Le norme di Gadda e le norme di Facebook, ovvero, cos’è un editore

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    È appena stato ripubblicato da Adelphi un famoso librino, di cui mancava da tempo un’edizione: Sono le tanto citate (e poco lette) Norme per la redazione di un testo radiofonico di Carlo Emilio Gadda, che la Rai, dove lo scrittore lavorò tra il 1950 e il 1955, pubblicò nel 1953.

    Nel 1953 non esistono ancora trasmissioni televisive in Italia (inizieranno l’anno successivo) e per tutti gli anni cinquanta la radio rimarrà ancora lo strumento di comunicazione più diffuso.

    La radio dell’epoca si fonda su un’oralità fortemente ancorata a un testo scritto. Quello che viene detto al microfono, deve essere prima scritto (e approvato dalla Rai). Per questo Gadda scrive queste “norme”, per socializzare agli autori radiofonici una serie di regole comuni. Involontariamente, il testo rappresenta anche un momento di riflessione sul codice radiofonico, che ancora aveva ricevuto pochissima attenzione teorica. Per la prima volta si teorizza in Italia che la scrittura per la radio, per essere “detta” al microfono, deve assumere forme più semplici, più dirette, più colloquiali, più brevi rispetto all’Italiano scritto. Le norme sono solo 11, ma suonano comunque radicali per gli intellettuali italiani chiamati a collaborare con la Rai e abituati ad un uso colto della lingua scritta:

    “6. Evitate le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. (…) Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litòti. Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei “non”.”

    Gadda aveva capito che la radio era uno strumento di “politicizzazione dell’arte”, come direbbe Benjamin, aveva il potere di arrivare a vaste masse, anche illetterate, a patto che fosse comprensibile e che il linguaggio si adattasse al mezzo. Aveva capito che il mezzo era il messaggio, e che ne determinava molto la ricezione.

    Ma detto questo, a cosa ci serve rileggere oggi questo libro? La radio di Gadda è morta, o quasi, la maggior parte della programmazione radiofonica non si basa più su un testo scritto ma sull’improvvisazione orale dei conduttori e soprattutto, oggi l’informazione ha preso a circolare anche altrove, lontana dalla radio.

    Il testo di Gadda può essere letto come una riflessione generale sui processi di “editing” e gatekeeping di ogni lavoro editoriale che preveda, come prodotto finale, la pubblicazione di un testo. Il testo di Gadda è un testo sulla natura dell’editore, su cosa significa fare l’editore, cioè imporre delle norme alla forma che un testo deve prendere per poter essere pubblicato. Gadda sta parlando, ancora oggi, a chi si trova nella condizione di scrivere un testo diretto a un vasto pubblico di lettori e mediato da una tecnologia di comunicazione, ieri la radio, oggi Facebook.

    Voi direte che la radio di Gadda del 1953 e Facebook sono molto diverse tra loro: nel primo caso c’erano dei gatekeepers (il caporedattore, i suoi collaboratori) che decidevano se un testo poteva essere pubblicato e degli autori che producevano quel testo, mentre Facebook non è un editore, direte voi, è un aggregatore di contenuti prodotti al di fuori della propria sede.

    Questo è ciò che Facebook vuole far credere, per evitare problemi, ma non è quello che Facebook fa. Facebook è un editore, anche se molto particolare, perché esercita un controllo (gatekeeping) su testi prodotti non internamente, come accadeva per la radio, ma esternamente, in crowdsourcing. Zuckerberg sostiene che Facebook non è una media company, non è un’azienda mediale, ma questa affermazione è strategica e inaccurata: strategica perché è una posizione che gli permette di tenersi lontano, almeno per ora, dagli obblighi di legge ai quali deve assolvere un’azienda dei media, inaccurata perché non è vero che Facebook è “solo” un aggregatore.

    Chi pubblica su Facebook deve rispettare una lunga lista di “norme editoriali”, molto più lunghe e articolate di quelle scritte da Gadda nel 1953. E chi non le rispetta fa la stessa fine di chi non rispetta le norme di Gadda: “la mancata osservanza di dette norme e cautele, può rendere “intrasmissibile” uno scritto anche se per altri versi eccellente. La direzione del Programma si viene a trovare, nel tal caso, nell’ingrata condizione di non poterlo mandare in onda” (Gadda, 1953, p. 11).

    Queste invece sono le “inderogabili norme e cautele” (direbbe Gadda) che invece Facebook applica ai propri fornitori di contenuti:

    Non pubblicare contenuti che mostrano nudità e/o attività sessuali inappropriate
    Non pubblicare contenuti che incoraggiano la violenza diretta o la criminalità
    Non pubblicare contenuti che incoraggiano il bullismo e le intimidazioni
    Non pubblicare discorsi di incitazione all’odio
    Non pubblicare ingiustificatamente contenuti violenti e immagini forti
    Non incoraggiare l’autolesionismo

    Queste sono le norme generali estratte dalla pagina “Standard della Community” di Facebook. Tra queste norme vengono citati e descritti i contenuti “deplorevoli”. Ecco, chi decide cosa è “deplorevole”? Chi decide quali contenuti possono rimanere sulla piattaforma e quali devono essere cancellati, perché “deplorevoli”? Lo decide il team che lavora alla moderazione dei contenuti Facebook. La “moderazione” è un’attività di “editing” ex post invece che ex-ante, come avveniva nell’epoca della radio, ma rimane comunque un’attività editoriale: un gruppo di umani interagiscono tra loro e decidono le regole per essere pubblicati. Questo si chiama fare l’editore.

    Il fatto che Facebook sia un editore, anche se molto particolare, non è la prima cosa che percepiamo quando lo utilizziamo, perché la moderazione che avviene costantemente all’interno della piattaforma, è invisibile agli occhi dei più. Facebook si presenta come una piattaforma che abilita la pubblicazione di contenuti ma rimane il più silenziosa possibile riguardo la quantità di contenuti che invece rimuove dalla piattaforma.

    Eppure, stando a quanto racconta questo reportage di Motherboard, Facebook ha un “policy team” composto da avvocati, professionisti delle pubbliche relazioni e esperti di gestione delle crisi che lavoro alla revisione costante delle regole, che vengono fatte rispettare da un esercito globale di 7.500 moderatori umani. Nel caso di Facebook, i moderatori agiscono (o decidono di non agire) sul contenuto segnalato dall’intelligenza artificiale o dagli utenti che ritengono abbia violato le regole.

    L’intelligenza artificiale è molto efficace nell’individuare pornografia, spam e account falsi, ma non ancora nell’identificare i discorsi di incitamento all’odio.

    Ciò che leggete su Facebook è solo la punta dell’iceberg di ciò che viene costantemente moderato, rimosso, bannato dall’esercito di editori che lavorano rispettando scrupolosamente le norme stabilite da un team di “gatekeeper”, che, se venissero pubblicate in un libro, sarebbero molto più corpose delle 11 regole di Carlo Emilio Gadda.

    Il nuovo libro di Tarleton Gillespie, Custodians of the Internet (Yale, 2018) si spinge ancora più in là e sostiene che la vera merce che piattaforme come Facebook offrono, non sono i contenuti, ma la moderazione stessa. Ciò che rende economicamente rilevante Facebook agli occhi degli investitori pubblicitari e agli occhi degli investitori finanziari è la capacità di Facebook di moderare il flusso di contenuti tanto da rendere la piattaforma un posto abbastanza attraente e ricco di contenuti, evitando contenuti che possono “disturbare” l’utente e farlo smettere di utilizzare la piattaforma.

    Gillespie ci dice che la moderazione dei contenuti non va compresa come un’attività occasionale, a cui le piattaforme sono costrette, ma al contrario è un aspetto fondamentale del servizio che offrono. Capire come funziona la moderazione, ci aiuta a capire meglio cosa sono e quale ruolo sociale ed economico hanno le piattaforme. Poca moderazione darebbe spazio a troppi contenuti divisivi e conflittuali, che potrebbero generare una perdita di utenti. Troppa moderazione trasformerebbe la piattaforma in una caserma di psico-polizia, dove nessuno si sente più libero di dire nulla, e anche questo provocherebbe una diminuzione degli utenti o del tempo passato sulla piattaforma. In entrambi i casi, la perdita di utenti porterebbe a meno introiti pubblicitari e a una caduta della fiducia degli azionisti sulle potenzialità di crescita dell’azienda e di conseguenza a una caduta del valore delle azioni di Facebook.

    Ecco perché secondo Gillespie la moderazione è il vero valore commerciale di Facebook. Se la moderazione del linguaggio e dei contenuti è così centrale per le sorti dell’azienda, allora Facebook non può non essere considerato un editore.

    La radio di Gadda e la radio di Zuckerberg si sono date entrambi delle norme per “dare forma” ai contenuti. Le piattaforme non li producono direttamente, ma prendono comunque molte decisioni importanti sulla loro forma e sulla loro circolazione (pensate all’algoritmo che stabilisce cosa dovete vedere e cosa no).

    Leggere Gadda quindi ci aiuta a capire meglio non solo la radio, ma tutte le attività editoriali. Comparare Gadda con le norme di Facebook ci aiuta a porre sulla stessa linea evolutiva la radio e Facebook. Quest’ultimo rappresenta l’ultima tappa di un processo evolutivo dei mass media con cui condivide molte radici, anche se non tutte.

    Finora ci era stato detto che la radio e la tv e i giornali funzionavano secondo logiche editoriali, e che il contenuto era affidabile perché c’erano degli esperti che selezionavano per noi. Al contrario abbiamo rappresentato i social media come lo spazio della disintermediazione dagli esperti, dai gatekeeper, dalle logiche editoriali del broadcasting.

    Rileggere Gadda ci aiuta a riconsiderare questo dualismo, a collocare anche i social media all’interno di logiche di filtraggio e selezione che non dipendono dagli utenti e sui quali non abbiamo il controllo.

    Ci siamo liberati, quasi, dell’intermediazione dei mezzi di massa precedenti, per poi lasciarci re-intermediare dalle piattaforme digitali. In mezzo, per un attimo, abbiamo visto e navigato per il mare aperto del web, quello 1.0, ma poi abbiamo preferito lasciarci circondare da altre mura, da altri “walled gardens” all’interno dei quali esercitiamo una pallida versione di libertà d’espressione individuale.

    Allora a questo punto qualcuno giustamente dirà: “se anche fosse così, allora i media passati non erano comunque migliori, perché anch’essi esercitavano un controllo su ciò che poteva essere pubblicato o meno”.

    E però c’è una differenza sostanziale: il processo editoriale a cui venivano sottoposti i contenuti in passato era più trasparente, o per lo meno, col tempo è stato studiato e reso pubblico e più comprensibile.

    Oggi i processi editoriali e algoritmici che insieme strutturano i contenuti sulle piattaforme sono molto più opachi, invisibili e refrattari alla ricerca scientifica. L’articolo di Motherboard che svela le regole della moderazione di Facebook si fonda su leak, una fuoriuscita illegale di documenti, altrimenti inaccessibili. Il libro di Gillespie è l’unico libro di una certa profondità uscito sul tema.

    Chissà cosa succederebbe ai nostri post se provassimo a scrivere su Facebook rispettando le norme di Gadda. La radio di Gadda “censurava” le catene di negazioni, Facebook censura i testi “deplorevoli”. Se Gadda oggi potesse sedere al tavolo di redazione del policy team di Facebook, farebbe passare per deplorevoli tutti quei testi contenenti catene di litòti? Questo per dire che il confine tra ciò che è deplorevole e ciò che non lo è, non è un confine oggettivo, ma socialmente situato, frutto di pregiudizi culturali e stereotipi acquisiti.

    Il lavoro dell’editore non è mai stato neutrale. Ecco perché servirebbero molti più libri come quello di Gadda, che svelino però le “norme inderogabili” delle piattaforme alle quali ogni giorno affidiamo le nostre idee “originali”, il nostro limitatissimo “ingegno”.


    Immagine di copertina: ph. frederik danko da Unsplash

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