Dai sogni dell’inventore del web Tim Berners-Lee agli incubi svelati dal fondatore di WikiLeaks Julian Assange. I protagonisti rispettivamente del primo e dell’ultimo episodio di Web Side Story – la serie dedicata a 11 momenti fondamentali della storia del web e di internet da oggi disponibile su RaiPlay e non solo – potrebbero essere i simboli della parabola che il mondo digitale ha vissuto negli ultimi 25 anni: dalla entusiasmante diffusione del web resa possibile dalla decisione di Sir Berners-Lee di rilasciarne liberamente lo standard senza brevetti di alcun tipo (rinunciando a immensi guadagni), alla battaglia personale (pagata a carissima prezzo) di Assange per la diffusione di documenti top-secret, che ha mostrato una volta di più ai governi del mondo come la libertà d’informazione garantita da internet possa nascondere serissime insidie.
In mezzo, l’irrazionalità finanziaria di fine anni ’90 che diventa la colossale bolla delle dot.com. Che a sua volta si trasformerà in una sorta di rigidissima selezione naturale dalla quale emergeranno alcuni dei colossi di oggi (primo fra tutti, Amazon). Ma anche le nuove opportunità per la politica dal basso rese possibili da piattaforme come MeetUp (che in Italia avranno un ruolo cruciale nel successo degli Amici di Beppe Grillo, poi divenuti il Movimento 5 Stelle), la nascita della gig economy con Amazon Mechanical Turk e le rivolte in Iran rese note in tutto il mondo tramite i social network.
Web Side Story vive sulla tensione tra libertà e controllo che è diventata la cifra della storia di internet
Al netto di qualche episodio più edificante o leggero – dedicato per esempio alla nascita dei flash mob o alla rivoluzione della fruizione televisiva vissuta con Lost, primo show a vivere anche attraverso i forum online –, una buona parte del racconto di Web Side Story vive sulla tensione tra libertà e controllo che è diventata la cifra distintiva della storia di internet. Da questo punto di vista, gli ultimi due episodi – dedicati alle rivolte in Iran e a WikiLeaks – sono forse i più emblematici: l’Onda Verde iraniana è stata conosciuta in tutto il mondo grazie alla libera circolazione dell’informazione garantita da Twitter; allo stesso tempo, oggi, sono proprio gli strumenti digitali che permettono un controllo sempre più ferreo sulla popolazione, mentre la internet unica e globale (che per alcuni è però “americana”) si divide in una serie di internet locali e separate: in Cina, in Russia, in Etiopia, a Cuba e anche proprio in Iran.
Libertà e controllo, dunque: un dualismo che nel caso di Julian Assange fa esplodere anche le contraddizioni delle democrazie occidentali, che si scoprono fondate sulla libertà d’espressione e sulla trasparenza solo quando fa comodo. E non, per esempio, quando si tratta di far sapere all’opinione pubblica che cosa davvero avvenga dietro agli interventi militari in Iraq o in Afghanistan, propagandati come missioni per esportare la democrazia nel mondo. E quindi, Chelsea Manning – il militare che ha girato i documenti riservati, compreso il celebre video Collateral Murder – è un’eroina della libertà o una spia traditrice che ha boicottato la sua stessa nazione?
E che dire invece della gig economy, l’economia ultraliberista resa possibile dalle piattaforme online, che promette libertà al lavoratore ma implementa un controllo totale su di esso (per esempio, attraverso il ranking) e lo priva inoltre di qualsiasi tutela? Da questo punto di vista, è emblematico il caso di Amazon Mechanical Turk, la piattaforma di Amazon presentata nel 2006 da Jeff Bezos con parole che all’epoca potevano sembrare (forse) simpatiche, ma oggi fanno venire i brividi: “Avrete sentito parlare di software-as-a-service, questo è praticamente people-as-a-service”. La gente come un servizio, o meglio: come una forza lavoro disponibile 24 ore al giorno, sette su sette, in tutto il mondo, per eseguire compiti ultraripetitivi (etichettare foto, lasciare commenti sui forum, correggere refusi, trascrivere parole e altro) che le intelligenze artificiali non sono però ancora in grado di fare.
Un progetto nato dalla struttura di Inclusione Digitale della Rai, che ha un compito essenziale: la divulgazione della cultura digitale e dell’innovazione
Si potrebbe pensare che siano lavori talmente noiosi che anche gli algoritmi si rifiutano di farli. E così, per dirla ancora con Jeff Bezos, “non se ne occupa l’intelligenza artificiale, ma una finta intelligenza artificiale”. Vale a dire: l’essere umano, pagato dai 5 ai 15 centesimi per ogni singolo compito svolto, in una feroce competizione al ribasso svolta ai quattro angoli del globo in cui il compenso medio è di circa 2 dollari all’ora. Un sistema che diventerà la base per lo sviluppo di Uber, Deliveroo, Feverr e tutte le altre piattaforme che offrono – come sintetizzò l’Economist – “lavoratori alla spina”.
Web Side Story ripercorre in episodi da circa cinque minuti l’uno luci e ombre di internet, dando spazio a tutti gli aspetti che hanno segnato la storia di internet e ancor più quelli in cui internet ha segnato la storia. Un progetto nato dalla struttura di Inclusione Digitale della Rai, che ha un compito essenziale: la divulgazione della cultura digitale e dell’innovazione. In un paese in cui la maggior parte della popolazione ritiene che internet e web siano sinonimi, per colmare il digital divide non basta ampliare la copertura della banda larga: è fondamentale diffondere la conoscenza e scoprire le tappe essenziali del viaggio digitale.
Un lavoro reso ancora più importante da un aspetto non scontato: parlare di “struttura Rai dedicata all’inclusione digitale” rischia di far pensare a polverosi corridoi di Saxa Rubra in cui canuti dipendenti preparano filmati che raccontano il mondo “telematico” con una verve da bianco e nero. Per fortuna, le cose sono andate in maniera completamente diversa: Web Side Story è un programma che, dal punto di vista narrativo e anche grafico, si avvicina più a prodotti come In Poche Parole (Netflix) che al classico filmato di Rai Educational.
Peccato solo per la durata molto breve: è un merito degli autori essere riusciti a esplorare con completezza i temi raccontati in così poco tempo, resta il fatto che una durata magari di 20 minuti – com’è il caso della già citata serie di documentari di Netflix – non avrebbe certo guastato. Alcuni limiti e pregiudizi “molto italiani” (per dirla con Stanis Larochelle) li stiamo forse superando, non ancora il mantra secondo cui un prodotto destinato ai giovani debba avere una durata limitatissima.