Il corpo della città tra conflitto e resilienza

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    Una sera di qualche settimana fa stavo tornando a casa su un treno ad alta velocità. Le grandi città italiane sono ormai collegate da queste lingue di asfalto e ferro che garantiscono connessioni velocissime. La metropolitana d’Italia. Un paese capace di contrarre lo spazio perché ti permette di risparmiare tempo. Un’idea antica, quasi tradizionale, simbolo più dell’utopia della modernità (quando vedevamo i film degli anni Venti che esaltavano la frenesia della vita nella grande metropoli, ad esempio) che della post? ultra? iper? modernità che stiamo vivendo giorno dopo giorno, dove la connettività diventa il principio fondamentale della crescita e le città dialogano tra di loro in una costante rapsodia che segue due linee principali.

    Quella ufficiale, e quella che sta sotto. Quella ufficiale è legata all’idea della “Città che cambia” secondo le logiche del restyling e del lusso. Su quel treno ho sfogliato la rivista della compagnia che proponeva un servizio intitolato proprio Come cambiano le città. Un servizio di poche pagine, con poche righe di testo, che raccontava il cambiamento di Roma e Milano grazie alle recenti inaugurazioni del nuovo centro congressi dell’EUR progettato da Massimiliano Fuksas e la Fondazione Prada.

    La rivista della compagnia mi stava suggerendo – così come suggeriscono tutte le riviste di tutte le compagnie che si occupano di trasporto umano – l’idea di una mutazione metropolitana legata alla ristrutturazione di uno spazio senza considerare l’impatto sociale di quei progetti: aumento degli affitti e dei prezzi del servizio, perdita di identità di un quartiere, imposizione di un modello economico e di business che uniforma quel luogo a tutti gli altri luoghi simili.

    Poi, certo, possiamo ragionare nel merito di quanto sia artisticamente e architettonicamente rilevante la Fondazione Prada e di come abbia dato lustro, pur restando sostanzialmente una cattedrale nel deserto, al suo quartiere. Ma il discorso è un altro. Questa, insomma, è la narrazione ufficiale della città che cambia. La città che diventa sempre di più una sorta di Disneyland in cui troviamo sempre la bussola per essere a nostro agio in un sistema di segni riconoscibili, tangibili, globali.

    C’è poi una seconda città. Quella che non esiste nelle riviste delle compagnie di trasporti e che non emerge negli indicatori sulla qualità della vita per suggerire ai manager dove andare a vivere. Quella, insomma, di cui non ti accorgi fino a quando non sei in campagna elettorale e ti rendi conto che non hai gestito per niente – o l’hai fatto male – e di solito perdi le elezioni. È una città viva, un corpo in continua definizione, che non puoi gestire secondo la pianificazione classica e non si accontenta di una vetrina lucida e patinata per attirare grandi capitali da fuori. È la città del meticciato, che si fonda sulle contraddizioni, sulla frenesia nervosa, sulla percezione di novità e che plasma costantemente il mondo a venire. Quella città, insomma, che definisce il nostro essere contemporanei, quel fenomeno incomprensibile che rappresenta «l’espressione più pura di quel che siamo in quanto esseri umani, nel bene e nel male». È la città che indaga Suketu Mehta nel suo recente e assai dibattuto La vita segreta delle città, edito da Einaudi.

    Nel 1961, Jane Jacobs pubblica The Death and Life of Great American Cities, uno dei testi più importanti per comprendere di cosa vogliamo parlare quando parliamo di città. In un periodo storico che avrebbe aperto la porta alla stagione del postmoderno, con un grande progresso tecnologico che avrebbe reso molto più facile per le persone muoversi in giro per il mondo, Jacobs stravolge la visione della pianificazione strategica delle città affermando che la comunità non può essere in qualche modo imbrigliata, guidata dall’alto. Esiste un’idea di città, ed esiste un utilizzo della città. Questo utilizzo è quello che poi formerà il respiro, l’abito, la cultura, l’identità di un luogo. Noi possiamo – e ancora oggi facciamo questo grandissimo errore – pensare che la città possa essere governata attraverso una serie di norme, codici, regole, ma non possiamo escludere dal novero la complessità crescente delle situazioni sociali. È proprio questa città che indaga Mehta.

    Cosa succede nel fiume carsico che si muove sotto gli affitti che non possiamo permetterci, sotto i grattacieli delle grandi banche e i palazzi monumentali sulle Main Street tutte uguali di tutto il mondo. Come si forma lo spazio mentale che ogni cittadino si crea nella sua psicogeografia unendo allo sguardo razionale di chi si muove nei posti cercando di coglierne le sfumature, lo sguardo di chi – come Mehta – non si sente appartenere in nessun luogo definendosi ‘interlocale’, cioè colui il quale «Mette in rapporto fra loro due o più luoghi che lo riguardano profondamente, e non si sente legato in modo particolare a una singola nazione».

    È una condizione iper-moderna, se vogliamo, che rappresenta una controtendenza rispetto all’attuale configurazione mondiale che, attraverso scellerate scelte politiche e errori che arrivano da lontano, sta andando contro la concezione di un mondo aperto per tornare a un’età dei confini. A una concezione ‘aperta’ di Mehta e i camminatori interlocali di una comunità-mondo che si forma nella rizomatica rapsodia dei segreti, dei tumulti e della vita si contrappone una sorta di internazionale ‘neo-sovranista’ che, attraverso la paura e la mania del controllo, cerca di ristabilire un ordine che è stato sempre e solo normativo, mai effettivo se non nella testa di qualche esaltato che pensa che mettere un muro equivalga ad aver risolto la complessità del mondo.

    C’è qualcosa di francamente autolesionista nel progetto ‘neo-sovranista’ e nella sua dimensione anti-storica. Il mondo si sta contraendo sempre di più. Le infrastrutture sempre più innovative e sperimentali permettono di muoversi con una sempre maggiore velocità e libertà. I dati viaggiano sempre più veloci e abbiamo la possibilità di connetterci allo scibile umano attraverso un apparecchio che puoi trovare anche a meno di 100 euro.

    Al netto delle contraddizioni e dei lati oscuri della globalizzazione, che sono sotto gli occhi di tutti, sono conosciuti, e hanno creato le condizioni di una crisi che ha ormai riconfigurato completamente il mondo in cui viviamo, pensare di tornare indietro è sbagliato. Fosse anche solo per una mera ragione di “spazio” e di gestione dell’effetto entropico per cui dei processi che sono stati innescati non possono essere semplicemente evitati.

    Facciamo un esempio, che c’entra molto con La vita segreta delle città. Teorizzando la condizione del migrante interlocale, Mehta racconta di come il meticciato, il mescolamento, il flusso migratorio abbia fornito alla città una linfa vitale che le permette un continuo mutamento, un costante aggiornamento, e il suo essere sempre e comunque l’orizzonte di avanguardia dell’umano. Nel 2050 la condizione della disuguaglianza mondiale, i cambiamenti climatici, le guerre per la spartizione delle risorse naturali rimaste farà crescere la popolazione migrante fino al miliardo di persone. Si tratta di un miliardo di persone che vorrà andare da un punto A a un punto B che avranno bisogno di un posto dove andare. Come puoi pensare di rispondere al mondo nuovo e ai suoi problemi mettendo muri, ergendo confini, ritorno allo stato-nazione?

    Nel suo recente Connectography, Parag Khanna (anche lui, come Mehta, indiano) cerca di spiegare come l’elemento principale della contemporaneità sia la “connettività”. Attraverso questa accelerazione di contatti e riduzione delle distanze (sia di tempo, che di spazio), viviamo in un mondo estremamente connesso, che ha rinunciato al confine fisico. Il movimento delle merci, delle informazioni, del denaro, delle persone permette una crescita sia economica che culturale. Uscendo dalla rigida fissità dei confini, creiamo una grandissima infrastruttura globale in cui si sono rovesciate le priorità di controllo e di governance. È una crescita che deve tenere uniti vari fattori, come cerca anche di spiegare Moisés Naím nel suo discusso La fine del potere.

    Questa accelerazione globalista si basa su tre rivoluzioni. La rivoluzione del più (meno barriere, più difficili da controllare); la rivoluzione della mobilità, e quindi una maggiore velocità a poter muoversi dentro il mondo; la rivoluzione della mentalità, l’epoca con il più grande accesso all’informazione e alla possibilità della cultura mai visto prima. Per Naím, inoltre, la crisi del potere propriamente inteso – tesi che va inserita in una più generale discussione sul crollo delle grandi narrazioni, sull’assetto del mondo all’epoca del postmoderno realizzato e dell’egemonia del pensiero debole – permetterebbe la creazione di “poteri laterali” che si esprimono attraverso spazi politici nuovi e radicali (ad esempio nella retorica che si sposta da destra/sinistra a alto/basso). Se quello che suggeriscono queste letture è la messa in discussione dell’entità “stato-nazione”, il mondo nuovo dovrà ripartire dalla sua unità di avanguardia per eccellenza. L’uomo dovrà essere proprio lì dove “succedono le cose” andando oltre ogni possibile calcolo economico. La città. Perché «nelle città, per quanto orrende possano essere, c’è qualcosa che parla a qualcosa che abbiamo dentro in quanto esseri umani: il bisogno di vivere vicini, l’eccitazione metropolitana».

    La città ha una missione per costruire il mondo a venire: essere l’argine culturale, sociale, fisico alla nuova età sovranista. Nei giorni scorsi, i sindaci di Chicago, Boston e New York – ad esempio – si sono opposti come hanno potuto agli ordini esecutivi di Donald Trump, dimostrando che c’è la possibilità di decidere da che parte stare. Sadiq Khan, sindaco di Londra, ha avuto una presa di posizione chiara dopo la Brexit dichiarando la necessità della capitale inglese di essere sempre (e per sempre) il crocevia di culture, approdi, partenze. Le città dialogano tra di loro come dei corpi senzienti, in continua evoluzione, capaci di innescare il conflitto e capirne nelle pieghe più profonde i suoi mutamenti. La città ha la sua “complessità morale”, scrive Mehta, ed è un luogo dove «non tutti sono inclusi, ma nessuno è escluso».

    Per questo, ascoltandone la vita segreta, la comunità che si oppone alle storture, alle disuguaglianze, all’orrore diventato atto normativo, può generare un progetto di “azione politica” che rimetta al centro la complessità, la ricchezza e la contraddizione. La città vive quando non si nega, non si forza, non si piega a dei voleri anti-storici. Meccanismo resiliente per definizione, la città può essere (senza escludere ed entrando in relazione dialettica con quello che c’è fuori, la non-città, i sobborghi, le campagne) il punto di ri-partenza. Basta ascoltarla e aggirare i muri che lasciano fuori. Del resto, «in una città grande non riesci a trovare il meglio, però sai che c’è, appena fuori dalla tua portata, e quindi continui a lottare».

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