Dalla metà dell’‘800 e fino agli anni ‘30 del ‘900, la Francia ha sperimentato la nuova architettura, pensata spesso altrove ma la cui realizzazione, per ragioni sociali e politiche, si è concentrata qui. Ma questa nuova concezione degli spazi, della luce e, come emerge dagli scritti di Giedion, dell’aria, non sono frutto della fantasia e delle visioni degli architetti. Sono i materiali ad aver reso possibili queste soluzioni, impensabili nella età della pesante pietra sovrapposta, dei materiali per cui l’unica possibilità era la compressione e la sfida alla forza di gravità aveva margini di manovra minimi. In questi sessant’anni a cavallo del ‘900, ferro e cemento sono i materiali introdotti su larga scala nelle costruzioni francesi. Dopo di essi, il mondo non sarebbe più stato costruito come prima, per sovrapposizione e compressione appunto, ma le piante si sarebbero liberate dai vincoli, gli edifici aperti all’ingresso della luce e dell’aria.
Bisognerebbe raccontare la storia del libro “Costruire un Francia. Costruire in ferro. Costruire in cemento” (Quodlibet, a cura di Emiliano De Vito) senza cadere nel linguaggio della critica. La ragione è che questo è un libro tutt’altro che tecnico, non lo è nelle intenzioni dell’autore, Sigfried Giedion, storico dell’architettura che ha dedicato la sua vita a dare un perimetro alle teorie del modernismo, probabilmente tra i movimenti più carichi di definizioni, teoremi e regole della storia dell’architettura. Quodlibet ha deciso di tradurre e pubblicare questo testo – a 94 anni dalla prima edizione, del 1928 – mantenendone l’impianto grafico e tutte le scelte stilistiche che ne fanno un volume pensato per essere letto su tre livelli, come avverte la nota preliminare. “Il libro è stato per quanto possibile redatto e composto in modo che: il lettore frettoloso possa evincere dalle illustrazioni con didascalia il corso dello svolgimento, il testo fornisca motivazioni più circostanziate, le note diano indicazioni più diffuse”. Sono scelte, queste, datate 1928, stesso anno in cui Giedion fondava insieme a Le Corbusier i CIAM, i congressi che volevano diffondere i principi di razionalità e funzionalità in architettura.
Il fattore che ha permesso questa esplosione è stata l’industria. È nell’innovazione industriale, infatti, che si è completato il passaggio dal lavoro manuale al lavoro meccanizzato.“Lavoro meccanizzato vuol dire organizzazione in serie, precisione” scrive Giedion “Il lavoro manuale ha il suo fascino particolare che non potrà mai essere sostituito: la unicità del prodotto. Ma senza lavoro meccanizzato non si dà tecnica avanzata”.
È incredibile leggere della cieca fiducia nell’industria, utile soprattutto ai fini creativi, che emerge da queste pagine, ci si ritrovano tutte le aspettative che la nostre generazioni hanno riposto verso tutte le fasi della rivoluzione digitale, vissuta come la soluzione di ogni problema e risposta alle domande della società contemporanea. L’utilizzo del ferro – e del suo derivato, l’acciaio – e del cemento non sarebbero stati possibili senza l’industria, ma soprattutto senza un impianto formale a garanzia della ricerca: il brevetto, oggi uno strumento piuttosto controverso soprattutto in ambito di architettura e design.
A metà ‘800, le industrie sono stimolate dai brevetti: così nasce e si diffonde il cemento armato, in tutti i suoi utilizzi e le sue declinazioni. Sono anni, questi, in cui la paternità delle soluzioni viene palleggiata tra ingegneri e architetti, e tutto il libro è attraversato della speranza di un rapporto simbiotico tra le due professioni. “È il cemento, secondo Giedion, a formare le basi di una nuova architettura in Francia” scrive Jean-Louis Cohen nell’introduzione al libro “Prodotto di laboratorio quale è, esso esige una nuova struttura di impresa, come pure nuove forme; ma permette anche di introdurre il concetto di costante nazionale, tanto l’architettura è legata alla “struttura sociologica” di ogni Paese. Il temperamento costruttivo dei francesi si contrappone così al talento organizzativo proprio degli americani e alla perfetta formazione degli artigiani olandesi”.
Lo sviluppo dell’industria richiama in Europa le grandi esposizioni internazionali, terreno di sperimentazione per l’architettura, dal momento che “le esposizioni nel loro corpo non rappresentarono soltanto bilanci dello sviluppo, piuttosto lo colsero in anticipo”. Ingegneri e architetti progettano nuovi edifici in tutta Parigi e trovano soluzioni alternative al legno per la struttura e per le coperture. Una delle ragioni è che il ferro, a differenza del legno, resiste al fuoco (certo, resiste al fuoco ma non al calore, scoprirà scioccata la nostra generazione con il crollo, ad esempio, delle Torri Gemelle, un secolo dopo).
Les Halles, il Bon Marché, fino alla Tour Eiffel, il manifesto di questa evoluzione, costruita in diciassette mesi, con i pezzi che arrivano in cantiere già curvati e pre-forati, con un margine di errore di un decimo di millimetro. È la precisione dell’industria che genera un’armatura in grado di elevarsi fino a trecento metri dal suolo.
E poi, l’altro protagonista è il cemento, un composto chimico creato in laboratorio in grado di arrivare dove non avrebbe potuto la pietra. Per parecchio tempo viene usato come materiale di riempimento, finché le cose non si capovolgono: se è il ferro a venire immerso nel cemento – anziché avvolgerlo e contenerlo – i due materiali possono collaborare attraverso la trazione e la compressione, la flessibilità e la forza. E questa diventa una storia di brevetti, appunto. Per alcuni anni l’edificio in cemento armato sarà ancora la somma di blocchi separati, è Hennebique che nel 1892 ottiene il brevetto per le poutre à étrier, le travi con staffe, ovvero la soluzione alle giunzioni tra le parti che costituiscono l’edificio: è il monolite in cemento armato.
La terza parte del libro è dedicata all’uomo che ha raccolto l’innovazione industriale e l’ha utilizzata per rispondere alle domande della società del ‘900: Le Corbusier. È lui a creare la “casa eternamente aperta”, a fare entrare l’aria e a renderla fattore costitutivo. “Le case di Le Corbusier sembrano esili come carta” scrive Giedion. Il cemento armato rende possibile ricorrere a pilastri sempre più esili e sempre più robusti, in grado di sostenere l’edificio senza occupare spazio. Un continuo riferimento alle strutture dell’antichità – Le Corbusier studierà molto, da giovane, l’archeologia e i ruderi – e alle visioni del cubismo: superfici, linee e spazi che si compenetrano. In questo modo, gli ambienti possono dialogare non solo in orizzontale, in pianta, ma anche in verticale (la scala a chiocciola, ancora oggi utilizzata come riferimento estetico al moderno, è il collegamento aperto tra gli spazi verticali). Scrive Giedion “si giungerà a quel punto che Corbusier ha indicato quale discrimine tra il Partenone e l’automobile: il movimento interno.”
Tecnologia e sviluppo hanno aiutato architetti e ingegneri a gestire quella che è la più invisibile delle sfide: la forza di gravità. E i testi raccolti in “Costruire in Francia. Costruire in ferro. Costruire in cemento” spiegano esattamente come siano stati i materiali ad aver reso possibile questa rivoluzione che riguarda, oggi, le nostre città, la nostra società, le nostre esistenze.