La storia e le politiche di comunicazione dei musei torinesi sono estremamente interessanti, non solo perché costituiscono un insieme variegato di esempi di buone pratiche, frutto ciascuna di riflessione, di esperienza, di creatività e di lavoro concreto, che hanno avuto tutte un notevole successo e che è opportuno considerare in quanto tali.
E non solo perché, al di là del generico appello alla cultura come giacimento o risorsa economica specifica del nostro paese, raramente ci si è occupati concretamente, in maniera empirica e organizzativa, di come questa risorsa sia di fatto (dis)organizzata e dovrebbe invece essere curata, di quale politiche e di quali tecniche organizzative e comunicative siano necessarie e utili per trasformare l’abbondanza di beni culturali dispersi sul nostro territorio in veri oggetti di fruizione di massa, dunque di crescita culturale collettiva, in fonti di creatività e di sviluppo economico per il territorio che li ospita.
Quel che è chiaro è che vi è stato a Torino uno straordinario investimento sui musei ma più in generale sulla cultura e sull’arte
Al di là di tutto questo, che certamente è importantissimo, il punto che mi sembra fondamentale è mettere in luce analiticamente un esempio di politiche e di pratiche amministrative ben più vasto del caso dei singoli musei, quel che potremmo chiamare il caso Torino. Gli esempi museali qui considerati sono quasi tutti di gestione e proprietà almeno parzialmente pubblica (e altri ancora si potrebbero aggiungere, a Torino e dintorni, come i musei universitari e quello del Castello di Rivoli).
Inoltre, essi sono stati tutti o quasi rinnovati profondamente, restaurati o trasferiti negli ultimi vent’anni o poco più. Il restauro della Venaria, la ristrutturazione del Museo Egizio con il contemporaneo trasferimento della Galleria Sabauda, il nuovo allestimento del Museo del Risorgimento, la fondazione del Polo di Palazzo Reale, con i cambiamenti che ha comportato per le esposizioni che ne fanno parte, per esempio l’apertura di Palazzo Chiablese, la reinvenzione del Museo del Cinema alla Mole, per non parlare di fatti che esulano dai limiti di questo volume come il rinnovamento dei musei universitari, l’apertura della collezione Agnelli al Lingotto, la fondazione della Galleria Sandretto, l’uso di spazi nuovi per grandi esposizioni temporanee come le OGR) sono più o meno contemporanei, risalendo agli ultimi vent’anni o poco più.
Ad essi si aggiunge il recupero di parti storiche della città che per cause economico-sociali erano state abbandonate al degrado (il quadrilatero romano, San Salvario), il progetto e la costruzione di opere affidate a grandi architetti, il lancio di manifestazioni come Torino Spiritualità, Terra Madre, il Salone del Gusto; il rilancio del Torino Film Festival; l’ospitalità fissa a grandi eventi culturali come il Prix Italia; l’invenzione del Salone del Libro e di Artissima. Per non parlare dei due grandissimi eventi costituiti dalle Olimpiadi invernali del 2006 e dalla celebrazione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia nel 2011.
Non è possibile qui entrare nel dettaglio della storia di questi eventi, manifestazioni, istituzioni e neppure esaminarle sommariamente. Quel che è chiaro dal semplice accumulo dei nomi è che, nel periodo che stiamo considerando, vi è stato a Torino uno straordinario investimento sui musei ma più in generale sulla cultura e sull’arte; una concentrazione di iniziative nel tempo e nello spazio del tutto unica nel panorama italiano e con pochi paragoni in Europa. Tutta questa attività ha naturalmente una ragione, anzi un motivo ben chiaro e perfettamente consapevole.
Torino era destinata a far interagire la sua vocazione tecnologica e scientifica con la valorizzazione del patrimonio artistico
È a partire dagli anni Ottanta che la società civile e le istituzioni torinesi prendono coscienza che il vecchio modello economico, culturale e sociale della città industriale, anzi per certi versi della one company town basata sull’automobile non era più sostenibile e sarebbe gradualmente ma certamente venuto meno, al di là delle oscillazioni del mercato e delle dinamiche politiche e sociali.
Si pose allora con urgenza il problema di come cercare di sostituire questo impianto, di come compiere una terza trasformazione in poco più di un secolo: da città di corte e di guarnigione a città industriale, dopo il trasferimento della capitale; da città fabbrica a qualcos’altro quando il modello della grande fabbrica e del suo contorno logistico tramontava velocemente.
Certamente la memoria storica ancora diffusa in città della difficoltà e dei costi sociali ed economici della prima trasformazione, gestita in maniera autoritaria e senza sostituti, furono determinanti nello spingere la classe dirigente a porsi il problema della seconda con sufficiente anticipo. E anche se non vi è oggi, nella grande crisi della globalizzazione, una ricetta facile per far vivere un’economia urbana, la scelta fu abbastanza precisa e condivisa: Torino era destinata a diventare una città dell’industria culturale (come in parte già era, per esempio nel settore editoriale), una città di iniziative e di turismo, una città che avrebbe tentato di fare interagire la sua vocazione tecnologica e scientifica con la valorizzazione del patrimonio artistico; una smart city, come si è incominciato a dire solo qualche anno fa, che avrebbe fatto perno sull’industria della conoscenza.
Tale scelta fu realizzata, è importante ripeterlo, con perfetta consapevolezza, sulla base di studi e piani strategici e fu sviluppata da parte pubblica nel corso di diverse amministrazioni (il Comune, innanzitutto, ma anche la Provincia e la Regione) e di un lungo periodo, cioè di dirigenze e maggioranze politiche variate, con un forte tasso di iniziativa privata concorrente. È un modello di concordia civile che è abbastanza raro da trovare in un paese che ama dividersi per schieramenti, ma che a Torino ha funzionato.
Questo modello è stato infatti portato avanti con la collaborazione delle istituzioni pubbliche, delle principali realtà economiche private, delle personalità intellettuali e sociali che facevano parte della ricchezza della città.
I dati sui musei esposti in questo libro testimoniano innanzitutto di questo sforzo. È alla fine degli anni Ottanta che inizia la progettazione della maggior parte delle realizzazioni di cui si parla in queste pagine e delle altre cui ho accennato, anche se escono dal suo ambito. È difficile dire ora se questo lavoro trentennale potrà avere completo successo. Molti ostacoli sono sorti sul cammino, all’esterno del percorso di rinnovamento.
La distribuzione mondiale della ricchezza è profondamente cambiata in questi trent’anni e così i modelli di produzione e di consumo. Ma certamente molti progetti si sono realizzati. Il forte ridimensionamento dell’impiego nell’industria dell’automobile e del suo indotto non ha provocato la crisi sociale violentissima che si poteva temere.
Torino non ha certamente subìto in questo la sorte estremamente difficile di Detroit e di altri luoghi deindustrializzati. La città, che una volta aveva fama, certamente in parte ingiustificata, di essere grigia e noiosa, priva di divertimenti e di attrattive culturali, è diventata una delle mete preferite dei turisti italiani e stranieri, entrando fra le prime in Italia nella classifiche internazionali come quelle di TripAdvisor e classificandosi al quarto posto (dopo Roma, Venezia, Firenze e Milano) per numero di visite. Lo sviluppo del mercato dell’arte, della produzione cinematografica e televisiva, dei visitatori dei musei, degli studenti non appartenenti alla regione e spesso stranieri che vengono a studiare all’Università e al Politecnico, delle nuove industrie altamente tecnologiche che si sono sviluppate, certamente è frutto di queste politiche. Anche la valorizzazione culturale e commerciale di un settore agroalimentare e vinicolo che certamente è al vertice dell’eccellenza nazionale rientra in questo quadro.
La contestualizzazione che ho sommariamente proposto fin qui per l’analisi dell’organizzazione e delle politiche dei musei torinesi non deve servire, a mio modo di vedere, solo a completare il quadro dei fatti e a rendere più interessante il caso torinese. Vi sono almeno due conseguenze pratiche che si possono trarre da questa storia.
La prima è che in fondo tutta l’Italia si trova oggi ad affrontare un problema analogo a quello cui Torino ha fatto fronte con una collaborazione particolarmente efficace fra responsabilità pubblica e iniziativa privata. Tutta l’Italia si sta velocemente deindustrializzando, non solo per le conseguenze di una crisi non tanto contingente e piuttosto strutturale, ma anche per un mutamento di grandi dimensioni delle ragioni di scambio e della divisione del lavoro sul piano globale.
Questo non vuol dire naturalmente che si debba rinunciare all’industria e all’agricoltura – soprattutto nei suoi settori di élite e di ricerca che possono prosperare anche in concorrenza con i paesi emergenti. Né del resto questa è stata la scelta di Torino, che ha conservato un certo numero di produzioni di eccellenza in settori di punta come quello aeronautico o automobilistico, oltre che nell’agroalimentare. Ma bisogna prevedere un riorientamento generale dell’economia italiana verso ambiti più vicini alla cultura, all’arte, al lusso, al design, al turismo, che del resto la caratterizzano a dir poco fin dal Rinascimento.
Nel corso dei secoli i musei si sono trasformati in tesori collettivi, testimonianze culturali della nazione, luoghi di ricerca e di studio, grandi istituzioni didattiche e di memoria.
Se le cose stanno così, almeno in buona parte, il modo in cui Torino ha gestito la sua trasformazione anche investendo sui musei dovrebbe essere preso in considerazione per molti altri luoghi, magari anche più ricchi di beni culturali, per esempio nel Mezzogiorno, che finora non hanno saputo valorizzarli a sufficienza. E dovrebbe diventare un tema di riflessione a livello nazionale, dove la cultura è spesso considerata materia assistenziale o superflua, mentre dovrebbe essere presa in considerazione la sua capacità di generare introiti, lavoro, vita economica e sociale.
Una seconda riflessione è questa. I musei sono nati parecchi secoli fa come Wunderkammer, depositi di meraviglie artistiche e naturali di signori che univano il collezionismo e la sua esibizione alle loro responsabilità politiche. Nel corso dei secoli si sono trasformati in tesori collettivi, testimonianze culturali della nazione, luoghi di ricerca e di studio, grandi istituzioni didattiche e di memoria.
Con qualche disagio soggettivo sono anche diventati punti focali del turismo e della sua economia. Il tempo presente ne ha modificato le funzioni, aggiungendo a quelle tradizionali il compito di essere “fabbriche dell’esperienza” e luoghi di comunicazione, spazi-eventi, talvolta al limite coi parchi tematici, soprattutto nell’allestimento di grandi mostre. Al centro di queste funzioni ormai molto differenziate vi è la comunicazione.
Una comunicazione molteplice, che viene esercitata istituzionalmente nel suo contesto territoriale, in occasioni speciali per mostre ed eventi, all’interno del museo rispetto ai visitatori, in forma didattica e così via. Ma anche una comunicazione che non ha il museo come solo soggetto e i suoi contenuti come solo argomento, ma che parla anche a nome del suo territorio, che lo esprime e lo caratterizza. Forse questa è la lezione più interessante che si trae: i musei di Torino sono ormai fra i suoi principali mezzi di espressione e di comunicazione.
Il museo presenta la città a se stessa, ai suoi cittadini, e anche ai suoi users più o meno temporanei, siano turisti o pendolari o abitanti del territorio circostante. Vi è dunque un’interazione assai più stretta e consapevole di quanto non accadesse in passato fra funzione museale e rappresentanza del luogo, non solo nel senso delle istituzioni politiche, ma anche di quella costruzione dell’immagine che caratterizza fondamentalmente ogni luogo, gli dà valore e attrattività.
Estratto da Musei di Torino. Nuovi modi di comunicare cultura e bellezza nella prima capitale d’Italia a cura di Emanuele Gabardi , Vittoria Morganti (FrancoAngeli, 2015)
Foto di Dannie Jing su Unsplash