Per un’università come spazio sociale di riflessione e di critica

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    Il discorso pronunciato nel 2021 da Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi in occasione dell’annuale cerimonia di consegna dei diplomi della Scuola Normale Superiore di Pisa – forse il momento più solenne e simbolico del percorso di formazione normalistico – è presto diventato virale e ha sollevato un intenso dibattito a causa delle ferme prese di posizione che conteneva: critiche profonde al sistema universitario nel suo complesso, alle dinamiche che dominano il mondo della ricerca e della formazione superiore in Italia, e al ruolo che in questo contesto gioca anche l’istituzione che le tre studentesse hanno frequentato: la Scuola Normale Superiore, una delle più prestigiose sedi universitarie del mondo. Il discorso tuttavia non era una presa di posizione individuale, ma esprimeva il punto di vista di un gruppo più esteso di studenti e studentesse, che hanno accettato di rispondere collettivamente alle mie domande.

     Come è nato il discorso? Quale processo di discussione lo ha generato, in che modo è stato condiviso e quanto può considerarsi estesa l’adesione alle posizioni che esprime?

    Il discorso è nato dal lavoro di un gruppo di diplomate e diplomati della Classe di Lettere e ha alle spalle anni di riflessioni e confronti sui temi sollevati. A queste riflessioni abbiamo voluto provare a dare forma, anche alla luce delle esperienze condivise durante il nostro percorso. Certamente è stato importante ritrovarsi a discutere partendo da sensibilità e idee molto vicine: sui processi in atto nel mondo universitario, sul ruolo del finanziamento pubblico, sul diritto allo studio, sulla retorica dell’eccellenza. Anche se il discorso è stato scritto da noi compagne e compagni d’anno, le posizioni espresse sono ampiamente condivise, in particolare all’interno del corpo studentesco.

     Se ho capito bene il vostro gruppo è composto interamente da studenti e studentesse della Classe di Lettere. Il discorso della rappresentante della Classe di Scienze è stato sostanzialmente diverso nei toni e nei contenuti: è il sintomo di qualche divergenza e di una divisione del corpo studentesco? E se questa divergenza esiste, credete possa dipendere dal diverso statuto sociale, dal diverso peso e dalla diversa rilevanza percepita che hanno i due campi disciplinari, quello scientifico e quello umanistico?

     Non è la prima volta che i discorsi delle due classi sono molto lontani, nei contenuti come nei toni. Su questa diversità la Scuola dovrebbe interrogarsi seriamente. Al livello delle esperienze interne alla Scuola, esistono delle differenze tra le due Classi: rispetto alla performatività e all’individualismo che caratterizzano molte delle nostre prove, il percorso delle allieve e degli allievi di scienze è spesso contraddistinto, fin dai primi anni di università, da un lavoro più collettivo. Le pressioni sul singolo risultano quindi attutite dalla dimensione laboratoriale e di gruppo. Su un piano più generale, c’è sicuramente una questione di importanza percepita, e quindi di legittimazione, diversa delle discipline scientifiche rispetto a quelle umanistiche. Sono però soprattutto le diverse prospettive per il futuro a spiegare probabilmente perché vediamo questi problemi con più forza. Le storture di cui abbiamo parlato abbracciano comunque tutto il mondo universitario: le aree scientifiche, per quanto in media privilegiate in una competizione per risorse sempre più scarse, non ne sono immuni. In questo senso, ci hanno fatto piacere i molti messaggi di condivisione arrivati da studentesse, studenti e docenti di discipline scientifiche di vari atenei italiani. Questi messaggi dimostrano che il disagio per un sistema malato è trasversale alle varie aree.

     Ascoltando il discorso ho avvertito tre diverse “sofferenze”, o insofferenze, che venivano denunciate: la prima dovuta al sistema universitario “nuovo”, post-riforme Moratti e Gelmini potremmo dire, che esaspera la burocratizzazione dell’esperienza formativa, costringe la ricerca a una sorta di produttività compulsiva spesso incompatibile con l’elaborazione della conoscenza, e vincola le forme dell’università alle logiche della competizione; la seconda legata al sistema universitario “vecchio”, alle sue tradizionali inerzie, alla creazione di gerarchie soffocanti che impongono obbedienza e sottomissione; la terza – meno evidente forse, ma non meno importante – dovuta a un’idea del sapere inteso come faticosa e spesso dolorosa conquista, scavo, macerazione, privazione, resistenza, della quale in qualche modo è intrisa l’etica implicita della Scuola Normale e delle istituzioni d’eccellenza. Riconoscete questi tre tipi di sofferenza? In che rapporto stanno tra loro? Quale vi sembra prioritario e determinante nella crisi del sistema universitario che avete denunciato?

     Questi tre piani sono strettamente legati tra loro nella nostra esperienza, così come nella riflessione che abbiamo portato avanti sul sistema universitario. La burocratizzazione e la spinta alla produttività sono parte del processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale che abbiamo provato a raccontare. La retorica del merito e dell’eccellenza nasconde una realtà in cui i tagli e lo spostamento dei finanziamenti dal diritto allo studio verso logiche premiali lasciano vincere sempre gli stessi, riproducendo e aggravando le disparità. Mentre sempre più pochi vanno avanti, le altre e gli altri sono lasciati irrimediabilmente a terra. L’etica del dolore e del sacrificio, di uno studio che alla fine premia i migliori, mentre chi resta indietro ha solo sé stesso/a da incolpare, è una declinazione di questa retorica. Oltre che profondamente ingiusto, si tratta di un meccanismo anche controproducente: la qualità della formazione e della ricerca guadagnerebbe molto da un sistema più inclusivo e diversificato, che non cerchi di omologare l’istruzione e la conoscenza a ‘prodotti’. In questo quadro, l’inerzia e il conservatorismo propri di una parte del mondo accademico, impegnato anche a salvaguardare la propria posizione e le proprie certezze, aggravano ulteriormente la situazione. Restare indifferenti o nascondersi dietro lo specchietto della meritocrazia significa contribuire a inasprire quelle differenze, che chi dedica la propria vita all’istruzione e alla ricerca dovrebbe invece impegnarsi a rimuovere.

     Nel discorso avete attaccato frontalmente quella che definite “università neoliberista”, e questo punto in particolare ha attirato critiche anche aspre. L’obiezione in sostanza è che gli evidenti problemi dell’università italiana non hanno a che fare con il liberismo, semmai con il suo contrario: un immobilismo fortemente controllato da dinamiche “statalistiche” e tipiche del settore pubblico, una impossibilità di ricorrere a schemi alternativi, soprattutto nel reclutamento, che consentano di premiare davvero il merito al di fuori delle logiche clientelari e baronali. Come rispondete a questa obiezione?

     Parlando di trasformazione dell’università in senso neoliberale, abbiamo chiamato in causa alcuni aspetti concreti: una ricerca che segue la logica del profitto misurata in termini puramente quantitativi, la precarizzazione crescente, un sistema concorrenziale che inasprisce le disuguaglianze, premiando i più forti e punendo chi è più debole. Allo stesso modo, la diminuzione dei fondi strutturali, di contro a un aumento delle quote premiali e all’istituzione dei dipartimenti di eccellenza, non fa che accrescere il divario tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei. Questi processi, ampiamente studiati nella loro matrice neoliberale, sono l’ostacolo più grande per un’università che tuteli fino in fondo il diritto allo studio e al lavoro. Cosa vuol dire premiare il merito in un contesto in cui le profonde disuguaglianze sociali, regionali, di genere determinano in larga misura già in partenza le prospettive di chi si affaccia al mondo universitario? La critica al clientelismo e al baronato (che non sono peraltro connaturati, come qualcuno sembra pensare, all’intervento statale) è condivisibile, ma non basta rimuovere la corruzione perché il sistema funzioni in modo giusto. C’è invece bisogno di un impegno concreto per colmare questi divari; altrimenti la retorica del merito è solo un comodo strumento di autoassoluzione per i più forti.

     Un’altra critica che ha investito il vostro discorso ha rilevato una forma di incoerenza, se non di ipocrisia, nella vostra posizione: contestate le regole di un gioco che avete scelto, le dinamiche di un sistema del quale volete far parte. Spesso, e storicamente in Italia è avvenuto di frequente, la contestazione è l’anticamera della cooptazione. Riuscite a spiegare questa apparente contraddizione?

     Scrivendo il discorso, abbiamo cercato di condensare l’esperienza e le riflessioni di un percorso comune, cominciato sette anni fa. Quando ci siamo affacciate e affacciati al mondo universitario, nessuno/a di noi ha scelto le regole del gioco: in questi anni abbiamo maturato delle posizioni condivise su un sistema che non ci piace e nel quale siamo tutte e tutti immersi. Ci hanno criticato perché troppo giovani per esprimere delle posizioni articolate sull’università e contemporaneamente perché a diciotto anni avremmo dovuto già capire tutto e agire di conseguenza. La critica è un po’ sterile: significherebbe pensare che non si può mai contestare lo status quo dall’interno o cercare di cambiarlo. Vorrebbe dire che, ritrovandoci parte di un gioco che non ci piace, non c’è spazio per altro che un’accettazione passiva o una rinuncia totale. Sappiamo che il nostro raggio d’azione è limitato, ma non vogliamo rinunciare a fare qualcosa per cambiare un sistema che ci appare profondamente malato. Anche la scelta di denunciare, da una posizione di privilegio, queste ingiustizie nasce dalla consapevolezza che avere un palco come la cerimonia dei diplomi è una tra le molte opportunità in più che abbiamo avuto. Non abbiamo detto nulla di nuovo, ma speriamo di aver portato questi temi un po’ più al centro del dibattito pubblico, soprattutto all’interno del mondo accademico. Abbiamo cercato di dare voce a quello che moltissime persone vivono e pensano. E infatti sono state in moltissime e moltissimi a scrivere, da tutto il mondo della scuola e dell’università, dimostrando quanto questi problemi siano sentiti e condivisi.

     Mi pare che certi meccanismi di “oppressione” all’interno del sistema universitario siano legati a una concezione estremamente verticale del sapere, che la Normale ha contribuito a edificare: l’idea che la formazione universitaria sia un percorso di imitazione di modelli inarrivabili, di emulazione dei grandi maestri, di innalzamento al di sopra della “medietà”, verso l’eccellenza. Forse è questa idea stessa della conoscenza che va superata? Forse occorre migrare da un paesaggio della conoscenza dominato da grandi vette inespugnabili a un paesaggio più orizzontale e frastagliato?

     Certamente l’idea della formazione e della ricerca andrebbe rivista in senso più orizzontale e cooperativo. Un’università che introietta la spinta alla competizione, alla produttività, al publish or perish è problematica non solo per il benessere di chi in quel mondo ci lavora, ma per la qualità stessa della formazione e della ricerca che vi si praticano. La retorica del merito e del talento fornisce poi spesso un comodo alibi per deresponsabilizzare chi dovrebbe impegnarsi a promuovere un’università inclusiva, che abbatta le differenze e dia a tutte e tutti l’occasione di un percorso formativo di qualità. Oltre che di una maggiore cooperazione tra chi insegna e chi impara, ci sarebbe bisogno di scardinare la spinta verso una competizione individualista e malsana. Il lavoro a più mani andrebbe incoraggiato anche in campo umanistico, mostrando come le competenze individuali risultino potenziate in un progetto collettivo.

     Oltre un anno di didattica – e di ricerca – a distanza ha stressato le forme consuete della vita universitaria. Credete che le pratiche sperimentate durante l’emergenza possano depositare delle trasformazioni permanenti, o si tratta solo di misure da superare al più presto? Potrebbe una mutazione delle forme della didattica e delle superfici stesse del mondo universitario (dei luoghi, dei ruoli, delle funzioni) contribuire a scardinare, inaspettatamente e paradossalmente, le dinamiche tossiche di gestione e organizzazione?

     La DAD ha lasciato un’impronta profonda sull’università – come sulla scuola – ed è probabile che alcune delle forme sperimentate in questo anno e mezzo diventino acquisizioni durature. Anche se ci sono strumenti interessanti, che possono aiutare a raggiungere più facilmente persone e contenuti, le disuguaglianze restano e rischiano di essere accentuate da una didattica e una ricerca svolte a distanza. Anzitutto, l’università è uno spazio sociale, in cui condividere storie, idee, percorsi. Studiare da soli nella propria camera fissando uno schermo per ore non è frequentare l’università. Con l’uscita dalla pandemia, per garantire a tutte e tutti di godere fino in fondo di una formazione di qualità, c’è bisogno di investimenti concreti nel diritto allo studio, non di un ripiegamento al ribasso su un sostituto dell’accademia ancora più impersonale e individualista. Un altro problema, condiviso con il lavoro da casa, è poi quello dei costi delle attività a distanza (elettricità, internet,…), scaricati sulle studentesse e sugli studenti. Oltre alle ragazze e ai ragazzi penalizzati perché appartenenti a categorie con bisogni educativi speciali, l’apprendimento e la ricerca a distanza respingono ciascuno/a nel proprio contesto di provenienza, radicalizzando ancora di più le disuguaglianze.

     Domanda impossibile ma inevitabile: come immaginate l’università del futuro?

    Innanzitutto un’università rifinanziata: solo così sarebbe possibile immaginare un’accademia impegnata a garantire a tutte e tutti il pieno diritto allo studio e opportunità formative più eque. Non ci immaginiamo un’università priva di strumenti di valutazione, ma questi strumenti vanno rivisti criticamente, senza limitarsi a una standardizzazione della conoscenza in termini puramente quantitativi. Probabilmente il modo migliore per trovare una soluzione sarebbe ripensarli democraticamente, anche a costo di diversificarli per settore. Pensiamo poi a un’università come spazio sociale, di riflessione e di critica continue, tra chi studia e chi lavora.

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