima direttore editoriale di Minimum Fax: “In Italia è sempre mancata una vera attenzione alla cultura pop, a cui si è contrapposto un modo snob di fare cultura che ha tenuto lontana una larga parte di cittadini. Perché in Francia c’è un 78% di lettori e in Italia solo il 40%? Perché da loro la cultura pop è sempre esistita; mentre da noi dobbiamo ricondurre tutto al letterario. Oggi la fantascienza è accettata, per esempio, solo se messa sotto la lente della distopia; ma la cultura non è qualcosa che si crea dall’alto e se vogliamo formare una base culturale anche in quartieri come questo, forse è proprio dal pop che bisogna partire”.

    Parole che in parte riecheggiano quanto sottolineato da Bertram, facendo riferimento alla musica: “C’è un solo strumento culturale che, negli ultimi anni, è nato dal basso radicandosi al di fuori delle istituzioni: la musica hip hop”. E se questo genere – per definizione il più denigrato da certi ambienti (che poi si ritrovano ad ascoltare Gucci Mane nei vernissage alla moda) – oggi si è consolidato nelle periferie, forse è anche merito dei ragazzi che nei centri giovani di quartiere, nei primissimi anni 2000, insegnavano a fare rap e graffiti ai ragazzini e agli stranieri. Un’esperienza che, personalmente, ricordo aver dato grandi soddisfazioni a degli amici che se ne occupavano nella loro zona: Quarto Cagnino, periferia ovest di Milano.

    Ripensando a quel genere di esperienze, ritornano con forza le parole d’ordine dell’inizio: fiducia e relazioni. “A maggior ragione, questo camp andava fatto qui, sul posto, e non in uno dei tanti luoghi in cui solitamente si svolgono questo genere di iniziative, dalla Fondazione Feltrinelli a Base”, racconta Bertram. “Dobbiamo iniziare a prendere contatto, conoscere le persone e il quartiere; e permettere a loro di conoscere noi. Già solo il fatto che, per esempio, il console olandese (l’ambasciata dei Paesi Bassi è partner di Civic Media Art, ndr) sia venuto alla Casa della Carità, di fianco a persone che sono qui magari per farsi la doccia, non è una cosa banale”.

    In effetti, non è banale per niente. Ma la distanza tra il nostro gruppo, presente alla Casa della Carità nel secondo giorno del camp, e chi qui viene tutti i giorni per far giocare i bambini a calcio, per suonare la chitarra, per fare la doccia o semplicemente fumarsi una sigaretta in cortile, si avverte tutta. “Uno dei nostri compiti sarà anche quello di fermarci a chiacchierare per fumare una sigaretta con loro. Non sappiamo quali esperienze e competenze queste persone abbiano; ma potrebbero benissimo essere preziose per il nostro progetto”, prosegue Bertram.

    Le perplessità riguardo la distanza tra due mondi che di solito vivono, letteralmente, a chilometri di distanza, e le difficoltà nel colmare questa lontananza, non sono nulla di nuovo. Me ne rendo conto nel momento in cui Maurizio Cilli apre la sua performance-dibattito (“Il gioco del loco”), nella quale si rintracciano, più articolate, alcune delle domande che vengono subito alla mente: “Come un progetto di arte pubblica rispetta le comunità in cui lavora?”; “l’opera d’arte pubblica deve nascere necessariamente dalla relazione con il contesto?”; “come rendere aperto un progetto di arte pubblica?”, e via discorrendo.

    Le parole chiave che emergono dalla discussione mostrano la strada da seguire, ma anche i timori che un lavoro di questo tipo ingenera: tanto tempo, tensioni fra le persone, responsabilità, conflitto. “È anche per questa ragione che, personalmente, sono così appassionato dai progetti del passato che non hanno funzionato”, precisa Bertram. “Per evitare di ripetere gli stessi errori per gli stessi motivi”. Progetti come quello, tristemente noto, di Gibellina: comune di 4mila abitanti della provincia di Trapani interamente ricostruito in seguito al terremoto del Belice del 1968, con il coinvolgimento di numerosi artisti che, per volontà del sindaco Ludovico Corrao, hanno dato vita a decine di opere a cielo aperto.

    Nelle intenzioni, tutto ciò avrebbe dovuto attirare un ampio numero di turisti, artisti e appassionati d’arte. Le cose non sono andate come previsto, tanto che oggi Gibellina viene definito “un museo in rovina dell’architettura moderna” (a causa delle tante opere in pessimo stato di conservazione), in cui i turisti non si vedono e gli abitanti si sentono alieni nel loro stesso paese. Un’esperienza che mostra tutti i limiti della coprogettazione e di progetti troppo ambiziosi, che, in caso di fallimento, causano danni irreversibili o quasi.

    Ma dove un progetto colossale, di decine e decine di monumenti e opere di grandi dimensioni, fallisce miseramente, ce n’è uno tanto modesto quanto di successo: è l’opera “Legarsi alla Montagna” (richiamata alla memoria durante il primo giorno di camp); happening fortemente voluto nel 1981 dall’artista Maria Lai per coinvolgere l’intera popolazione della cittadina sarda di Ulassai. Le istituzioni volevano un monumento ai caduti, lei rispose con un monumento ai vivi, creato interrogando i vecchi del paese e riscoprendo un’antica leggenda popolare che narrava di come una bambina si fosse salvata da una frana correndo dietro a un nastro azzurro che fluttuava nel vento, fuori dalla grotta dove si era rifugiata durante una tempesta.

    Il progetto era molto semplice: cucire un lunghissimo nastro azzurro di 27 chilometri che avrebbe legato tra loro tutte le case fino a inglobare l’adiacente montagna. La comunità, inizialmente, era recalcitrante: il paese era da tempo immemore fucina inesauribile di rivalità tra famiglie, tensioni e inimicizie. “Dopo un anno e mezzo di gestazione gli abitanti hanno superato la paura, i dubbi, i rancori tra vicini e sciolgono le tensioni”, scrive La Nuova Sardegna. “Per tre giorni lavorano tutti, tagliando i nastri, legandoli alle case, facendo pani da appendere tra un’abitazione e l’altra come simboli di fraternità. Ciascuno diventa artefice e protagonista di quella plastica sociale che va a unire la popolazione in un grande evento di rinascita”.

    Dove un lavoro immane come quello di Gibellina – permanente, eseguito da artisti di fuori, costoso e ambizioso – ha fallito; un lavoro temporaneo, semplice, basato sulla storia locale e progettato da un’artista che in quel contesto è nata e cresciuta può avere invece enorme successo. Un precedente che potrebbe sollevare qualche dubbio sulle possibilità di riuscita del lavoro di Kevin van Braak, non fosse che l’artista olandese lavora proprio sulla necessità di conoscere il contesto, rapportarsi alla comunità e costruire relazioni (e il suo lavoro si è già svolto, in più di un’occasione, proprio in Italia).

    I tre giorni di camp hanno gettato i semi, sollevando un fiume di punti di domanda e di stimoli. È come aver appena iniziato a mettere a fuoco l’obiettivo; ancora non è dato sapere cosa verrà fuori, ma qualcosa, in lontananza, inizia a intravedersi.


    Le fotografie sono di Flavio Pescatori

    CIVIC-MEDIA-ART Milano Adriano

    Note