Pubblichiamo un estratto dal libro È qui il mio respiro di Luca Bergamo. Edito da Luca Sossella Editore. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Per una capitale dell’intelligenza e della cura
Le parole “intelligenza” e “cura” sono raramente messe in relazione l’una con l’altra; tuttavia, il concetto stesso di sostenibilità implica una loro stretta connessione. Ci sono voluti cinquant’anni perché il limite alla crescita di cui parlava il Club di Roma di Aurelio Peccei nel rapporto del 1972, divenisse consapevolezza diffusa (non generale). Eppure, nonostante già nel 1968 Robert Kennedy demolisse il valore del PIL come misura dello sviluppo nel memorabile discorso alla Kansas University, la variazione del prodotto interno lordo continua a essere usata come unica misura per indicare lo stato di salute di un paese.
Uno sguardo meno mercantilista di quello cui ci siamo costretti da decenni su cosa sia intelligente, non solo è maturo, ma indispensabile. Non è intelligente, ad esempio, consumare le risorse naturali oltre il limite della capacità di rigenerazione. Non è intelligente distruggere una foresta perché il valore commerciale di un albero morto è superiore a quello di uno in buona salute. È intelligente prendersi cura della salute di foreste, campi e mari – ovvero spendere denaro o rinunciare a profitti, ad esempio della pesca, dell’agricoltura, della deforestazione intensive – perché dalla loro salute dipende la nostra sopravvivenza. È intelligente – lo avevano capito bene gli estensori della Dichiarazione universale dei diritti umani – prendersi cura degli strumenti culturali che le persone sviluppano attraverso le esperienze di vita, non solo con la formazione, perché dalle loro caratteristiche dipende la qualità della cittadinanza e da questa il funzionamento della democrazia o i valori che ispirano la collettività.
Non è intelligente distruggere una foresta
Concorre perciò all’intelligenza di una comunità il valore delle esperienze culturali che fanno i propri membri, in ragione degli impatti che queste generano sulla trama sociale, o sull’arricchimento del bagaglio culturale di chi vi partecipa. O ancora del clima che queste esperienze generano nelle comunità in cui si svolgono, o dell’impatto sulla salute di persone malate. Non contribuisce allo sviluppo dell’intelligenza di una comunità inquadrare la vita culturale solo nella sfera del consumo privato e dei servizi al tempo libero delle persone, come non è intelligente valutare la rilevanza delle diverse attività solo in ragione del consenso che ricevono o del loro successo commerciale.
Nelle città si frammentano le identità collettive e il tessuto sociale. È un fenomeno collegato all’urbanizzazione e alla perdita di coesione di nuclei sociali (la famiglia estesa in primo luogo) antichissimi. La scomparsa di identità collettive “totalizzanti” che collegavano chi condivideva una determinata posizione nei rapporti di potere (mercante, artigiano, operaio…) collegati al controllo dei processi di produzione della ricchezza, accentua questa frammentazione. Ciascuno si sente molto più individuo che parte di un gruppo per non dire di una classe. È una conquista per molti aspetti, che però viene insieme a una crescente solitudine di fronte alle sfide personali della vita e a quelle da affrontare come collettività. Solitudini spesso drammatiche, dentro cui si perde il senso e il desiderio di essere vivi o si nutre l’invidia, l’astio e l’odio che nascono dalla paura per sé e che sono alimentati da chi sulla paura specula per “unire contro” allo scopo di raccogliere potere. Stimolare, favorire la formazione di relazioni che consentano a ciascuno di maturare il senso di appartenenza a una comunità urbana di nuova concezione, a una “famiglia” che si estende ben oltre i confini dei legami parentali, è un obiettivo fondamentale di una politica intelligente; un contributo all’intelligenza che nasce dalla cura della comunità. Una cura del prossimo che ha poderose radici e mille volti nell’associazionismo di matrice religiosa, cattolica in primis, e laico di cui Roma e l’Italia sono ricche.
Mi pare intelligente coinvolgere le persone anziane, insieme ai giovani NEET (non riescono a studiare, lavorare o formarsi) nella cura di base del territorio e della comunità anche se ciò “comprimesse” lo specifico mercato dei servizi: aree verdi quartierali, parchi, gestione del patrimonio culturale minore, decoro urbano, integrazione dei servizi a supporto delle famiglie con figli piccoli in età scolare. Mi pare intelligente prendere esempio dalle nuove forme di residenza sociale, di cui vi sono esempi nati attraverso le occupazioni, che lo Stato dovrebbe cercare di ricondurre nella piena legalità invece di combattere a priori, per mutuare modelli di gestione che sono di grande interesse. Questo genera comunità, relazioni, senso di appartenenza, identità sociale, scopo: tutte cose che non si contano nel PIL ma che fanno coesione e con essa un terreno più fertile anche all’evoluzione del mercato di beni e servizi verso prodotti a più alto valore aggiunto. D’altronde, parlando di lavoro, l’incorporazione nella tecnologia di intelligenza operativa (e non solo), se solleva noi umani da incombenze noiose o pesanti, conduce a una società in cui ipoteticamente ci sarà meno “lavoro”, almeno come lo conosciamo oggi, in parte significativa anche dei servizi, in termini assoluti e percentuali. Possiamo sperare che la fase creativa dei processi produttivi sia in espansione almeno per un medio periodo, così anche l’occupazione correlata, specie se non ci si limita a considerare creativo il solo prodotto di algoritmi capaci solo di ricombinare conoscenza già espressa.
È chiaro inoltre che la qualità, l’intensità e la diversificazione della capacità creativa di una comunità, sarà determinante sia in chiave di competitività sui mercati, che per migliorare la qualità della vita attraverso innovazioni che riguardano l’organizzazione dei servizi alla persona e al territorio. Sarebbe intelligente per una collettività che si dichiara “fondata sul lavoro” l’obbligo di estendere il significato della parola lavoro anche a tutte quelle attività che generano valore sociale ma non monetario, altrimenti le sue stesse fondamenta saranno sgretolate dalla trasformazione tecnologica e dal suo impatto sul mercato del lavoro classico. Detto questo, sostituire l’andamento del PIL come indicatore del progresso di una società è indispensabile. È intelligente investire nell’intelligenza, nell’esplorazione dell’ignoto e nella condivisione della conoscenza, nella propensione a creare. L’innovazione dipende certamente da quanto se ne senta la necessità, come singoli e comunità. Dipende da un’attitudine, una propensione che si respira nell’aria, le quali a loro volta sono influenzate dalla posizione che si attribuisce alla conoscenza e alla creatività nella scala dei valori di una comunità. Dipende dalla fiducia che si nutre nella possibilità di orientare il corso delle cose, il futuro, e dal riconoscimento sociale che ottengono. E queste, in ultima analisi, sono strettamente collegate alla qualità, estensione e compenetrazione nella vita civile dell’alta formazione e della ricerca, quella di base prima di tutto. Roma non è un museo per turisti, la capitale d’Italia non può essere “asservita” agli interessi e ai bisogni di un’economia che la vede come una pietanza da consumare, magari frettolosamente.
Per le stesse ragioni che hanno reso necessario e possibile articolare una politica di promozione della cultura scientifica, Roma è già una città dell’intelligenza, uno spazio vivo di sperimentazione e creatività contemporanea. Ricordavo diverse pagine fa che Roma è ampiamente la prima città italiana per ricerca scientifica pubblica, accoglie 250mila studenti che frequentano oltre quarantacinque istituti universitari, produce audiovisivo più di Milano, Venezia, Torino e Napoli messe insieme, è sede di una ricchissima la galassia di case editrici di media e piccola dimensione, della Rai, di innumerevoli istituzioni e imprese culturali. Il valore aggiunto per il 2022 del Sistema Produttivo Culturale e Creativo di Roma è stimato in oltre 13 miliardi di euro, e sono oltre 170mila le persone occupate. Tuttavia non si sente un città che produce conoscenze e cultura, come se la maestosità del suo patrimonio culturale impedisse di vederne in pieno la bellezza e le potenzialità. Continua a volgere lo sguardo ai seri malfunzionamenti che ne affliggono la vita quotidiana, si umilia in una permanente litigiosità pubblica senza accorgersi che la risposta ai suoi mali risiede anche nel riconoscersi e rappresentarsi per ciò che già è e su cui potrebbe seriamente investire, non solo come un meraviglioso parco culturale, la cui bellezza viene sfregiata dalla disfunzionalità dei suoi servizi di base (cosa peraltro vera).
Sebbene la presenza della chiesa cattolica sia pervasiva e ben visibile nella città fisica, nella vita economica e nella vita civile, sembra sfuggire alla coscienza collettiva che Roma è uno dei pochi posti al mondo dove è possibile un vero confronto tra le religioni. Una necessità questa per sperare in un mondo meno minaccioso in cui immaginare modi migliori e più sostenibili di vivere. Come altre città in Italia ed Europa a dire il vero, è stato commesso un grave errore anni addietro. Per compensare la crisi dei settori produttivi che tiravano l’economia locale si è scelto di scommettere sul turismo di massa, invece che investire in un piano di lungo termine per farne una capitale della conoscenza e cultura. È un errore che continua a essere ripetuto incessantemente anche perché ha dei numeri dalla sua, se presi in considerazione solo dalla prospettiva di questo presente continuo. Senza contare il cosiddetto turismo in nero nel 2019, prima dello stop, Roma ha registrato oltre 48 milioni di presenze turistiche. Nel 2023 ha appena superato quei livelli. Una media di 135mila turisti al giorno, quasi l’intera popolazione di Cagliari che vive in 84 km2, si riversa nei 14 km2 del centro città, in aggiunta a chi lavora nel centro – uffici e attività commerciali – ma vive altrove.